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venerdì 21 gennaio 2011

CAPITOLO 8: CRISI


Elizabeth Skeepson non amava uscire di casa, anzi le piaceva rimanere in solitudine, soprattutto all'ora di cena. Non si era mai sposata, non aveva mai avuto figli e a dirla tutta non aveva mai avuto nemmeno un uomo; tutti a West Coburn la credevano pazza, una snob che aveva perso il senno e che si riteneva tanto al di sopra da non volersi mischiare con il resto delle persone. Ma la verità era ben altra. Elizabeth si sedette a tavola, erano le otto e mezza, e si versò una porzione di minestra calda e fumante nella ciotola e accompagnò il tutto con un bicchiere di vino rosso che riempì per metà. Sorseggiò il liquido fresco e lo sentì scendere in gola a scaldarla, mentre il suo sguardo andava a posarsi sullo specchio che stava appesso al muro di fronte a lei, oltre il tavolo. C'erano specchi ovunque in casa sua: tre solo nella cucina, sei nel bagno, cinque nella camera da letto (uno addirittura sul soffitto), sette in salotto e addirittura due nel ripostiglio. Guardò la sua immagine riuflessa: era bella, bionda con gli occhi verdi, la pelle liscia e vellutata, pallida. Non aveva più di trent'anni ma dentro se ne sentiva almeno un centinaio e non le importava di tutti gli uomini che sembravano volerla divorare con lo sguardo: detestava essere toccata da un uomo, non c'era nulla che la disgustasse di più. Ma d'altro canto la repelleva l'idea di stare con una donna, non era attratta dal suo stesso sesso. era una donna senza sessualità e questo le creava un dolore incredibile, tanto che certe volte si spogliava davanti ai suoi specchi, di modo da poter vedere il suo corpo nudo da più di un'angolazione, e si ritrovava ad odiarlo. Odiava quelle curve tornite, quelle forme calde e invitanti che erano state la causa della sua condizione tremenda: odiava quello che era diventata ma allo stesso tempo non poteva in nessun modo evitare di continuare ad essere in quel modo.
Affondò il cucchiaio nella minestra e lo portò alle labbra, soffiando delicatamente per dissipare il vapore rovente: era squisita. Annaffiò il boccone con una sorsata di vino e chiuse gli occhi. Sentiva che c'era qualcosa di strano quella sera, era come se fuori regnasse un'atmosfera cupa, quasi procellosa; guardò fuori dalla finestra e vide il cielo violaceo, l'aria che spazzava le foglie e scrollava i rami degli alberi. Decisamente qualcosa non andava, se lo sentiva nelle ossa. Era in un giorno come quello che si era consumato il suo dramma, quindici anni prima. era una ragazzina, aveva solo sedici anni e viveva a West Coburn da pochi mesi: era la nuova arrivata, quella che tutti guardavano con sospetto, che tutti evitavano e che i ragazzi più grandi cercavano di approcciare, forti della sua timidezza e della sua condizione di"straniera". Non era mai stata con un ragazzo, sebbene fosse semplicemente splendida, solo non si sentiva ancora pronta; aveva avuto dei ragazzi, certo, ma non era mai andata oltre i baci, non le interessava in quel momento;: pensava di più agli studi e ad aiutare in casa. Sua madre era gravemente malata e suo padre riusciva a provvedere a malapena a lei e a suo fratello con il modesto lavoro di spazzino che era riuscito a procurarsi, aggiunto all'impiego come guardiano notturno al museio della città . Quel giorno, era estate, stava camminando senza pensare a nulla: il cielo era cupo e nelle nuvole dardeggiavano lampi accesi e terrificanti, mentre il vento soffiava senza sosta, frustandole il volto e scarmigliandole i capelli. Si affrettava per otrnare a casa, visto che suo padre si era raccomandato
(non fermarti troppo in giro, Principessa)
Voleva molto bene a suo padre: sgobbava come uno schiavo per mantenere lei e suo fratello e in più doveva accudire sua madre, che ormai era in fin di vita, divorata dal cancro al fegato che si era esteso troppo per poter fare qualcosa. Camminava pensando allo sguardo sofferente di sua madre e le veniva da piangere. Il vento le sollevava di tanto in tanto la lunga gonna rosa che lei cercava di fermare con i palmi delle mani, senza però fermarsi: si stava facendo buio
(e le cose nel buio non sono mai quello che sembrano, ricordatelo Principessa)
Mentre camminava sentì un rumore di latta provenire da un vicolo e sussultò, spaventata: sapeva che avrebbe dovuto fermarsi, ma non lo aveva fatto. Invece era entrata nel vicolo, incuriosità anche se molto spaventata: voleva essere sicura che non ci fosse niente di cui temere. Vide un gatto striato uscire da un bidone rovesciato e si rassicurò. Povera bestiolina, doveva avere una fame tremenda. Rovistò nella borsa per cercare il pacchetto di biscotti vuoto per metà che aveva portato con sè e quando alzò lo sguardo vide che il gatto era sparito, ma il vicolo si era fatto più scuro. Eppure fino a poco prima la luce era ancora chiara, che cosa stava succedendo? Sentì un rantolo soffocato e si girò di scatto,per gettare un grido di puro terrore: di fronte a lei c'era un uomo alto almeno due metri, gigantesco e che indossava un paio di jeans sporchi e strappati abbinati ad una canottiera nera lisa e consunta. Aveva due braccia forti e grosse come tronchi, i capelli corvini, lisci e lunghi e gli occhi dal taglio a mandorla. Doveva essere un indiano, forse un Cherokee, Elizabeth non avrebbe saputo dirlo, ma di una cosa era assolutamente certa: non era normale. Aveva lo sguardo vitreo e impastato, quasi sembrava non vederla, ma sapeva bene che la stava guardando, in più respirava con un rantolo catarroso e un filo di bava gli colava da un angolo della bocca. E poi Elizabeth vide cosa stringeva nella mano destra e capì: dal pugno chiuso spuntava una siringa, dal cui ago stillavano alcune goccioline giallastre. Quel colosso si era appena fatto e ora stava davanti a lei, con aria inebetita; in verità non era minaccioso, solo inquietante e la sua stazza gigantesca non aiutava certo a farlo sembrare un agnellino. Elizabeth provò a indietreggiare ma l'uomo scatto e la afferrò forte per un braccio, facendola gridare di dolore: aveva una presa salda e aggressiva. Elizabeth era presa dal panico ma non sapeva cosa fare, poi l'indiano avanzò e la sbattè con violenza contro il jmuro. La ragazza gridò ma all'improvviso sembrava che l'umanità fosse stata inghiottita in un buco nero: nessuno passava di lì. L'uomo la guardava ora avidamente, con gli occhi dalle pupille dilatate, scuri e spavewntosi, la bocca aperta in un ghigno tutto denti gialli e marci. aveva l'alito di un cane morto ed emetteva continuamente quel rantolo disgustoso, come se fosse stato una bestia affamata e non un uomo. Era troppo forte e a nulla valsero i tentativi che Elizabeth fece per liberarsi, in più era sotto l'effetto dell'eroina e non sentiva il dolore, nemmeno i calci di lei potevano destarlo da quel suo torpore bestiale. Le sollevò lòa gonna e si insinuò sotto con la mano enorme. Elizxabeth gridava con tutto il fiato che aveva in gola ma non poteva fare assolutamente nulla, solo aspettare che accadesse l'inevitabile. Sentì la stoffa delle mutande che veniva strappata con forza e pochi istanti dopo avvertì un dolore lancinante, spaventoso. il suo corpo gridava, lei gridava, sentì le dita di quel mostro che si insinuavano dentro di lei e d'improvviso ebbe un violento conato di vomito. Lui non si accorse nemmeno del liquido caldo e acido che lei rigettò sulla maglia, era troppo preso da quell'atto di indicibile violenza. Lei credette di stare per svenire quando sentì qualcosa che si spezava dnetro di lei, probabilmente l'imene. e avvertì il sangue caldo che fluiva dall'estremità inferiore del suo corpo, mentre il solo poensiero che le girava per la testa frastornata era: 'Ti prego uccidimi. Ammazzami adesso. AMMAZZAMI ADESSO!'. ma non la uccise. invece continuò ad ansimare e non smise di toccarla per altri lunghissimi minuti. a nulla valsero i morsi e i graffi: aveva l'unghia dell'indice destro strappata, la vide conficcata nella carne del suo aggressore, ma lui non diede segno di averlo notato. Dopo quella che le sembrò un'eternità il mostro tolse la mano e la afferrò per il collò, la sollevò e la girò, poi con grande forza le sbattè la faccia contro il muro. Il colpo fu durissimo e sentì il naso che si frantumava, sarebbe caduta se lui non l'avesse tenuta in piedi. le alzò la gonna fino a sopra la testa e lei sentì che si slacciava i pantaloni.'No' pensò 'No! No! No figlio di puttana. No!'