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martedì 29 giugno 2010

CAPITOLO 3- VIOLA GAMBON


L'agente Cartbury si era svegliato di soprassalto nel suo letto: sudava copiosamente e per tutte le poche ore in cui era riuscito a dormire non aveva fatto altro che sognare l'uomo con il proiettile nell'occhio. Lo fissava e commentava, con voce fredda e non umana: "La sua corsa è buona almeno quanto la sua mira, agente". Come poteva essere? Com'era possibile che quell'uomo fosse ancora vivo? Eppure era certo di non avere sognato: l'aveva visto davvero, sapeva di averlo visto. Lo sceriffo non aveva fatto ulteriori domande al giovane, ma era certo che qualcosa era successo. Cartbury scese dal letto e si diresse al piano inferiore; era a West Coburn solo da tre anni ma già prima del suo arrivo aveva trovato il modo di affittare la tranquilla villetta in cui viveva ora ad un ottimo prezzo: viveva da solo, è vero, ma gli piaceva avere spazio e poteva permettersi quella casa dal momento che la sua famiglia era ricca. 'Già' pensò 'I miei sono ricchi e non volevano che finissi qui, a fare l'agente'. A dire il vero i suoi genitori si erano opposti fermamente alla sua volontà di entrare in polizia, ma non avevano fatto nulla di concreto per fermarlo, anche se avevano minacciato di tagliargli i fondi. A lui non era importato ed anzi aveva continuato a tentare e ad impegnarsi fino a che non era diventato agente; a quel punto i suoi genitori avevano messo da parte l'orgoglio e avevano accettato a malincuore la sua decisione. Era stato anche grazie al loro aiuto se era riuscito ad ottenere il trasferimento a West Coburn dopo l'orribile incidente di cui si era reso responsabile a Philadelphia: suo padre aveva oliato qualche ingranaggio per evitargli il peggio e gli aveva dato denaro sufficiente a mantenersi da solo.
Nei tre anni che aveva passato a West Coburn aveva sempre cercato di allontanare il suo passato, anche se tornava a tormentarlo nei ricordi. Negli ultimi mesi, tuttavia, era quasi riuscito a perdonarsi per quello che aveva fatto e forse avrebbe potuto tornare ad essere sereno se non avesse visto quello che aveva visto quel pomeriggio. Entrò in cucina e prese una coca da frigo: la bevve d'un fiato, senza badare alle bollicine ghiacciate che gli ferivano la gola come lamette. Ruttò silenziosamente e si appoggiò con la schiena al pianale della cucina, cercando di pensare ad altro, ma sapeva che non ci sarebbe riuscito. All'improvviso sentì un rumore strano, come se qualcosa stesse grattando contro la porta d'ingresso: sussultò leggermente e andò a controllare; il rumore aumentava sempre di più. Cartbury si avvicinò alla cassettiera del salotto e aprì il primo cassetto: afferrò la pistola -non quella d'ordinanza, ma una Glock che gli aveva lasciato suo nonno in eredità- e si avvicinò all'ingresso con la mano che tremava. Ora che era davanti alla porta d'entrata sentiva un altro rumore che si era aggiunto al continuo raspare: era come una sorta di rantolo soffocato, quasi catarroso; girò lentamente la maniglia, pronto a sparare. Aprì la porta di scatto e non appena vide quello che aveva davanti premette il grilletto urlando terrorizzato.
La pistola esplose tre colpi: tutti e tre centrarono l'uomo con il foro di proiettile nell'occhio ma non sembrarono scalfirlo, anzi parvero venire ingoiati dal suo corpo per poi sparirvi dentro senza lasciare tracce, come se fosse fatto di gelatina viscida. Cartbury fece un passo indietro e cadde sdraiato dentro casa, sempre con gli occhi puntati sull'uomo che aveva di fronte: era la stessa persona che aveva visto quel pomeriggio, con un foro di proiettile sanguinante al posto dell'occhio destro. Un rivolo di sangue colava con disgustosa lentezza dalla ferita, che sembrava fresca, e una macchia rossastra e rappresa macchiava la polo azzurra che l'uomo indossava; guardando Cartbury a terra con l'occhio buono avanzò ed entrò in casa, chiudendo la porta.
"Tu..." boccheggiò Cartbury quasi in lacrime, mentre si rialzava "Cosa diavolo sei?" ebbe il coraggio di gridare. La pistola a quanto pare non serviva a nulla: l'agente ripensò a come i proiettili lo avevano colpito senza arrecare alcun danno.
"Agente Cartbury" esordì l'uomo, parlando con una voce decisamente non umana, come se fosse contraffatta "Non ha nulla da temere. Vede, potrei ucciderla semplicemente sfondandole la trachea con questo mio dito" continuò, mostrando l'indice della mano destra "Ma se lo facessi poi non potrei più chiederle un favore di cui ho un gran bisogno".
"Un favore?" mormorò Cartbury, terrorizzato. Quell'uomo era morto. Morto!
"Oggi pomeriggio avete trovato il corpo di un ragazzo. E mentre giocavate a fare i bravi detective a West Coburn è arrivato uno straniero. Qui entra in gioco lei, agente".
"Non capisco" disse Cartbury. Stava sognando. Doveva essere così. Voleva che fosse così.
"Poco fa è stata uccisa un'altra persona nello stesso luogo in cui avete trovato il giovane Turner. Salga in macchina e vada là. Io verrò con lei" e sorrise, strabuzzando leggermente l'occhio sinistro, mentre il foro nel destro si dilatò facendo colare altro sangue nerastro.
"cosa? Io non posso, io..." cercò di dire Cartbury ma non appena l'altro capì che non aveva intenzione di aiutarlo lo afferrò alla gola e successe una cosa strana: all'improvviso la sua mente si rilassò e non riusciva più a sentirsi preoccupato. sapeva solo di dover salire in macchina assieme al suo amico senza un occhio: tutto andava bene, si sentiva contento e desideroso di ubbidire.
"Certo, amico" disse Cartbury con un sorriso ebete stampato in volto "Andiamo là".
"Bene. Deve far sparire il corpo , agente. Non vogliamo che lo sceriffo ne trovi un altro morto, vero? Altrimenti lo Straniero potrebbe allarmarsi e noi questo non lo vogliamo". disse l'uomo lasciando la presa sull'agente.
"Certo. Lo Straniero ci serve" rispose cartbury, ormai soggiogato.
"Esatto: ci serve. Ora andiamo, agente" e insieme si avviarono verso l'auto parcheggiata nel vialetto. Cartbury salì in auto, felice di avere il suo nuovo amico accanto a se. Gli spari di poco prima non avevano svegliato nessuno, ma se così fosse stato chiunque avesse visto la scena si sarebbe accorto che l'agente Cartbury era da solo nell'auto mentre partiva.