. Non era possibile che stesse per farlo, non era giusto. Aveva paura. Tremava e avrebbe voluto morire. E poi lo sentì, avvertì il dolore dalla sua stessa carne che veniva lacerata da quel corpo estraneo disgustoso, lo sentiva e ne provava repulsione. Durò a lungo, faceva male, troppo da poterlo sopportare ma non abbastanza da farla svenire. E lui ansimava e ogni affondo era accompagnato da una sberla oppure da un pugno o, peggio ancora, da una botta contro il muro. Avvertiva il sangue gocciolare lentamente dal suo sesso straziato e la mole dell'uomo la schiacciava contro la pietra ruvoida del muro; poi divenne tutto più violento: sentiva il membro del mostro sfregare più velocemente dentro di sè e con una frequenza sempre crescente si sentiva afferrare per i capelli e la sua faccia veniva sbattuta con violenza contro le pietre davanti a sè: l'urtò le aprì un taglio sulla frone e in più aveva la bicca aperta. Sentì gli incisivi che si frantumavano e la gengiva superiore che si lacerava. Urlava, ma nessuno la sentiva, non c'era anima viva in giro. Quando la mano dell'aggressore le si poso sul volto tentò disperatamente di morderla e ci riuscì: affondo i denti nella carne più a fondo che potè e vide il sangue sprizzare dalla ferita, ma il mostro non gridò neppure, anzi continuò a violarla con una furia anche maggiore. Dopo parecchio tempo lei iniziò a provare ancora più dolore e sperava che quel tormento finisse in fretta: si sentiva umiliata, disgustata e avrebbe solo voluto morire. Avvertiva quel calore malefico, quel turgore carnoso e disgustoso che si muoveva nel suo corpo. Non poteva sopportarlo. Non voleva. Aveva il volto sfigurato dai colpi contro i mattoni grezzi, era coperta di lividi che iniziavano a fiorire sulla sua pelle chiara. Aveva la morte negli occhi. Poi udì il mostro che ansimava più forte e sentì che sfilava il membro dal suo corpo e poi avvertì un liquido caldo schizzarle addosso, imbrattando la pelle delle gambe e della schiena. Era finita. Forse ora l'avrebbe uccisa. Forse... ma vide qualcosa che le diede una nuova forza: l'uomo era immobile, lo sguardo vacuo e sembrava non recepire più niente.
Allora, come d'istinto, si sollevò da terra, dove era caduta dopo lo stupro e afferrò la siringa che era caduta al suo aggressore. Lo vide lì, immobile, con l'arma organica che aveva usato per farle del male flaccida e pendente tra le gambe. Con un urlo selvaggio piantò l'ago della siringa proprio in quel punto. L'uomo non ebbe alcuna reazione. Elizabeth trovò allora il coraggio per tentare un nuovo affondo, anche se si sentiva sul punto di svenire: era stata violentata e picchiata eppure aveva ancora il coraggio di reagire. da dove le arrivava? Non volle saperlo e infilzò di nuovo il membro dell'uomo con la punta dell'ago più volte, gridando, poi crollò a terra semisvenuta. L'uomo allora sembrò accorgersi di lei e si guardò in mezzo alle gambe: era stato gravemente ferito e sanguinava copiosamente. Si rialzò i pantaloni e subito una macchia rossastra si allargo sul cavallo. Poi si girò e a fatica raggiunse l'imboccatura del vicolo, poi rimmase immobile.. Elizabeth rimase per terra ancora qualche minuto, sentendosi completamente annullata. Sarebbe dovuto tornare indietro e avrebbe dovuto schiacciarle la testa. Lei l'aveva ferito, ma non se ne era nemmeno accorto. Non le aveva dato la soddisfazione: l'aveva distrutta e non aveva nemmeno avuto la misericordia di ammazzarla. Ci avrebbe pensato lei, decise. Si alzò a fatica e cercò la siringa, ma non la trovò e alzando lo sguardo vide che il suo aggressore era ancora fermo a qualche metro di distanza.
"Perchè?" sussurrò Elizabeth, cercando di parlare ad alta voce, ma non le era facile visto lo stato pietoso in cui era ridotta: le labbra erano spaccate e gonfie oltremodo, i denti erano frantumati e il naso era rotto in più punti, pendeva a sinistra ed era vattraversato per il largo da un taglio che sanguinava. "Perchè?" riuscì a ripetere, questa volta gridando.
L'indiano si girò lentamente, aveva lo sguardo più vigile questa volta e ai suoi piedi si era formata una piccola pozza di sangue, probabilmente quello che gli stava colando dall'inguine martoriato lungo la gamba. parlò con voce profonda, calda e dolce, cosa che stupì Elizabeth. "Le persone tendono a fare cose cattive" disse "Molti pensano che non ci sia un perchè. Ma io l'ho trovato, Principessa. Io l'ho trovato" e dopo aver detto queste parole alzò la mano destra e la ragazza vide che teneva stretta la siringa: foveva averla presa prima di andarsene. L'ago era spezzato, ma non sembrò curarsene: di colpo abbassò la mano e affondò lo strumento nelle pieghe del collo. L'ago spezzato incontrò dapprima la resistenza delle fibre muscilari e della pelle coriacea, ma la violenza dell'impatto lo spinse a fondo. Il sangiue sgorgò improvviso: doveva essersi ferito alla giugulare, pensò Elizabeth. Ma l'uomo sembrava sereno e dopo aver compiuto quel gesto premette lo stantuffo con il pollice e attese; Elizabeth lo guardò per qualche secondo e poi si accorse che gli occhi del mostro avevano totalmente perso ogni luce vitale. lo vide cadere a terra. Si era ucciso, si era iniettato l'aria nelle vene provocando un embolo. Era sconvolta. era sconvolta perchè era stata brutalmente aggredita da quell'essere mostruoso e quando le aveva chiesto il perchè aveva risposto con quella voce calma e bella, simile a quella del suo papà e l'aveva addirittura chiamata principessa. Suo padre la chiamava così. credette di aver sognato, ma sanguinava dal volto e avvertiva un dolore incredibile in mezzo alle gambe. nessun sogno: era stata violentata e picchiata, nessuno l'avrebbe più voluta, tutti l'avrebbero guardata con compassione, tutti avrebbero saputo cosa le avevano fatto. Voleva uccidersi, ma l'idea non la attraeva più come qualche minuto prima. Stava cercando la siringa per uccidersi, ma ora non voleva più farlo: era sopravvissuta. Forse c'era un motivo, anche se al momento non lo riusciva a trovare; voleva morire ma non voleva essere lei a uccidersi. Guardò il cadavere dell'uomo e ripensò alle sue ultime parole
(Io l'ho trovato, Principessa)
Arrivò a casa conciata in quel modo e credette che a sua madre sarebbe venuto un infarto. Da quel giorno era sempre vissuta in un ambiente colmo di specchi, percjhè non voleva più essere colta di sorpesa e ripudiava il sesso, la disgustava. Non uscì di casa per tre anni e non era mai più riuscita a prendere sonno senza l'aiuto dei sonniferi. aveva paura e nessuno avrebbe potuto cancellare quello che le era accaduto. Nessuno.
Mentre era assorta in questi poensieri avvertì il rintocco di una campana, sembrava quasi lontano. ma non era la solita campana, era diversa... DON. DON. DON. C'era qualcosa che non quadrava: sentiva come un'aura maligna intorno a sè. DON. DON. DON. C'era un odore strano, acre e che sembrava venire dall'esterno. Si alzò per andare a dare un'occhiata. DON. DON. DON. Aprì la porta sul nono rintocco e guardò in alto: il cielo era di un colore inverosimile, un viola livido accesissimo. Sembrava uno scenario apocalittico. e poi sentì la voce. fredda, mostruosa e disumana. "Mio!" disse "Mio!". Si mise le mani sulle orecchie e ululò di dolore: era come se le stessero ficcando un cacciavite nel cervello. Sbarrò gli occhi e vide davanti a sè il mostro che anni prima l'aveva stuprata. Non poteva essere. Non poteva essere! Ma non era esattamente uguale, notò: era diverso, più mostruoso. Ma non potè soffermarsi troppo a guardarlo perchè sentì qualcosa che la colpiva con violenza alla testa e cadde per terra. Non fece in tempo ad aprire gli occhi. Se fosse riuscita a vedere bene l'indiano avrebbe notato che era alto almeno tre metri, con i capelli lunghi e sporchi, gli occhi completamente bianchi, come se fossero rivoltati nelle palpebra, le braccia grosse come tronchi e coperte da una fitta ragnatela di vene; la mascella era quadrata e i denti erano marci e spezzati, così che erano appuntiti e marroni, ai lati della bocca perdeva un rivolo di sangue colloso e imbracciava un oggetto spaventoso. Era una siringa grossa quanto il fusto di un piccolo albero e l'ago, lungo almeno trenta o quaranta centimetri, era spesso quanto due dita messe una di fianco all'altra e appuntito come una spada. Prima che lei potesse aprire gli occhi il mostro sollevò la siringa e la abbassò con violenza su Elizabeth: non sentì nemmeno l'ago gigantesco che le sfondava la nuca ed era già morta prima ancora che la punta le lacerasse la carne della mascella per suntare di sotto. Rimase immobile, con la testa incastrata in quell'arma grottesca e l'indiano rimase fermo, con gli occhi biancastri e senza pupille fissi nella sua direzione. era morta, uccisa da quello che aveva temuto per tutta la vita e non avrebbe mai capito il perchè. Il mostro strattono con grabnde violenza la siringa e con uno strappo secco e ripugnante le sfondò il cranio spargendo pezzi di osso e brani di materia griggia ovunque, disincastrando l'ago. Con un passo goffo si girò e ringhiò: c'era tanta gente in giro a quell'ora, avrebbe avuto parecchio da fare.