Il mattino seguente lo sceriffo Gambon si era svegliato di buon ora e aveva deciso di non fare colazione a casa, così si era recato alla tavola calda di Spike, in centro: facevano un ottimo caffè e conosceva Spike da una vita, avrebbe fatto quattro chiacchiere con lui prima di fare quello che non avrebbe mai voluto fare. Quando il giorno prima lui e Cartbury avevano rinvenuto il corpo di Pat Turner aveva pensato a come dare la notizia ai genitori del ragazzo. Al momento del ritrovamento si trovavano fuori città, ma sarebbero tornati entro poche ore; così Gambon quella mattina avrebbe dovuto bussare alla loro porta e forse li avrebbe trovati ancora intenti a disfare i bagagli perchè erano tornati da poco dalle vacanze e non avevano trovato strano il fatto che loro figlio non fosse in casa: spesso non tornava per dormire. Ma questa volta avrebbe dovuto dirgli che il loro unico figlio non sarebbe tornato a casa mai più ed era un'idea che detestava, visto che conosceva Susan e James da sempre; avrebbe voluto portare Cartbury con lui, ma il ragazzo non si era fatto vivo in centrale e non rispondeva alle chiamate. Doveva essere davvero sconvolto per qualcosa che era successo il giorno prima: aveva intenzione di vederci più chiaro, ma se il giovane al momento era ancora sotto shock allora non voleva obbligarlo a prendere servizio, almeno per quel giorno. Una cosa lo lasciava perplesso: era passato davanti alla casa dell'agente e aveva notato che la sua auto non era posteggiata nel vialetto come al solito. Dove diamine era andato a finire?
Dal momento che Cartbury non si era presentato aveva chiesto a Viola di andare con lui dai Turner e le aveva dato appuntamento alla tavola calda per le dieci e mezza.
Mancava ancora qualche minuto all'ora stabilita e Gambon sedeva su un alto sgabello davanti al bancone, sorseggiando il suo caffè; stava pensando alla serie di impronte sconosciuta che compariva dal nulla e si affiancava a quelle lasciate dal giovane Turner: di chi diavolo erano e perchè comparivano all'improvviso? Mentre pensava a tutta la faccenda, che incominciava a preoccuparlo, notò un uomo alto, con i capelli biondi leggermente radi e due occhi azzurri e penetranti che si sedette a fianco a lui. Aveva certamente meno di quarant'anni e aveva un viso segnato da profonde rughe di stanchezza, ma tutto sommato poteva essere considerato un bell'uomo, anche se aveva gli occhi colmi di tristezza. Ordinò anche lui un caffè e incrociò lo sguardo di Gambon, il quale tese una mano verso lo sconosciuto e si presentò: "Buongiorno. Lei non mi conosce, io mi chiamo Hannibal Gambon. Sono lo sceriffo di West Coburn".
L'uomo strinse la mano di Gambon e disse: "Molto piacere. Mi chiamo Joseph. Joseph Blonde".
"Il piacere è mio. Non l'ho mai vista nei dintorni, è di passaggio?" chiese educatamente Gambon. Non sapeva perchè ma quell'uomo lo incuriosiva.
"No, in verità ho accettato la cattedra di Lettere al liceo locale" rispose Joseph.
"Ah allora è il nuovo professore che aspettavamo!" esclamò Gambon allegro "Caro Joseph sono lieto di darle il benvenuto qui a west Coburn. Le piacerà se ama..." ma Joseph finì la frase per lui.
"... i posti tranquilli. Lo so, me lo ha già detto un tale che ho conosciuto ieri sul treno".
"Ha già fatto la conoscenza di qualcuno del posto?" domandò lo sceriffo.
"Un uomo molto gradevole, Langstorm" fece una pausa "E un altro tizio a dir poco snervante, un tale di nome Criswell".
"Ah non ci faccia caso" ribattè Gambon "Langstorm è un po' suonato, ma è un tipo a posto. In quanto a Criswell... beh è semplicemente odioso".
"A dir poco" sorrise Joseph "Ma mi chiami pure Jo".
"D'accordo, Jo. Ha già fatto un giro qui intorno?".
"Non ancora, ma contavo di farlo oggi pomeriggio. Per il momento voglio godermi un po' della vostra tranquillità".
"Di quella ne avrà finchè vuole" disse Gambon, ma mentre diceva questo gli venne in mente il viso senza vita di Pat Turner e gli si strinse il cuore.
Chiacchierarono ancora qualche minuto, parlando del più e del meno, quando lo sguardo di Joseph si posò sulla persona che era appena entrata nel locale. A poca distanza da lui e lo sceriffo, immobile, stava una ragazza stupenda e il tempo sembrò bloccarsi: era alta, con i capelli neri lunghi, fluenti e leggermente mossi; il naso era grazioso, all'insù e tempestato di lentiggini, ma furono gli occhi a colpirlo: erano splendidi, con un taglio come due gocce orizzontali in cui erano incastonate due gemme castano scuro, due occhi profondi e penetranti che si guardavano intorno come a cercare qualcosa o qualcuno. Aveva la pelle chiara, il che faceva risaltare le lentiggini e le sopracciglia arcuate e perfette, ma Joseph stava già guardando le sue labbra, al momento leggermente arricciate e piegate in una sorta di sorriso, appena spostato verso destra: dovevano essere straordinariamente morbide, pensò. Indossava un paio di jeans blu e una maglietta a righe rosse e bianche, leggermente attillata e che metteva in risalto le forme morbide dei fianchi e dei seni; il tutto era completato dal paio di occhiali con la montatura in plastica trasparente che indossava, con le lenti rettangolari: l'effetto complessivo era incredibile. Lo sguardo di Joseph indugiò sull'ovale del viso e sul suo mento delizioso, sulle mani sottili e sulle unghie smaltate di nero, cosa che non le dava assolutamente un aspetto dark, anzi. Joseph deglutì e si rese conto che lo sceriffo lo stava guardando, sembrava che volesse dirgli qualcosa ma non fece in tempo: la ragazza lo chiamò e si avvicinò. Joseph era sbalordito: guardava lo sceriffo e vedeva un uomo che aveva oltrepassato i sessanta, con i capelli ormai ingrigiti e il viso devastato da anni di preoccupazioni, una maschera di rughe; non era un brutto uomo, se si guardava l'età, ma Joseph non poteva credere che la ragazza che lo aveva appena folgorato lo avesse chiamato 'papà'. Aveva capito bene? Era certo di averla sentita chiamare 'papà' guardando lo sceriffo, non poteva essere. Ma quando lei si avvicinò a Gambon e gli stampò un bacio sulla guancia dovette ricredersi: ora che lo guardava meglio, lo sceriffo aveva lo stesso naso e gli stessi zigomi alti che aveva lei.
"Jo" disse Gambon "Ti presento mia figlia Viola". Lei lo fissò e gli piantò addossò quei suoi occhi così vivi: lo stava esaminando.
"Molto lieto" farfugliò Jo, guardandola e cercando di non sentirsi a disagio. Sentiva il profumo di lei invadergli i polmoni: era dolce e sensuale, poteva quasi sentirne il sapore.
"Piacere. Come le ha già detto mio padre io sono Viola. Lei è nuovo di qui vero?".
'Voce calda, bel fisico, assolutamente splendida' pensò Jo. "Si, sono il nuovo insegnante di lettere al liceo locale" rispose.
"Oh" disse lei sorpresa "Allora ci incontreremo spesso".
"Prego?" domandò Jo confuso.
"Viola è psicologa e tre volte alla settimana lavora come consulente presso i ragazzi della scuola. Ascolta i loro problemi e fornisce un adeguato sostegno psicologico per quelli che ne hanno più bisogno" spiegò Gambon.
"In realtà lavoro come psicologa nell'ospedale della Contea, non molto distante da West Coburn" disse lei, facendo guizzare le gemme degli occhi da Gambon a Jo "Il lavoro a scuola lo svolgo per passione. Sono molto brava a capire le persone, soprattutto i bambini e i ragazzi".
Jo non faticò a crederlo: con quella vitalità e quella luce di determinazione negli occhi Viola doveva essere un'ottima dottoressa e si sentiva scrutare nell'animo ogni volta che lei lo guardava. Questo lo spaventava: non voleva che capisse che razza di persona era stato e sapeva di portare le sue colpe nello sguardo perennemente mesto. Probabilmente lei aveva già capito quanto lui fosse triste dentro.
Gambon le chiese come andava il lavoro e lei rispose che stava avendo qualche problema con un paziente, anche se non fece il nome. "Si comporta in maniera insolita" disse "Non era mai stato violento, ma ieri ha quasi strangolato un infermiere. Quando ho cercato di capire perchè avesse cercato di uccidere quell'uomo mi ha risposto con frasi deliranti".
"In che senso?" chiese Jo, ammaliato dalla voce di Viola. lei lo guardò e sorrise, stirando lievemente le labbra e piegando gli angoli della bocca -Jo si sentì morire- e disse: "Non dovrei parlarne, ma visto che è nuovo non può capire di chi si tratta e in ogni caso non farei mai il nome del paziente" fece una pausa "Quando gli ho chiesto il motivo del suo gesto ha iniziato a urlare e a blaterare qualcosa riguardo un pozzo".
"Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo..." mormorò Jo, non sapendo nemmeno il perchè.
"... Ci cade dentro" finì Viola "Come fa a sapere cos'ha detto il mio paziente?" chiese la ragazza sorpresa. Ora lo guardava con diffidenza mista a sorpresa. Quanto era bella, pensò Jo.
"Io... non lo sapevo. Questa frase l'ho sentita da qualche parte tempo fa, credo" si difese Jo.
"Davvero?" disse lei, ma non sembrava affatto credergli "Beh, è molto strano. Sono le esatte parole che ho sentito ieri".
"Forse l'ha letto da qualche parte" disse Jo senza convinzione.
"Forse" mormorò lei. Gambon guardò Jo preoccupato. Guardò l'orologio. Era ora di andare.
"Viola, credo che sia meglio se andiamo dai Turner".
"Si hai ragione" disse Viola e si voltò verso Jo "E' stato un piacere conoscerla, Joseph".
"Mi chiami Jo. E mi dia pure del tu" disse Jo.
"D'accordo, Jo. Spero di rivederti presto" disse lei, con una voce più che mai calda e arricciò un poco le labbra, guardandolo intensamente, socchiudendo appena gli occhi.
"Lo spero anch'io. Buona giornata, Viola. Sceriffo" disse salutando anche Gambon. Lei si allontanò lanciandogli un'ultima occhiata. Jo sentiva che il cuore stava per esplodergli nel petto. Che gli era preso? Si era immaginato quell'occhiata intensa che gli aveva rivolto lei poco fa? Come mai non riusciva a togliersi dalla testa il suo profumo? Jo questo non lo sapeva, ma era certo che Viola Gambon gli aveva lasciato il segno.