Nella stanza buia il corpo immobile ansimava: quello che c'era dentro di lui stava scoppiando di gioia maligna. Il nono rintoccoera passato. ora poteva scatenare l'inferno a west Coburn ed era già incominciata. Aveva teso come una ragnatela tutto il male che pooteva sprigionare e ora poteva scrutare nell'anima di tutte le persone che vivevano nella città: adesso era abbastanza potente da poter concretizzare le loro paure e farle diventare una minaccia per tutti quanti. Non erano più solo priezioni mentali: erano vive. Aveva trovato qualcosa di molto interessante nella mente di una donna che era stata stuprata tempo prima. Se la ricordava e ricordava anche lo stupratore. Lo aveva... conosciuto, si può dire. Si era divertito a creare il suo mostro: aveva estratto il ricordo dalla testa della donna e lo aveva materializzato, ma era molto più orrendo: era il modo in cui lei lo vedeva. era perfetto. Si era beato del della paura di lei e gli spiaceva che non avesse provato dolore quando la siringa le aveva sfondato la testa. Ma si sarebbe rifatto, presto tutti loro avrebbero sofferto. e lui se ne sarebbe andato da quel porcile, sarebbe stato di nuovo libero. e poi sarebbe tornato completo, avrebbe avvolto il mondo con la sua presenza. Li avrebbe sterminati tutti. Gli Uomini lo avevano ridotto in schiavitù, millenni prima. Bene. Lui li avrebbe annientati. Il corpo tremò leggermente: ora poteva attuare il suo piano. Nella stanza echeggiò una risata che era espressione del male più puro. Il male era Lui. Lo avrebbero capito presto. Lo avrebbe capito lo Straniero, lo avrebbe capito quella stupida che di cui si era innamorato. L'avrebbe fatta cadere sotto gli occhi di lui, voleva che le fosse portata via nella maniera più dolorosa. E poi se ne sarebbe servito. Non aveva scampo.