Gambon guidava e sua figlia gli sedeva accanto. Era ogni giorno più bella, pensò e mentre sostava davanti ad un semaforo rosso osservo i suoi zigomi morbidi e alti, le sue labbra calde e morbide, i suoi occhi dalle ciglia lunghe. Era identica a sua madre e si notava anche ora che sua moglie non era più giovanissima.
"Che è successo là dentro?" chiese gambon con disinvoltura.
"Cosa vuoi dire?" chiese lei, fingendosi indifferente.
"Jo. mi sembrava che ci fosse qualcosa tra voi poco fa".
"Ma non lo conosco nemmeno!" ribattè lei.
"Sai cosa intendo. Ho visto come ti guardava e ho visto come lo guardavi tu".
"Fai il papà geloso anche ora che ho ventotto anni?" chiese lei, divertita e mostrando un sorriso tutto denti.
"Sempre e comunque" rispose lui, facendo finta di essere serio.
"Non dico che non mi abbia colpita. La frase che ha detto... era proprio quella che ha detto il mio paziente ieri. E poi non dirmi che non hai notato i suoi occhi: sono così belli, eppure così tristi".
"Quindi ti interessa?".
"Papà siamo quasi arrivati" disse lei, punzecchiandolo.
"va bene, va bene" troncò il discorso.
Erano arrivati a destinazione. "Te la senti?" chiese gambon, cauto.
"E' quello che so fare meglio. Ascolto le persone e loro mi parlano. Con Susan e James sarà ancora più facile".
"Non vuoi parlare di..." disse Gambon.
"No. Ora no" rispose lei, decisa.
"D'accordo. Quando vuoi parlarne non hai che da chiedermelo".
"Non adesso. Andiamo". Scesero dall'auto e si diressero verso la villetta rosa dei Turner. Lo sceriffo sentì stringersi un nodo in gola. Ci siamo. Fortuna che aveva Viola con se.

Mentre Viola e Gambon si preparavano a dare la brutta notizia ai Turner, Cartbury vagava nel bosco. Aveva accanto a se il suo amico e si sentiva felice. Aveva preso il corpo e aveva guidato per un po' fino a che non aveva raggiunto l'altra sponda del lago, poi aveva buttato il cadavere in un punto dove nessuno lo avrebbe trovato per molto tempo. Era tornato sul luogo del delitto e si era addentrato nella boscaglia, sempre con l'uomo senza occhio che lo seguiva; era spensierato, perfino allegro: la paura delle ore precedenti lo aveva abbandonato.
"E se volessi vederlo?" chiese Cartbury.
"Non può" disse l'altro "Non può proprio. Non sia curioso, agente. Lo sa qual'è la caratteristica dei curiosi?".
"No" disse Cartbury, come inebetito.
"Sono stolti" continuò l'altro.
"E lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo" ridacchiò stupidamente Cartbury "Ci cade dentro. Lo so".
"Si, agente Cartbury. E nell'acqua del pozzo dorme qualcosa che è meglio lasciare in pace. Solo che questo lo stolto non lo sa".


Nella stanza buia la figura immobile stava tremando leggermente. 'Un buon inizio' pensò 'Le danze proseguono. Straniero... Straniero come fremo per giocare con te'. La stanza era buia, la figura immobile e l'aria densa di malvagità.