Jo era in strada: aveva sentito le campane. Cosa volevano dire? Non riusciva a capire da dove diavolo arrivasse il loro suono. Eppure c'era qualcosa di strano nel cielo, aveva un colore spaventoso: qualcosa stava per accadere, ne era certo. Viola era a fianco a lui, bella come sempre, ma aveva lo sguardo carico di paura. Lo sentiva anche lei: qualcosa non andava decisamente, era come se si sentisse in trappola. Il vento soffiava impetuoso e i capelli le svolazzavano scompostamente, ma lei non vi badava: era troppo impegnata a fare il punto della situazione. ormai sia lei che Jo avevano capito che stava per accadere qualcosa di tremendo e, che voilessero crederci o meno, quel qualcosa andava al di là dell'umana comprensione; il serpente e la bara di Pat che esplodeva ne erano un chiaro esempio. Non aveva sentito suo padre in tutta la giornata, chissà se sapeva cos'era successo, anche se dubitava che non l'avessero informato di una cosa tanto strana. Poi sia lei che Jo udirono i rintocchi delle campane: nove. Ma il campanile era bruciato quel pomeriggio, da dove arrivava allora il suono? Non avrebbe saputo dirlo, ma lo sentiva chiaramente. E dopo vide qualcosa che le raggelò il sangue: il cielo divenne di un colore rosso intensissimo e si sentì bagnare una guancia. Stava piovendo? Si. decisamente. Ma non era acuqa, no naturalmente. Era
(lo stolto)
sangue. Denso, viscoso sangue scuro
(che si sporge)
che pioveva in gocce grosse come noci, emanando un fetore disgustoso
(per guardare il fondo del pozzo)
Viola iniziò ad urlare e Jo la portò in casa, spaventato quanto lei. poi le passò una mano tra i capelli e si guardò le dita: non era solo sangue
(ci cade dentro)
C'era una grande quantita di una sostanza giallastra e maleodorante. Pus. Erano al sicuro in casa adesso e guardavano la pioggia nauseante che imperversava tingendo tutto di rosso. 'Che cazzo succede?' pensò Jo. 'Cosa cazzo ci sta succedendo?'. E poi il vetro della finestra fu infranto da una sagoma barcollante. Jo spinse Viola dietro di se e si avvicinò a guardare: conosceva quell'uomo. era una delle prime persone che aveva visto quando era arrivato a West Coburn. era grasso e puzzava di sudore. Poi all'improvviso l'agente immobiliare Criswell si sollevò dai frantumi di vetro e guardò Jo con uno sguardo spaventoso: uno dei cocci si era conficcato in profondità nell'occhio, mentre una scheggia di legno spuntava come la spina di un'enorme rosa dalla pappagorgia. Gorgogliava e sputacchiava sangue, ma non sembrava provare dolore. Viola stava gridanndo e Jo voleva proteggerla, ma l'orrore si era impadronito di lui: fissò l'uomo con un'espressione a metà tra il disgustato e l'incredulo.
"le avevo" sibilò Criswell vomitando un fiotto di sangue "Le avevo detto... langstorm... colpa... sua... Ahhhhhhhhhhhhh" e con un urlo disumano roteò l'occhio sano e crollò all'indietro. Jo fece appena in tempo a vedere un ago gigantesco che gli sfondava il petto passando da dietro la schiena. We poi vide il gigante: Un indiano mostruoso, alto tre metri, apparso da chissà dove. imbracciava una siringa grande come un albero e aveva gli occhi bianchi. Completamente bianchi. E le braccia tatuate, enormi e incrostate di sangue rappreso. Il mostro fissò con quegli occhio vuoti Jo e poi spostò lo sguardo su Viola. Si slanciò in avanti con la siringa stretta come una lancia. Viola gridava.

Mikaela si risvegliò perchè si sentiva bagnata. Che diavolo le era successo? Ricordava la botta in testa, ma non sapeva chi poteva essere stato? Si guardò le mani e vide che erano coperte di sangue. Sussultò, ma poi capì che non era suo: stava invece piovendo dal cielo. terrorizzata, iniziò a correre mentre le tornava alla mente il cavaliere. Che fine aveva fatto? Non lo sapeva e mai avrebbe potuto saperlo, pensò. Ma nemmeno le importava. Voleva andare a casa, voleva che tutto quel grande incubo finisse. Ma qualcuno era del parere contrario evidentemente, perchè la strada le fu sbarrata da qualcosa. Mikaela aveva avuto un cucciolo una volta: era un cagnolino dolcissimo, un piccolo pastore tedesco che si chiamava Dexter. era dolcissimo ma non sopportava suo fratello, gli ringhiava sempre contro. poi un giorno Mikaela lo aveva trovato in giardino, con la gola aperta. asveva pianto, aveva urlato, ma lui era rimasto così, immobile. Non seppe mai chi era stato. Suo fratello pianse, anche se il cane non lo aveva mai preso in simpatia e Mikaela non aveva mai visto il fratellino così turbato. Ora, sotto quella pioggia di sangue battente, Mikaela si ritrovava davanti a dexter: era lui, solo che era più grande, con il pelo arruffato e i denti aguzzi: ringhiava e rantolava, con una bava giallastra che gli colava dai denti affilati. Gli occhi erano rossi e brillavano come se vi fosserio due lampadine dentro.
"Dexter?" disse Mikaela in preda al panico. Il cane, che sembrava piuttosto una iena fuggita dall'inferno, si mise in posizione di attacco. Anche Mikaela, come Viola, urlava.

Peter langstorm era seduto in casa, sulla poltrona. ora la vecchia con il corpo martoriato poteva toccarlo e lui snetiva che il tocco non era solo nella sua testa. "E' iniziata davvero?" domandò lui.
"Si, amore mio" rispose la vecchia con la voce fredda e mopstruosa. La sua carne era continuamente divorata da lombrichi che si muovevano sotto la pelle. "E' iniziata e adesso tocca a te. Apri la tuia mente. fallo entrare".
Langstorm si mise le mani sul volto. "Non voglio" disse.
"Devi. Devi!". langstorm urlava mentre la donna gli afferrava il volto e cercava di infilargli la lingua putrescente tra le labbra. "Sei mio, amore e farai quello che voglio". E infine anche langstorm urlava.

Nella stanza buia, invece, Lui rideva.