giovedì 24 giugno 2010

CAPITOLO 2- QUEL TRENO PER WEST COBURN


L'oscurità era palpabile e lui vi si muoveva goffamente attaverso: sentiva le membra pesanti, come se avesse dei blocchi di cemento attaccati ad ogni braccio e ad ogni gamba. L'unica cosa che riusciva a percepire era il buio, profondo e quasi liquido, immerso in un silenzio inquietante. Ma in realtà c'era qualcos'altro che sentiva: una collera spaventosa che lo bruciava da dentro, gli si accumulava negli occhi facendoli lacrimare e fuoriusciva dalla sua bocca sotto forma di rantolo sommesso. Sapeva in qualche modo di non essere in se, sentiva la rabbia intorpidirgli i sensi e ogni tanto udiva un rumore secco, come se un oggetto duro cozzasse contro qualcosa. Solo dopo pochi secondi si accorse che stringeva qualcosa nella mano destra: portò l'oggetto verso di se e lo tastò con i polpastrelli della mano libera; al contatto era qualcosa di liscio e freddo, compatto. Nello stato confusionale e rabbioso in cui si trovava ci mise più del previsto a realizzare che si trattava di una mazza da baseball in alluminio. D'un tratto gli venne in mente che l'aveva presa per farci qualcosa in particolare, ora gli era tutto chiaro: ora l'oscurità non era più così compatta, gli sembrava che stesse mutando in penombra, gli oggetti che aveva intorno cominciavano a delinearsi.
Si trovava in una casa, senza ombra di dubbio. Di fronte a lui c'era una rampa di scale e in cima ad essa un corridoio
(Il suo corridoio)
Si. Il suo corridoio. Il corridoio dove si trovava la stanza della persona che cercava, ora gli era tornato in mente. Annebbiato dalla collera ormai incontrollabile e da qualcos'altro (alcool forse) iniziò a salire la rampa, ogni passo era pesante e gli costava un certo sforzo; dopo tre scalini però gli sembrò di acquistare nuova forza e le sue gambe si muovevano rapidamente, pestando con forza ogni singolo scalino di legno e facendolo scricchiolare.
"Rhonda!" urlò. La sua voce era spaventosa, sembrava quasi disumana "Vieni fuori! Vieni fuori o ti vengo a prendere!". Perchè la stava cercando? Oh si. Perchè l'aveva tradito
(la lurida cagna!)
era stato tradito e doveva farsi giustizia da solo. Dal corridoio si sentì echeggiare un lamento isterico, come di qualcuno che stesse piangendo sommessamente. Cominciò a correre allora e quando fu arrivato in cima si diresse verso la porta bianca poco distante: era socchiusa e il lamento proveniva da lì.
Con un calcio spalancò la porta e osservò con sguardo feroce lo spettacolo che aveva davanti: una donna bassa e corpulenta con lunghi capelli biondi e ricci, in ginocchio e con il volto rigato da lacrime. Aveva addosso solo una vestaglia da notte e sul letto sfatto lui notò che c'era una valigia aperta e piena di vestiti appallottolati.
"Te ne stavi andando da qualche parte?" chiese lui, minaccioso.
"No, Jo. No te lo giuro" singhiozzò lei cercando di sfiorargli un ginocchio.
"Balle!" gridò lui e la allontanò con un calcio, colpendola sul labbro inferiore, che si spaccò. Adesso lei stava gridando: era terrorizzata e fissava la mazza di alluminio con uno sguardo carico di paura.
"Che cosa guardi, puttana?" urlò lui. 'Dio santo' sentì nella sua testa, come se l'avesse pensato qualcun altro e non lui 'ma sono davvero io questo?'.
Scosse la testa per allontanare la voce e puntò la mazza verso la donna rannicchiata contro il muro: "Pensavi di farmi fesso? Rispondi Rhonda! pensavi di farmi fesso?" gridò, sputando e colando bava.
"No! No, non l'ho mai pensato!" gemette lei.
"Ah no? E allora perchè mi hai tradito? Perchè mi hai tradito? Stavi scappando, lurida schifosa! Da chi cazzo scappavi?" ormai era totalmente fuori di se.
"Sei un mostro, Jo!" ebbe il coraggio di urlargli lei di rimando "Sono mesi che mi metti le mani addosso! Non ho nessuno, Jo!Non ho nessun altro, voglio solo andarmene da te!".
"Andartene da me?" ridacchiò lui follemente "Ma tu non puoi andartene. Tu sei mia. MIA!" e alzò la mazza sulla sua testa, pronto a colpire. Stava succedendo davvero? Stava veramente per colpirla o era tutto frutto della sua fantasia?
(Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo ci cade dentro!).
Di colpo si svegliò. Quella frase assurda lo aveva colpito al cervello come una sciabolata e la stanza era scomparsa, era scomparsa anche la donna accasciata a terra e lui non era più li con la mazza da baseball sollevata, pronto a colpire.
Era sudato e sedeva su una poltroncina di tessuto blu, parecchio scomoda a dire il vero. Voltò la testa e si ricordò di essere sul treno: si era addormentato come al solito e aveva iniziato a sognare. Erano mesi ormai che faceva sempre lo stesso sogno e puntualmente si risvegliava prima che potesse vibrare il colpo sulla donna indifesa. Con gli occhi ancora gonfi di sonno guardò fuori dal finestrino e ammirò il panorama che scorreva rapidamente: davanti a lui si estendeva la panoramica di un lago circondato da boschi. La vista lo tranquillizzò, anche se aveva ancora vivide le immagini del sogno di poco prima: la cosa che più lo turbava era rivivere quel momento ogni volta che chiudeva gli occhi; era stato un periodo difficile della sua vita e ora era profondamente cambiato, ma quello che era successo quella notte non lo avrebbe scordato per molto tempo ancora. Si era rivolto più e più volte allo psicologo del suo gruppo di sostegno, sperando che potesse prescrivergli un qualche farmaco che gli inducesse un sonno senza sogni, anche solo per una notte, ma il medico gli aveva risposto che era certamente più salutare lasciare che il suo cervello affrontasse il problema, piuttosto che aggirarlo. Così ogni volta che si addormentava era di nuovo costretto a camminare nell'oscurità brandendo una mazza di alluminio e minacciando la donna riccioluta, che lo supplicava in ginocchio e tra le lacrime.
Pensava a tutto questo mentre il treno sfrecciava a tutta velocità e quando udì bussare alla porta della cabina sussultò. "Avanti" disse cortesemente e cercando di darsi un contegno
(Ti stai innervosendo troppo per essere uno che sta cercando di voltare pagina)
Il pensiero lo colse alla sprovvista e dovette ammettere che in effetti era troppo teso: aveva preso quel treno proprio per cercare di cambiare e di fuggire dalla sua vecchia vita, anche se ormai aveva smesso da tempo con certe cose. Solo, aveva bisogno di aria nuova.
(Di aria buona, piuttosto)
La porta della cabina si aprì ed entrò un uomo alto, vestito elegante e che indossava un paio di grossi occhiali con la montatura di corno: doveva avere sessant'anni all'incirca e in testa non aveva più molti capelli. Tuttavia aveva un'aria distinta e rassicurante che ispirò fiducia istantanea all'uomo che era seduto sulla poltroncina blu.
"Mi scusi se la disturbo, ma non ho trovato posto a sedere nelle altre cabine. Mi chiedevo se per caso potessi sedermi qui, sempre che non voglia stare da solo, s'intende" disse con un forte accento inglese l'uomo che era appena entrato.
"Nessun problema, si sieda pure" rispose gentilmente l'altro "Io mi chiamo Joseph Blonde" continuò alzandosi in piedi e tendendo allo sconosciuto una mano da stringere.
"Molto piacere" disse l'uomo vestito elegante "Io mi chiamo Peter Langstorm".
Quando si furono seduti entrambi, l'uno di fronte all'altro, Langstorm iniziò a chiedergli cosa lo portasse a West Coburn. Joseph rispose che era da molto tempo che stava pensando di cambiare aria: aveva sempre vissuto a New York e negli ultimi tempi sentiva che aveva bisogno di un posto più tranquillo dove vivere.
"Allora ha scelto il posto giusto: West Coburn è incantevole, soprattutto in questa stagione. Potrà rilassarsi, senza dubbio" aveva detto Langstorm a quel punto "Non c'è luogo più tranquillo. Tremila abitanti e tutti molto cordiali. Siamo gente semplice, noi: ci piacciono le strade silenziose e i negozi vuoti" aveva aggiunto sorridendo.
"Lei abita in paese?" aveva domandato poi Joseph.
"Sono molti anni oramai. Torno adesso da un viaggio di piacere. Sono andato a fare visita a mia sorella, a Londra" rispose deliziato Langstorm. 'Dunque è proprio inglese' pensò rapidamente Joseph.
"Capisco. In realtà il motivo della mia permanenza a West Coburn è un altro. Volevo cambiare aria certo, ma questa opportunità mi si è presentata tre mesi fa sotto forma di proposta lavorativa" disse Joseph.
"Ha trovato lavoro in paese?" domandò l'altro.
"Sono il nuovo insegnante di letteratura al liceo locale".
"Ma questa è una notizia meravigliosa" esclamò Langstorm "Pensi che coincidenza: io sono uno scrittore. Si può dire che siamo quasi colleghi, dopotutto anche io ho insegnato per qualche tempo al liceo del paese".
"Sul serio? Questa si che è una grande coincidenza!" esclamò Joseph.
"Ormai è passato molto tempo da allora, ma ho un gran bel ricordo di quel periodo. Come le ho detto, a West Coburn siamo tutti gente tranquilla, anche i ragazzi più giovani".
Il treno era quasi arrivato e dopo pochi minuti di piacevole conversazione si fermò alla stazione di West Coburn. Langstorm si alzò e disse con la sua voce distinta:
"Bene caro amico, credo che ci vedremo spesso, allora. Avrei piacere di offrirle un the uno di questi giorni".
"Niente mi farebbe più piacere" rispose Joseph.
Langstorm scese dal treno portando con se la valigia e se ne andò, mentre Joseph dovette aspettare l'agente immobiliare. Dopo mezz'ora stava iniziando a perdere la pazienza. 'Dannazione, forse prendono le cose un po' troppo tranquillamente da queste parti' pensò. Mentreera assorto in quei pensieri gli si avvicinò un uomo incredibilmente grasso, che indossava un abbondante completo bianco e un cappello a tesa larga dello stesso colore: il suo viso era larghissimo e paonazzo, ma dall'aria gentile. Gli venne incontro porgendogli una mano rosea e simile ad uno zampone troppo cotto, quando Joseph la strinse dovette trattenersi dall'emettere un verso di disgusto: era spaventosamente sudata, eppure non faceva particolarmente caldo.
"Salve, io sono Roy Criswell, della Criswell immobili. Lei deve essere il signor Blonde, giusto?" disse l'uomo.
"Mi ha beccato" rispose Jo ricambiando il sorriso.
"Benone. Mi segua, ho la macchina proprio qui dietro" disse e si mise in moto.
Dietro al piazzale della stazione ferroviaria c'era un ampio parcheggio semideserto. Criswell indicò una Toyota Corolla bianca e gli disse di accomodarsi; Joseph aprì la portiera del passeggero e salì. Il sedile era comodo, anche se non potè fare a meno di arricciare il naso per via dell'odore acre che lo aggredì non appena fu salito. Nel quarto d'ora successivo Joseph scoprì quanto poteva risultare noioso e sgradevole il signor Criswell: parlava con una vocetta irritante e solo per dire cose futili. Joseph pensò che avrebbe fatto una figura migliore standosene zitto.
Il breve viaggio, che a Joseph sembrò interminabile, si concluse di fronte ad una graziosa villetta che si trovava nel quartiere residenziale in mezzo ad altre casette molto simili, tutte con un fazzoletto di prato ben curato sul davanti.
"E questa è la casa che ha comprato. Deliziosa, non trova?" domandò Criswell con il suo largo sorriso.
"Decisamente" disse Joseph osservando affascinato la sua nuova casa: una villetta costruita con solide assi di legno dipinte di bianco, una di quelle a cui chiunque avrebbe associato il classico Sogno Americano
("Per ora il tuo è stato un incubo Joseph. L'Incubo Americano" pensò)
"E mi dica" continuò Criswell imperterrito "Ha già fatto la conoscenza di qualcuno in particolare mentre mi aspettava?".
"In realtà ho conosciuto un tizio molto simpatico sul treno" rispose e mentre lo diceva gli venne in mente una cosa a cui non aveva prestato attenzione: Langstorm era entrato nella sua cabina, ma non ricordava che il treno si fosse fermato per far salire nuovi passeggeri. allontanò questo pensiero dicendo a se stesso che probabilmente aveva passato gran parte del viaggio in piedi e solo alla fine aveva deciso di bussare alla sua cabina.
"Come si chiamava? Qui a West Coburn tutti conoscono tutti, probabilmente so di chi si tratta" disse Criswell.
"Era un gentiluomo inglese" rispose Joseph "Si chiama Langstorm, mi pare".
"Peter Langstorm?" chiese stupito Criswell.
"Esatto".
"Lo scrittore?" disse piano Criswell.
"Si, lui".
"Faccia attenzione a quell'uomo, signor Blonde. Non è visto di buon occhio, qui a West Coburn. Queste sono le sue chiavi, arrivederla" disse Criswell affrettandosi.
Joseph rimase sul vialetto, stupito: cosa diavolo era preso tutto ad un tratto a Criswell? Decise che non gli importava e si avviò verso la porta d'ingresso, un po' irritato perchè si aspettava che l'agente immobiliare gli mostrasse almeno l'interno dell'abitazione.