giovedì 6 gennaio 2011

CAPITOLO 7- TEMPUS FUGIT


Mikaela si trovava in una chiesa buia. Dalle finestre ad arco con i vetri a mosaico ogni tanto faceva capolino un lampo di luce che illuminava tutto a giorno: fuori c'era un temporale spaventoso, poteva sentire il rimbombo dei tuoni. Non aveva idea di come fosse arrivata lì, ma sentiva che c'era un motivo ben preciso; non si era nemmeno accorta di essere nuda, ma in quel momento non le sarebbe importato minimamente. Si sentiva come attratta da una forza che non riusciva a identificare, ma la percepiva chiaramente: sembrava venire da dietro l'altare. Attraversò il corridoio che si apriva tra le file di panche non facendo caso al marmo freddo che aveva sotto ai piedi scalzi, non sentiva freddo, anzi era come se sulla sua pelle ci fosse qualcosa di caldo che la proteggeva. Un lampo le illuminò gli occhi color nocciola, che in quel momento erano fissi e intenti a scrutare qualcosa nell'ombra,qualcosa di troppo nascosto nel buio fitto per poter essere realmente visto. I capelli lunghi e mossi le cadevano morbidamente sulle spalle, scuri e profumati, il suo corpo era sinuoso, la pelle morbida e pallida e i lampi creavano un gioco di luci e ombre che valorizzavano ogni curva, da quelle morbide e sode dei seni ai fianchi: era di una bellezza sconvolgente, sinuosa e sensuale, soprattutto con quell'espressione assorta e preoccupata che aveva in volto, involontariamente tenera e spaurita. Le sue gambe si muovevano come se non fosse lei a volerlo e nella mente covava un solo morboso pensiero: raggiungere l'altare, che sembrava distante chilometri. In effetti la chiesa era molto più lunga del solito e gli sembrava di stare camminando da ore, ma non voleva cedere, o piuttosto non poteva. Nelle orecchie sentiva come un ronzio, forse una voce lontana e molto confusa che aumentava mano a mano che si avvicinava alla navata. Ancora pochi passi e sarebbe arrivata dove voleva arrivare, senza badare al frastuono del temporale e ai lampi che a tratti la illuminavano in tutta la sua bellezza sincera. Il suo piede destro tocco il primo dei tre gradini coperti da un tappeto grigio: era arrivata alla meta. Salì gli scalini e oltrepassò l'altare, dietro al quale c'era come un muro d'ombra, impenetrabile e carico di un'energia spaventosa, malvagia. quando vi fu davanti il buio venne squarciato da un sottile cono di luce che illuminava qualcosa: Mikaela pensò che era ovvio. Nuda com'era, bella e pura, allungò una mano dalle unghie lunghe verso l'oggetto, conscia che poteva rivelarsi un grave errore, ma in fondo si trattava di qualcosa di sacro: quello che aveva davanti era un crocifisso gigantesco, di legno nero come la pece, forse ebano. Il ronzio che aveva nelle orecchie ora era un frastuono assordante e sentiva quasi il bisogno di tapparsi le orecchie con tutta la forza che aveva nelle dita, ma resistette. Il crocifisso sembrava permeato da un'aura magnetica di cui Mikaela avvertiva quasi la forza: allungò la mano, desiderando di poterlo toccare. Quando la punta del suo indice era a pochissimi millimetri dal legno il ronzio cessò e lasciò posto ad una voce sibilante: era agghiacciante, non aveva niente di umano e si stava rivolgendo a lei. "Vieni a me... Vieni a me, coraggio".
La ragazza si sentiva attratta da quella forza soprannaturale ma ne aveva anche una gran paura: cosa sarebbe successo se avesse toccato il crocifisso? Ma soprattutto non capiva perchè ne fosse tanto ossessionata, proprio lei che non aveva mai creduto, che non aveva mai avuto fede in Dio. "Ma io non sono Dio, Mikaela" disse la voce cupa e demoniaca nella sua testa "Io sono molto, molto di più". Fu un istante: con un gesto fulmineo la ragazza appoggiò una mano sul legno nero e sussultò: era freddo come la morte, liscio come il vetro e lo sentiva quasi vibrare sotto alla pelle. Ebbe appena il tempo di registrare queste sensazioni e poi si sentì attraversare da una scossa: ogni centimetro del suo corpo soffriva, voleva urlare ma non poteva farlo, aveva la giola come paralizzata. Non respirava. Il suo corpo nudo ebbe uno spasmo e venne scaraventato all'indietro, mentre il crocifisso si spezzava con uno schianto; era rimasto in piedi solo un pezzo del tronco e nel punto in cui si era spezzato scaturiva una luce azzurra che emanava un freddo spettrale. Ora la voce risuono in tutta la chiesa, mentre i lampi illuminavano tutto dalle finestre. "Adesso lo capisci, Mikaela?" disse la voce "Capisci che sei curiosa? I curiosi sono stolti, Mikaela. E lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo...".
"Ci cade dentro!" strillò Mikaela in preda ad un dolore lancinante che non capiva da dove venisse. Riuscì a puntare lo sguardo sul crocifisso anche se era accasciata al suolo e lo vide: un fumo sottilissimo, come quello che viene sprigionato dal ghiaccio, scaturiva lentamente dal legno e si muoveva sinuosamente. Mikaela non poteva crederci ma lo aveva davanti a sè: il fumo si stava disponendo a formare una sagoma e quando si fermò, la ragazza si ritrovò a guardare un essere spaventoso. Era completamente costituito da quel fumo sottile ma i lineamenti e le forme erano inconfondibili: era alto e ammantato, con i capelli lunghi e un paio di occhi fissi, un viso allungato e la bocca aperta munita di zanne, le mani armate con artigli lunghissimi. "Vedi Mikaela" disse la figura avvicinandosi "Tu adesso mi vedi così, ma questo non sono io. E' così che tu ti sei sempre immaginata il male, credo. Mi è più comodo mostrarmi così, ma vedi... io posso essere anche tante altre cose". Si chinò sulla ragazza e la toccò: era ghiacciato e Mikaela sussultò.
"Chi sei?" sussurrò la ragazza, terrorizzata. La figura di fumo la guardò con quegli occhi fissi e punto lo sguardo in quelli di lei: erano a dir poco meravigliosi, scuri ma intensi, con quel taglio splendido.
"Io" disse lo sconosciuto "Sono quello che tormenta i tuoi sogni. Quello che sta per tormentare la veglia di tutti voi. Io sono il Male, ragazza. Sei molto bella, ma ho imparato una cosa sulla bellezza umana: è effimera!" e con un gridò abbassò violentemente gli artigli sul corpo inerme di Mikaela. La ragazza si svegliò con un urlo. Era stesa sul divano e ci mise qualche secondo per realizzare cosa fosse successo.Si alzò a sedere: aveva la fronte imperlata di sudore e qualche ciocca di capelli appiccicata alla pelle; si ricompose e cercò di realizzare cosa fosse appena successo. Ricordava solo che si era stesa sul divano e all'improvviso si era ritrovata in quella chiesa. Aveva sognato, ovvio, ma le era parso tutto così dannatamente reale, poteva ancora sentire quella sensazione di terrore cieco che l'aveva immobilizzata. E poi l'uomo di fumo, quello lo aveva ben presente: aveva l'aspetto di un uomo che tempo prima l'aveva spaventata a morte. era un amico di suo padre, un collega di lavoro. Da parecchio tempo ogni volta che la vedeva si comportava in maniera fin troppo gentile, se la trovava a camminare per strada si offriva volentieri di darle un passaggio. Mai avrebbe pensato che fosse uno schifoso bastardo, se ne accorse solo quando un giorno invece di portarla a casa la condusse in un capanno vicino al bosco. Quando capì cosa stava per succedere era già bloccata nella sua stretta: l'aveva portata dentro al capanno e l'aveva sbattuta contro il tavolo. lei urlava ma lui aveva un coltello e non poteva fare nulla, si sentiva impotente, inerme. Proprio quando lui stava per sfilarsi la cintura era successo qualcosa: lo aveva visto sgranare gli occhi e indietreggiare, tenendosi il braccio sbavando. Dopo pochi secondi era crollato per terra. Era scappata ed era tornata in città, sotto shock: ci erano voluti mesi perchè riuscisse a uscire di casa senza sentirsi morire e questo aveva fatto peggiorare la situazione in casa. i suoi genitori avevano già perso un figlio e rischiare di perdere anche lei li aveva oltremodo distrutti, facendoli addirittura arrivare a pensare che lo stesso uomo che l'aveva aggredita poteva aver ucciso il loro unico figlio maschio, ma le indagini che ne seguirono li avrebbero smentiti. Jeremy era stato ucciso da qualcun altro. Ma in quel momento Mikaela stava pensando a quello che aveva sognato: il suo defunto aggressore, ma non era veramente lui, glielo aveva detto... aveva solo assunto quelle sembianze per terrorizzarla, ma era qualcosa di più. Qualcosa che a quanto pare stava per uscire dall'ombra: Mikaela era sicura che quello non era un semplice sogno, era solo il culmione di tutto l'orrore che da tempo avvertiva come un cancro nella sua testa, lo stesso male che la tormentava ogni notte. Solo che questa volta si era manifestato più chiaramente. Guardò l'orologio: le cinque. Aveva dormito per un paio d'ore, mentre sua madre era al funerale del giovane Pat Turner. Si alzò e andò in bagno per sciacquarsi il viso: quando fu davanti allo specchio si guardò. Era splendida, anche se lei non alo avrebbe mai ammesso, non si riteneva carina, ma in quello aveva grandemente torto. Si passo una mano tra i lunghi capelli mossi e cercò di pettinarli. Era incredibilmente sensuale con quella semplice maglietta a maniche lunghe color verde bottiglia e i jeans stretti
(Sei molto bella)
l'ovale del viso morbido con una ciocca ondulata che andava ad incorniciarlo
(ma ho imparato una cosa sulla bellezza umana)
le labbra perfette leggermente increspate in quel momento
(è effimera!)
e gli occhi color nocciola. Li chiuse per cercare di pensare, aveva ancora la voce di quel mostro nella testa. Era bellissima a quanto pareva. Ma non era felice di sentirselo dire da quell'essere, doveva capire cosa diavolo stava succedendo. la cosa che più la inquietava era che non si sentiva stupita nel ritrovarsi a credere in un essere soprannaturale pronto a emergere dall'oscurità. Perchè le sembrava quasi ovvio? C'era qualcosa che non le tornava, era tutto troppo assurdo. Troppo. Andò in camera sua e si sedette alla scrivania, sospirò e prese in mano la matita: una volta aveva funzionato, perchè non tentare di nuovo? Chiuse gli occhi e appoggiò la punta sul foglio. La mano iniziò a muoversi da sola, memntre lei si sforzava di concentrarsi: quando era stata portata in quel capanno aveva subito un grave shock ed era stata costretta ad andare in cura da uno psichiatra perchè potesse superare il trauma. Se c'era una cosa che davvero sapeva fare bene, era disegnare e questo il dottor Darnell l'aveva capito. Le disse di concentrarsi e di lasciare che la sua mente le muovesse la mano: così, a occhio ciusi, Mikaela quella volta aveva disegnato una ragazza identica a sè stessa che veniva afferrata da un mostro molto simile a quello che aveva sognato, solo che quel giorno era semplicemente il modo in cui nella sua mente vedva il suo aggressore. E adesso lo aveva sognato. Quindi si chiedeva cosa sarebbe accaduto se avesse ripetuto in quel momento l'esperimento, forse sarebbe emerso qualcosa di interessante dal suo subconscio. Forse. Il grafite della mina tracciava ampie linee sinuose sulla carta bianca, trasformandola e dandole un nuovo significato mentre gli occhi di Mikaela guizzavano sotto alle palpebre serrate: aveva gli occhi chiusi ma vedeva. Vedeva. Era buio ma riusciva a intravedere qualcosa, era come una stanza, sentiva di starla disegnando, stretta e alta. No, non una stanza... piuttosto un tunnel, verticale e infinito. Annusò l'aria istintivamente: sentiva odore di muffa. Perchè sentiva odore di muffa?
(Il cervello ti si è fritto, altrochè, miss Mikka Mukka)
sobbalzò nel sentire la voce del suo fratellino nella testa. Mikka Mukka. La chiamava così, e le diceva sempre che aveva il cervello fritto. Le mancava, più di ogni altra cosa. Ora le sembrava quasi di sentire nelle ossa l'umidità della stanza che stava disegnando, era tremendo. Aprì gli occhi risvegliandosi da quella visione e osservò il foglio: davanti a lei c'era uno schizzo perfetto. era chiaramente l'interno di una struttura stretta e alta, con mattoni umidi alle pareti.Chiaro e inequivocabile. Aveva disegnato l'interno di un pozzo.
'Cazzo' pensò 'Cazzo. Che diavolo significa?'.