Su una collina non molto distante c'era una casa dall'aspetto antico e gotico, con le finestre oscurate. All'interno Peter Langstorm sedeva in una poltrona nel salotto e, immerso nel buio, aveva lo sguardo puntato verso la persiana rotta, da cui filtrava un debole raggio di sole. "Lo Straniero" disse a voce alta "Lo Straniero è arrivato".
Dietro di lui si mosse qualcosa, ma lui non si voltò e continuò, stavolta rivolto a qualcuno in particolare, ma che sembrava invisibile: "Ancora non mi fai paura. Lui non è ancora tuo. Non è ancora caduto". Sentì una mano raggrinzita che gli si posava sulla spalla, così volto leggermente la testa all'indietro e nella penombra vide il volto emaciato della vecchia: la sua pelle era incartapecorita, al naso mancava un grosso pezzo di carne e non aveva la mascella; la pelle era verdastra e nelle guance intravedeva il movimento di alcuni grossi vermi che vi scavavano dentro. L'odore che emanava era disgustoso, ma Langstorm non si lasciò impressionare: osservò il grosso specchio di fronte a lui e vide che era solo nella stanza. La situazione era ancora gestibile. Tuttavia sentiva la presenza del cadavere vivente e lo udì sussurrare, con la voce roca e chiara nonostante la mancanza della mascella: "Presto. Molto presto, peter, Amore mio".
"Non sono il tuo Amore da tanto tempo" ribattè Langstorm , cercando di nascondere il suo disgusto.
"Si che lo sei. E lo Straniero è arrivato" continuò la voce, stavolta attenuandosi e arrivando a sembrare quella di una bimba dispettosa "Ci divertiremo un mondo, vedrai! E sembra anche curioso, Amore mio. E i curiosi sono stolti. E tu lo sai cosa succede allo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, vero?".
"Langstorm si nascose il viso tra le mani e sussurrò: "Ci cade dentro".
"Esatto, Amore mio" disse la vecchia accarezzando il volto di Langstorm e facendolo rabbrividire "Ci cade dentro".

Intanto era calata la sera e il buio si era impadronito del luogo in cui lo sceriffo Gambon aveva trovato il corpo di Pat Turner. Se qualcuno si fosse trovato in quel luogo avrebbe certamente udito distintamente il rantolo sommesso che si propagava come un refolo di vento sempre più crescente. D'improvviso gli alberi furono illuminati dai fari di un'auto: il vento crebbe insieme al rantolo e nell'aria echeggiò il suono di un motore che perdeva potenza brontolando e si spegneva. In lontananza si sentì una voce che esclamava: "Stupido catorcio!".
Il rantolo si trasformò in un sussurro e l'uomo a cui si era fermata l'auto udì distintamente le parole, pronunciate da una suadente voce femminile: "Un altro viandante. Qual buon vento, mio giovane amico?".
L'uomo non ebbe nemmeno il tempo di rendersene conto, ma dietro di lui c'era una ragazza in costume, con i capelli bagnati e lo sguardo feroce che lo fissava, pronta a conficcargli gli artigli nel collo.
Pochi istanti dopo l'uomo giaceva a terra immobile e rantolante: non ebbe nemmeno il tempo di urlare quando la ragazza lo azzanno al volto, strappandogli letteralmente la faccia. Quando emise l'ultimo respiro lo scenario era simile a quello che si prospettò la notte in cui morì Pat Turner: questa volta il corpo della vittima giaceva al bordo della strada, ma nonostante l'aggressione era perfettamente integro. Il volto era ancora al suo posto ed era perfino sereno.
Si alzò il vento e di nuovo si udì il sussurro, stavolta però era una voce maschile a parlare: "E al fin il primo atto ebbe inizio".

giovedì 3 giugno 2010

CAPITOLO 1- RITROVAMENTO


Lo sceriffo Gambon era chiuso nel suo ufficio da almeno due ore. La mattinata era incominciata bene: aveva fatto colazione con un ottimo piatto di uova e pancetta che Mandy, sua moglie, gli aveva preparato ed era andato alla centrale di polizia di ottimo umore, era entrato nel suo ufficio e per qualche ora nessuno era venuto a disturbarlo. Quella che si dice una giornata tranquilla. Alle undici qualcuno aveva bussato alla porta dell'ufficio e dopo pochi secondi era entrato uno degli agenti, il giovane Cartbury: aveva un'espressione stravolta ed era pallido come lo sceriffo non lo aveva mai visto, dava quasi l'impressione che di lì a poco avrebbe vomitato sulla moquette.
"Che succede ragazzo?" si informò prontamente lo sceriffo Gambon.
"Ho..." esitò il giovane "Ho trovato un uomo, nel bosco" concluse.
Lo sceriffo capì immediatamente a cosa si riferiva l'agente Cartbury: nelle condizioni in cui era il ragazzo al momento, era difficile che l'uomo di cui stava fosse stato trovato vivo. Il pallore del volto e la voce tremante dicevano già tutto sull'accaduto.
"Calmati figliolo, prendi un po' d'acqua" disse Gambon e gli passò un bicchiere e una bottiglietta di plastica; Cartbury bevve un lungo sorso direttamente dalla bottiglia e poi cercò di continuare.
"Stavo percorrendo la strada che porta fuori dal paese per andare alla casa dei Dwayne. Non c'era traffico, come sempre, ma ad un certo punto, a circa cento metri dal cartellone pubblicitario, ho notato qualcosa di insolito".
"Quanto insolito?" chiese pazientemente Gambon.
"Abbastanza. Contro uno dei lampioni c'era un pick-up verde, parecchio malridotto tra l'altro".
"Verde, hai detto?" Gambon prese a scuotere la testa. Era stato lo sceriffo di West Coburn per oltre trent'anni e ormai riconosceva tutti i suoi abitanti solo guardando il veicolo che guidavano, e di certo sapeva di chi fosse l'unico pick-up verde di cui aveva memoria: il figlio dei Turner non era mai stato troppo equilibrato, ma negli ultimi anni era veramente peggiorato e ricordava di averlo fermato ubriaco almeno un paio di volte. Era solo questione di tempo prima che lo ritrovassero morto nell'abitacolo dopo un incidente mortale.
"Pat Turner" disse Gambon "Era al volante quando l'hai trovato?".
"No sceriffo. Gliel'ho detto, il pick-up era sulla strada. Il corpo l'ho trovato nel bosco" continuò Cartbury, con il labbro superiore che tremava. Lo sceriffo ricordò quanto aveva detto il ragazzo poco prima: aveva dimenticato il dettaglio del bosco. 'Strano' pensò 'Cosa diavolo era andato a fare il giovane Turner nel bosco?'.
"Era molto distante dal pick-up?" domandò lo sceriffo con interesse.
"Si è addentrato parecchio nel folto, ma l'albero contro cui era accasciato era ad un'altezza di circa 500 metri oltre il furgone".
"E' ancora la, dico bene?".
"Certo sceriffo. Aspettavo lei per chiamare la scientifica e muovere il corpo".
"Bravo ragazzo. Adesso portami sul posto" disse Gambon afferrando il cappello a tesa larga color kakhi dall'attaccapanni. Cartbury annuì e cercò di riprendere il controllo del suo corpo incamminandosi verso l'uscita della centrale, con lo sceriffo a seguito. Salirono in macchina, ma Gambon insistette per guidare: il ragazzo era chiaramente troppo scosso per mettersi al volante. Cinque minuti dopo erano entrambi accovacciati davanti al pick-up per esaminare i danni.
"Deve aver preso una gran botta" commentò lo sceriffo, passando un polpastrello sulla carrozzeria laddove si trasformava in un ammasso di lamiere contorte.
"Questo è sicuro" replicò Cartbury "Venga, la porto a vedere il corpo".
Lo sceriffo notò con piacere che nonostante il piccolo shock il giovane agente aveva calcolato con una certa precisione la distanza e la collocazione del corpo rispetto al veicolo: si addentrarono nella boscaglia per un centinaio di metri e seguirono la direzione della strada per circa tre o quattrocento metri. Lo spettacolo che si presentò davanti allo sceriffo non era orribile come avrebbe pensato, anche se non meno triste.
Era proprio come lo aveva descritto Cartbury mentre si recavano in macchina sul luogo: un ragazzo sui venticinque, apparentemente alto, capelli scuri e lineamenti marcati. In poche parole, Pat Turner.
 'Gesù, dove trovo il cuore di dirlo a Susan e James?' pensò lo sceriffo,  portando la mente verso i genitori del ragazzo. Poteva notare distintamente un taglio molto profondo su una delle tempie e nonostante non avesse alcuna competenza medica non era difficile capire perchè fosse morto: una ferita di quel genere poteva uccidere un uomo adulto nel giro di pochi minuti, se non veniva medicata prontamente. La vera domanda però era un'altra: cosa diavolo ci faceva un ragazzo che aveva appena avuto u brutto incidente lì, nel folto del bosco?
"Secondo te perchè è venuto fin qui?" chiese lo sceriffo a Cartbury.
"Non saprei dirglielo sceriffo" rispose il giovane "Il corpo puzza terribilmente di scotch, oppure di whiskey, non so dirlo con certezza".
Aveva ragione: Gambon avvicinò il naso al collo del ragazzo morto, ma ritrasse subito il volto. 'Abbiamo fatto baldoria come al solito, eh, Pat?' pensò, vergognandosi un po' per aver tratto subito conclusioni affrettate. Certo, dall'esame tossicologico del corpo sarebbe sicuramente emerso che il ragazzo aveva bevuto parecchio e forse aveva anche assunto qualche stupefacente ('Molto probabile' si disse mentalmente Gambon), ma non era detto che la causa della sua morte fosse da attribuire a quello.
"L'incidente è stato causato quasi sicuramente dalle sue condizioni in quel momento. 'Alcool" disse ad alta voce lo sceriffo, con voce intrisa di amarezza "Ma non mi spiego come una persona che ha un taglio come quello che aveva lui in testa possa scendere dal veicolo e camminare tanto a lungo, e per giunta nel bosco. Poniamo che fosse ubriaco fradicio: anche in quelle condizioni non si sarebbe addentrato tanto nella boscaglia, specialmente non con un dolore forte come quello che può procurare una ferita del genere".
"Oppure" intervenne Cartbury "Era talmente disorientato che ha camminato alla cieca nella speranza di trovare soccorsi e ha perso i sensi. Dopodichè è morto".
"Plausibile" disse Gambon "Ma conoscendo Pat non credo sia andata così. Era sempre sbronzo o fatto, ma riusciva a mantenere una lucidità di fondo che spesso stupiva perfino me. Fidati del vecchio Gambon ragazzo: anche da ubriaco non si sarebbe mai buttato nel bosco di notte senza avere un buon motivo". Lo sceriffo sentiva che qualcosa gli stava sfuggendo. Poi, improvvisamente, capì. Ripercorse all'indietro il tragitto che avevano battuto per raggiungere il corpo dal pick-up e Cartbury lo seguì. Tornarono al veicolo, poi Gambon fece marcia indietro e tornò verso il corpo, sempre puntando lo sguardo verso il terreno; l'agente non capiva, ma non fece domande.
Poi lo sceriffo si rivolse verso Cartbury e disse: "Dimmi un po' ragazzo, quante serie di impronte vedi?".
"Come dice?" chiese Cartbury sbalordito.
"Osserva" disse lo sceriffo "Le impronte iniziano qui, ma in realtà lui non è entrato nel bosco da dove siamo entrati noi. Si è allontanato dal pick-up e poi si è addentrato nella boscaglia qualche metro più in là. Ho voluto controllare se ci fossero impronte diverse dalle sue nel tratto che abbiamo utilizzato noi, ma non ne ho trovate. Ora, seguiamo le impronte di Pat che si fermano qui dove si è accasciato e vediamo da dove è entrato". Lo sceriffo aveva ragione: Pat era entrato nel bosco da un'altra parte.
"Dannazione!" esclamo Gambon mentre seguivano le impronte "E queste cosa cazzo sono?".
"Cosa?" chiese Cartbury, ma non c'era bisogno di domandare, lo vedeva anche lui: a pochi metri dal corpo, per un tratto di circa due metri, le serie di impronte diventavano due, e non una sola. Ed erano impronte decisamente diverse da quelle di Pat. Poi accadde una cosa strana: Cartbury alzò lo sguardo e notò la figura di qualcuno che li stava spiando dietro ad un albero.
"Ehi!" gridò l'agente e si lanciò all'inseguimento dell'uomo, che aveva iniziato a correre. Gambon non ebbe nemmeno il tempo di chiedere a Cartbury cosa stesse succedendo che l'agente era già lontano. Il ragazzo in divisa vedeva l'uomo davanti a se: era vestito con una semplice T-shirt blu e indossava un paio di jeans. Cercò di memorizzare almeno quei dettagli, visto che il volto non era riuscito a vederlo; lo inseguì ancora per qualche secondo, poi l'uomo si fermò e alzò le braccia, in segno di resa.
"Mi arrendo, mi arrendo, agente Cartbury" e poi si voltò. Cartbury sgranò gli occhi e tutta la tensione delle ultime ore esplose in lui: istintivamente voltò la testa e vomitò la colazione- uova e pancetta- sul tappeto di foglie. Se Gambon fosse stato lì e non parecchie centinaia di metri indietro sarebbe stato solidale con il ragazzo: l'uomo che Cartbury si trovava davanti aveva un volto magro e scavato, ma non era quello a incutere timore, piuttosto era il foro di proiettile che sostituiva il suo occhio destro.
"La sua corsa è buona almeno quanto la sua mira, agente" disse l'uomo, con una voce soprannaturale. Cartbury lo fissava terrorizzato: quel tizio era morto, morto! Come faceva ad essere di fronte a lui, con la ferita che gocciolava sangue copiosamente?
"Tu... tu sei..." balbettò Cartbury.
"Eppure sono qui. E lo sa cosa ho imparato in tutto questo tempo, agente Cartbury?".
"No. Ti prego, dimmi che non sei reale, dimmi che..." singhiozzò l'agente.
"Ho imparato" continuò l'uomo "Che lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro". A quel punto accaddero due cose: l'uomo si scagliò contro Cartbury e lo atterrò, stava per sferrargli un pugno contro il mento, ma accadde la seconda cosa. Gambon sopraggiunse all'improvviso e quello che vide lo sporprese. Davanti a lui c'era Cartbury sdraiato a terra che gridava al nulla di lasciarlo in pace.
"Che succede ragazzo?" chiese Gambon aiutandolo ad alzarsi.
Cartbury strizzò gli occhi, come  se cercasse di svegliarsi. Poi, quando capì che non c'era nessuno a parte lui e Gambon, disse con voce tremante: "Niente sceriffo" disse il ragazzo "Andiamo via".
Mentre i due si avviavano verso l'uscita del bosco per avvertire la scientifica, da qualche parte nel folto del bosco le foglie si muovevano e turbinavano in maniera innaturale. Tutto stava andando per il meglio e presto sarebbe arrivato lo Straniero. Il vento portò con se un sussurro che sembrava dire, con voce minacciosa: "Apriamo le danze, dame e cavalieri".