Frida Nelson stava preparando il the. Adorava berlo mentre parlava con suo padre, anche se sapeva bene che lui non la sentiva. Ma lo stesso le piaceva entrare nella stanza buia, chiudere gli occhi e sorbire il liquido caldo e ambrato mentre parlava del più e del meno con l'unica persona che restava con lei.; certo, era in uno stato vegetativo e aveva solo qualche piccolo spasmo ogni tanto, ma negli ultimi tempi le sembrava quasi che lui la potesse sentire, era convinta di percepirlo più ricettivo, ma forse era solo una sua idea. Quando il bollitore iniziò a fischiare Frida spense il fornello e versò il the fumante in una tazza di ceramica azzurra, poi salì le scale ed entrò nella camera dove riposava suo padre. Era buio pesto, ma Frida non voleva far entrare troppa luce. A suo padre la luce non era mai piaciuta e anche se il dottore le consigliava sempre di arieggiare il locale e spalancare le finestre, lei non ne voleva sapere: suo padre amava il buio quando era cosciente e lo amava anche ora che era ridotto ad uno stato vegetativo, ne era certa. Si sedette su una sedia e iniziò a parlare. "Giornata assurda oggi. Quello che è successo in chiesa ha dell'incredibile, ma te l'ho già detto prima. A volte mi chiedo perchè accadano certe cose così strane, ma del resto Nostro Signore opera per vie misteriose e chissà, forse si è trattato di un a strana reazione chimica, chi può dirlo?" fece una pausa per sorseggiare del the. "Oggi sei più inquieto del solito" continuò. Il corpo nel letto era scosso da piccoli sussulti: capitava spesso ma quel giorno era come se il corpo di suo padre stesse cercando di risvegliarsi. Era strano. Frida continuò a parlare nel buio, talvolta accarezzando la fronte imperlata di sudore del vecchio, con la dolcezza che metteva in ogni gesto nei suoi riguardi: doveva molto a suo padre ed era per questo che si era sobbarcata la responsabilità di accudirlo, sorprendendosi nel vedere che non era assolutamente una grave incombenza come aveva pensato all'inizio. Era molto sola e lui in un modo o nell'altro le faceva compagnia. Dopo aver bevuto il the scese al piano di sotto per sistemare alcune faccende, lasciando da solo il vecchio. La stanza era immersa totalmente nel buio e l'unico rumore che si poteva sentire era il rantolo che emetteva il corpo steso nel letto. E poi c'era quel sussulto, continuo e quasi impercettibile, come se il corpo fosse scosso dall'eccitazione. Frida era sulle scale quando sentì il verso. Si voltò e ascoltò attentamente: ancora una volta il silenzio fu rotto da un lamento. Spaventata, la donna corse nella stanza dove riposava suo padre e istintivamente accese la luce. Desiderò non averlo mai fatto: il vecchio era seduto sul letto con gli occhi spalancati e completamente neri anche dove normalmente dovrebbe esserci il bianco, la bocca aperta come in un silenzioso grido di terrore, le gengive scoperte. E quel lamento basso e sottile invadeva la stanza.
"Papà" strillò Frida "Mio Dio che ti succede?". Frida piangeva, non sapeva cosa fare.
Il vecchio mosse gli occhi e la guardò, rantolando ed emettendo quel lamento figlio inequivocabile di chi non riesce a respirare bene. "Il pozzo" biascicò "Lo straniero. Finalmente. Finalmente!" gracchiò infine. Frida avrebbe voluto urlare ma non ne ebbe il tempo: sentì una fitta al torace e venne scaraventata all'indietro, picchiando la testa contro il muro. Stordita, Frida cercò di rialzarsi, ma quando aprì gli occhi vide che suo padre la stava fissando intensamente con quei suoi occhi completamente neri: avvertì una morsa di panico serrargli la bocca dello stomaco, mentre la vista gli si confondeva. Il vecchio era ancora seduto nel letto con quell'espressione vacua e terribile: Frida si accasciò sul pavimento, oramai praticamente priva di coscienza; poteva solo avvertire gli occhi che le si scioglievano colando sulle guance in una poltiglia appiccicosa. Pochi secondi dopo la donna giaceva esanime a terra, con una bava grigiastra e striata di rosso che le gocciolava dalle orecchie.Il vecchio nel letto rimase immobile, ma consapevole: ormai era tutto pronto, finalmente si sarebbe liberato e lo Straniero era in suo potere. Doveva solo uccidere la ragazza, ma per quello c'era ancora tempo, ancora pochissime ore e avrebbe portato l'inferno a West Coburn.


Lo sceriffo Gambon rimase di sasso quando gli riferirono quello che era successo un paio d'ore prima: la chiesa era andata a fuoco dopo l'esplosione della bara del giovane Turner. Era chiaro che qualcosa non quadrava, ma era sempre stato restio a credere nel soprannaturale, anche se nelle ultime ore erano successe molte cose che avevano dell'assurdo. Al momento si trovava in ospedale, chino sul letto in cui giaceva, in stato catatonico, Reginald Langstorm. Accanto a lui c'era il padre dell'uomo, Peter, alto e azzimato, con i radi capelli rossicci ben pettinati.
"Peter, non vorrei dovertelo chiedere, però..." iniziò Gambon, cercando di assumere un tono diplomatico.
"Non lo so perchè l'ha fatto" rispose langstorm con voce piatta "E' pazzo, Hannibal. Violento. Non credo ci siano altre spiegazioni".
"E Crandon?" continuò lo sceriffo.
"Cosa?" chiese Langstorm, stupito oltremodo. aveva sentito bene?
"Continuava ad urlarlo, poi è diventato così" spiegò lo sceriffo, indicando gli occhi vitrei e spalancati di Reginald: non aveva mai visto un tale sguardo, così vuoto e triste.
"Non... Non so cosa potrebbe essere" replicò Langstorm "Senti hannibal, da quanto ci conosciamo?".
"Molti anni" disse Gambon.
"E se ti dicessi che stiamo per morire tutti, cosa rispinderesti? Ti fideresti di me o mi daresti semplicemente del pazzo?".
"Peter, non credo di capire dove vuoi arrivare. Perchè diavolo staremmo tutti per morire?".
"Non ho detto che stia per accadere. Ti ho chiesto se mi crederesti in un'ipotetica situazione simile".
"Sei sconvolto, ti capisco. Beh, credo che ti darei ascolto. Magari non ti crederei subito, ma non ti darei del pazzo. Ogni persona può credere quello che vuole, Peter. E se tu ne fossi convinto allora credo che nessuno potrebbe farti cambiare idea. Ma tu credi davvero che stiamo per morire tutti vecchio mio?".
"No" disse Langstorm con un debole sorriso "E' solo che sono a pezzi. Ho bisogno solo di sapere se ho almeno i vecchi amici vicino".
"Sempre, vecchio mio. Vai a casa ora, resto qui io".
"Che ore sono?".
"Le sei meno dieci".
"Va bene. Tornerò verso..." fece per dire Langstorm.
"Prima che mi dimentichi" lo interruppe Gambon "Ha detto qualcosa circa il nono rintocco. E' successo tutto poche ore fa... credo si riferisse alle nove di stasera. Che succede a quell'ora?".
Langstorm fissò suo figlio tristemente e poi si rivolse allo sceriffo: "Succede che lui sarà ancora in questo letto, con gli occhi spalancati. E noi qui fuori dal mondo in cui è sprofondato e da cui non uscirà più. Devo andare" e detto questo si congedò.
Peter Langstorm camminava da solo nell'aria fresca del tardo pomeriggio. ma aveva in mente pensieri cupi, di morte: ormai aveva capito cosa stava succedendo. "Perchè lui?" domandò a voce alta, ma senza gridare.
"ma tesoro" sussurrò una voce calda e morbida, eppure lievemente minacciosa "Lo sai il perchè".
Langstorm guardò alla sua destra e la vide: la solita vecchia disgustosa con la pelle marcia, le orbite vuote, le gengive cave e nere. i suoi capelli erano lunghi e disgustosi, come alghe appassite. "Hai sempre avuto una predilezione per Reginald. Era solo un ragazzo, eppure hai voluto tormentarlo lo stesso. perchè lo fai? Perchè vuoi ucciderci tutti?".
"Amore" replicò la voce, questa volta gracchiante e sgraziata "Lo faccio perchè devo. Perchè mi diverte, perchè vi adoro tutti" concluse ridacchiando "Vi adoro perchè mi fate divertire, siete così buffi quando soffrite".
"E' per stasera, dunque. Stavo pensando, che accadrebbe se io ora andassi a casa, afferrassi un rasoio e mi aprissi i polsi?".
"Non accadrebbe nulla, tesoro mio. Prenderei il rasoio e lo farei sparire. Se tu morissi sarebbe solo perchè l'ho deciso io, e non voglio perderti adesso. Mi servi, oh sì tesoro, mi servi proprio".
"Lo immaginavo. E se io non volessi collaborare?".
"Ma tu non puoi scegliere! Se ti rifiutassi dovrei costringerti con la forza della persuasione e sai quanto io sia brava in questo. No, preferisco averti lucido, amore".
"D'accordo, non posso sottrarmi" disse Langstorm lentamente " Ma una cosa per me la puoi fare forse".
"Tutto quello che vuoi amore mio".
"perfetto. Allora smettila di chiamarmi amore. Lana è morta, smettila di imitarla. Mi disgusti" e detto ciò accelerò il passo. Tanto lei lo avrebbe seguito anche se fosse andato alla velocità della luce. ma con sua inorridita sorpresa si senti afferrare il polso da una mano viscida e fredda: ne avvertiva la stretta.
"Amore, tu non detti condizioni" disse la vecchia con un sorriso tutto gengive. Sulla fronte aveva delle piaghe cancrenose che quasi scendevano a divorarle gli occhi. Un balenio bianco offuscò una delle narici mangiate dalla decomposizione e un verme paffuto fece capolino, muovendosi lentamente. La pupilla dell'occhio sinistro era biancastra e nella sclerotica si muovevano tanti piccoli moscerini. "Non sono più solo un parto della tua mente: ora sono vera. e tra tre ore lo saranno tutte le altre cose". E poi accadde una cosa che ebbe dell'assurdo.