martedì 1 giugno 2010

PROLOGO


Non era il buio a spaventare Pat Turner, piuttosto erano i rumori che vi si nascondevano a terrorizzarlo. Camminava barcollando lungo il ciglio della strada, sporgendo di tanto in tanto il pollice destro nella vana speranza che a quell'ora di notte passasse qualcuno. Il pick-up lo aveva abbandonato solo una mezz'ora prima, quando era andato a schiantarsi contro un lampione, procurandosi un brutto taglio alla tempia sinistra; 'Maledetto ferro vecchio' pensò Pat, ma sapeva bene che la colpa di tutto quel casino era solo sua: aveva bevuto -più di quello che poteva reggere, a onor del vero- e aveva preso un paio di pasticche. Mettersi alla guida non era stata di certo una buona idea, ma questo Pat non lo aveva tenuto in considerazione quando aveva inserito le chiavi nel quadro di accensione . Gli era parso un trionfo quando era riuscito a mettere in moto il furgone dopo solo tre tentativi infruttuosi.
Il dolore alla testa era quasi insopportabile e sentiva la ferita pulsare, mentre una nausea acida aveva incominciato ad infastidirlo pochi minuti dopo l'incidente: camminare era un'azione dannatamente difficile, sia per la sensazione di smarrimento dovuta alle droghe, sia per l'annebbiamento che provava a causa della tremenda botta. Naturalmente non aveva con sè il telefono cellulare, probabilmente l'aveva dimenticato a casa di Pete, che comunque era troppo lontana da raggiungere a piedi e come se non bastasse il tratto di strada in cui si trovava era poco trafficato anche durante il giorno; Pat si sentiva disperato e non riusciva a ragionare: i rumori che provenivano dal bosco alle sue spalle lo spaventavano a morte e l'effetto delle droghe, unito al dolore sordo che rimbombava nella sua testa, non faceva altro che amplificare il terrore.
Si sentiva perduto quando, tutto ad un tratto, intravide, sebbene la vista continuasse ad annebbiarglisi, una sagoma in lontananza, proprio sulla strada.
 "Ehi!" gridò con tutto il fiato che aveva in gola, emettendo un suono sgradevole con la voce impastata. "La prego mi aiuti, ho avuto un incidente!" continuò, cercando di correre goffamente verso lo sconosciuto. Dopo qualche secondo si sorprese a fermarsi  per riprendere fiato, a testa bassa.  Quando la risollevò lo sguardo la sagoma scura era a pochi metri da lui, avvolta in una strana nebbia che sembrava evaporata  dal nulla.
'Ma che diavolo...?' pensò Pat: come aveva fatto quell'uomo a percorrere una distanza così lunga nel giro di pochi secondi? La vista andava peggiorando ogni secondo di più e tutte le cose gli sembravano in continuo movimento e distorte, non sapeva più se la colpa era da attribuire all'incidente o alle pasticche che aveva buttato giù un'ora prima.
 E non dimenticarti la bottiglia di Jack con cui le hai mandate giù per la gola, Gringo gli ricordò una vocetta maligna nella sua testa ammaccata. Droghe o no, quello che vedeva, seppure con una certa fatica, non gli sembrava reale: pochi secondi prima quell'uomo era ad almeno cento metri di distanza e adesso era davanti a lui, ma non riusciva a distinguerne i tratti a causa di quella foschia spuntata all'improvviso. Ora che ci faceva caso, la nebbia era ovunque e avvolgeva anche lui: all'improvviso si sentì invadere da un freddo sgradevole che gli pungeva la nuca.
'D'accordo' pensò 'Hai venticinque anni e negli ultimi tempi hai un po' esagerato con l'alcool
(Per non parlare delle droghe: ne hai provate parecchie ultimamente, dico bene Gringo?)
ma questo è un po' troppo strano, anche per uno strafatto come me'. Mentre pensava a tutto questo in un fin troppo generoso momento di lucidità, l'uomo nella nebbia disse qualcosa, ma la sua voce era poco più di un sussurro e Pat non capì.
"Come?" chiese Pat, con un sorriso stupido dipinto sul volto: incominciava a girare tutto di nuovo.
"Sei ridotto all'ombra di te stesso, Gringo" ripetè l'uomo. Pat trasalì violentemente e cadde per terra, ritrovandosi sdraiato. 'Come ha detto?' pensò inorridito.
"Ma guardati" continuò l'uomo, avanzando di qualche passo verso quel venticinquenne strafatto e ubriaco che ora stava sdraiato per terra, con una camicia a scacchi macchiata ovunque e un paio di jeans lisi sul ginocchio; Pat guardava stralunato la sagoma che si avvicinava e ancora non riusciva a distinguerne i tratti del volto, che erano avvolti nella penombra. Ma la sua voce la conosceva bene
(Sei ridotto all'ombra di te stesso, Gringo)
Era la stessa che gli faceva notare continuamente quanto fosse caduto in basso, quella vocetta petulante e vagamente stridula che lo scherniva ogni volta che si svegliava su un pavimento freddo e sconosciuto, magari nel suo stesso vomito rappreso (e gli era capitato spesso ultimamente). Era la voce della sua coscienza, la voce della verità. La voce di un morto.
"Alzati, Gringo" continuò l'uomo avvolto nella nebbia e stavolta la sua voce era molto più maligna di prima, molto più cattiva di come risuonava di solito nella testa di Pat: non sembrava nemmeno umana e questo lui lo avvertì immediatamente. Con grande fatica si rimise in piedi e cercò di indietreggiare, senza nemmeno accorgersi di stare entrando nel bosco che si estendeva rigoglioso (e alquanto minaccioso nella notte) alle sue spalle. 'No' si disse 'Sono le droghe, sono solo le droghe'
(E la bottiglia di Jack! Te la ricordi la bottiglia di Jack, Gringo?) lo apostrofò la vocetta maligna, questa volta nella sua testa, ma era certamente più dolce di quella dell'uomo che aveva davanti.
"Mi hai lasciato andare giù come un piombino, Gringo. Non si fa con gli amici, no. Non si fa!" sibilò l'uomo e in un istante gli fu addosso: Pat sentì il peso di un essere umano lanciato a tutta velocità che lo atterrava; ormai si era addentrato parecchio nella boscaglia senza nemmeno rendersene conto e quando l'uomo lo spinse con violenza finì su un terreno freddo e fangoso, coperto di foglie secche. La sua mente a quel punto non era più lucida da un pezzo, ma riuscì lo stesso a formulare un pensiero sensato, mentre il terrore lo avvolgeva come un boa tra le sue spire: 'Non può essere lui! La terza 'P' è morta, morta!'.
"Carogna! Non si fa con gli amici, non si fa come hai fatto tu!" urlava l'uomo e Pat si sentiva colpire con violenza sul volto, sulle costole, sulle ginocchia: non era la forza di un uomo quella che sentiva abbattersi sul suo copro inerme, era come se un autocarro gli stesse passando sopra lentamente.
"Scusa Preston! Scusa!" cercò di dire Pat, ma un colpo più forte degli altri gli frantumò gran parte dell'arcata dentale superiore e sentì l'osso rompersi fino alla base del naso. Era pazzesco, non poteva essere vero, era un'allucinazione, pensò, mentre il dolore al volto diventava un'agonia insopportabile.
(Molto realistica però per essere un'allucinazione, non trovi, Gringo?)
Sempre la voce nella sua testa. Non era difficile immaginare perchè la sentisse continuamente, dopotutto era la voce dell'uomo che gli stava spaccando la testa in quel momento, l'uomo che due anni prima aveva lasciato affogare nel lago per salvarsi. Era logico che quella voce avesse sostituito la sua coscienza per ricordargli in ogni istante quanto facesse schifo. Ma per quanto fosse fatto, per quanto ormai il suo cervello funzionasse spesso e volentieri a intermittenza, non poteva credere che Preston
(Detto anche Gaucho, ricordi, Gringo?)
 fosse tornato solo per ammazzarlo. Era tutto finto, non c'era niente di vero.
"Questo è vero, lurido bastardo!" ululò Preston-Gaucho e abbattè un altro tremendo colpo al torace di Pat: lo sterno di si frantumò con uno schiocco secco, come quello di un ramo spezzato in una notte silenziosa. 'Lo merito' pensò Pat sentendo uno sbuffo di sangue salirgli in gola. 'Fatemi smettere però, fatemi smettere di respirare!' gridò dentro di se: urlare gli avrebbe fatto troppo male e respirare era ancora peggio. Con gli occhi velati da lacrime di dolore e da tutta la merda che aveva ingerito un'ora prima, Pat guardò l'uomo che era sopra di lui e ora, alla luce della luna (la nebbia era scomparsa), lo vedeva: il naso storto, gli occhi neri e i denti bianchissimi digrignati, i capelli lunghi e scuri che incorniciavano quel volto feroce. Quell'essere somigliava molto a Preston, ma lo sguardo assassino  gli diceva che non era lui. Era qualcosa di molto peggio.
"Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo ci cade dentro!" ringhiò Preston con una voce ora spaventosamente distorta, quasi demoniaca, e con un ultimo, tremendo colpo pose fine alla vita di Pat. Prima che il pugno del suo aggressore gli sfondasse il cranio, Pat ebbe il tempo di sentire per l'ultima volta la voce della sua coscienza: E tu ci sei caduto con tutte le scarpe. Bon Voyage, Gringo.
Non appena la vita fu strappata dal corpo di Pat Turner, la figura di Preston scomparve, come un filo di fumo che si spezza, e nel bosco tornò il silenzio; un raggio di luna illuminava il corpo ormai freddo del giovane: era perfettamente integro, sembrava che stesse dormendo. Delle terribili ferite inferte dall'amico defunto non sembrava essere rimasta nessuna traccia.
Fu così che iniziò tutto quanto: con la morte di Pat Turner. Altre, ben peggiori, sarebbero seguite.