Viola era ancora con Jo, a casa. Era abbracciata a lui sul divano, la testa appoggiata sulla sua spalla. la chiesa era andata a fuoco, la bara di Pat era praticamente saltata per aria. Cosa cazzo stava succedendo? Era come se si fossero ritrovati all'improvviso in un film dell'orrore, non aveva senso quello che stava accadendo. era in uno stato di shock molto profondo e aveva bisogno di Jo più che mai; si ritrovò a pensare a quello che provava per lui: era quella forse la cosa più strana. Era da quando si era lasciata con Pat che non aveva più provato simili sensazioni per un uomo e per di più si trattava di un perfetto sconosciuto: non sapeva assolutamente nulla di lui, nulla. Eppure lui era lì che le stava accarezzando i capelli scuri e lisci, contemplando il suo sguardo fisso e spaventato. Si sentiva al sicuro con lui, come se niente potesse accaderle, non sapeva che nome dare a quel sentimento, ma era certamente qualcosa di molto forte. E questo non aveva alcun senso logico. Poche ore prima erano stati sul punto di baciarsi, ora invece erano legati da una sintonia impressionante, come se in quel momento le loro menti fossero collegate da un legame invisibile: lui sentiva la paura di lei e lei sentiva la calma rassicurante di lui. Ma in realtà Jo non era poi così calmo: aveva paura, ma cercava di dissimulare quel sentimento per non allarmare Viola. Quanto avrebbe desiderato un sorso di whisky in quel momento! ma non poteva, doveva stare con lei: era lei il suo whisky adesso, calda e sensuale. fece scivolare una mano lungo il suo ventre, accarezzandola e la sentì scuotersi in un brivido di piacere.
"Sai" disse lei all'improvviso "Non so perchè, ma credo che ci sia qualcosa in te che mi attragga in maniera incredibile".
"La cosa è reciproca. Per anni ho cercato una come te, una che non avessi bisogno di imparare a conoscere. Ed è così: non ho bisogno di conoscerti per capire che sei la cosa più bella che io potessi desiderare" disse lui avvicinando il viso al suo. Fu un istante e le loro labbra si toccarono: quelle di lei erano morbide e calde. Si baciarono a lungo stringendosi con passione, abbandonandosi completamente e dimenticando quello che era successo in quelle ore. Lei gli mise una mano intorno al collo e lo tirò a se, cadendo distesa sul divano e sentendo il corpo di lui che si appoggiava delicatamente sopra il suo. Istintivamente Viola portò una mano a slacciare i primi bottoni dei jeans e subito dopo sentì la mano di Jo che si insinuava dolcemente in basso, dentro all'indumento. Gli occhi di lei si socchiusero e si morse leggermente il labbro inferiore quando avvertì la prima ondata di piacere e con le dita strinse la spalla di lui, che nel frattempo le baciava languidamente il collo liscio e profumato. Lei non pensava più a niente, solo alle senzazioni che le stava provocando il tocco intimo e delicato di lui, deciso ma allo stesso tempo dolce. Era scossa dal piacere e non le era mai capitato prima di essere investita da una tale forza, era come se conoscesse quell'uomo da una vita, sapeva esattamente come toccarla, cosa dirle. Ansimò in preda a ripetuti brividi caldi che le arrossarono leggermente le pallide guance, gli occhi offuscati da un velo di lacrime. Poi si abbandonarono completamente l'uno all'altra.

Jo era in bagno e ripensava a quello che era accaduto poco prima. Era stata l'esperienza più incredibile che avesse mai provato e non credeva di aver mai incontrato in nessuna una simile energia. Era stato meraviglioso, intimo e incredibilmente potente: i loro corpi si erano uniti con una naturalezza straordinaria e le loro menti si erano sintonizzate come mai prima. per qualche secondo addirittura gli era parso di riuscire a sentire i pensieri di lei ed era stato investito da una passione tale che aveva quasi perso i sensi. Viola era ancora abbandonata sul divano con gli occhi chiusi e nella mente tutto quello che avevano fatto pochi minuti prima. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai. Si rimise i vestiti e ripensò al momento in cui le era parso di sentire nella testa la voce di lui che le sussurrava quanto l'amasse. Ma era certa che lui non aveva parlato, era come se ne avesse percepito i pensieri.
Jo non poteva credere di avere pensato di amarla eppure era quello che sentiva in quel momento: la amava. Non la conosceva, ma la amava, quasi fosse qualcosa che non poteva controllare. Non glielo avrebbe detto però, non era il momento ancora, era troppo presto.
Viola sentiva di amarlo, anche se la cosa le pareva impossibile. Ma era così, quello che provava era inequivocabile. Mentre pensava questo non fece caso all'orologio appeso al muro: erano le sei e in quello stesso momento Peter Langstorm veniva afferrato al polso dalla donna morta che lo perseguitava. Fu in quel momento che accadde: come amplificati da mille megafoni echeggiarono ovunque sei rintocchi di campana. Viola si strinse la testa: era come se una campana stesse rintoccando nel suo cervello, credette di impazzire e allostesso modo Jo si ritrovò accovacciato a tapparsi le orecchie. Era così in tutta West Coburn: per qualche secondo tutti, dai bambini agli anziani, dovettero stringersi forte la testa, spaventati da quel fenomeno improvviso. Solo Reginald Langstorm nel suo letto di ospedale sembrava non esserne infastidito: rimase immobile eccetto per le labbra, che si stesero in un sorriso largo e quasi ebete.
Quando tutto fu finito, Viola vide Jo che accorreva per vedere se le fosse successo qualcosa. "la campana" disse Viola con calma "Come fa a suonare la campana?".
"Cosa vuoi dire?" replicò Jo, stringendola a sè.
"La chiesa è andata a fuoco, e anche il campanile. Come può suonare?". Jo la fissò: aveva ragione. Che diavolo stava succedendo?

Mikaela si mise al collo il ciondolo a forma di pentacolo e uscì di casa. D0accordo, stava decisamente impazzendo: prima il sogno, poi il disegno... qualcosa non andava. Doveva capire che cosa le stava succedendo e soprattutto voleva sapere se tutto ciò avesse a che fare con la morte di suo fratello. Giocò per un po' con il piccolo pentacolo di metallo mentre camminava, poi si avviò i lunghi capelli all'indietro e infilò le mani nelle tasche del giubbotto di pelle. All'improvviso si sentì attraversare il corpo da una scarica: sussultò e si voltò alla sua destra. Era davanti a una grossa gasa in legno con tanto di giardino: sapeva chi viveva lì. Era una signora di mezz'età che accudiva il padre paralitico se non ricordava male, gliene aveva parlato sua madre tempo prima; si avvicinò sentendo crescere quella sensazione strana, quasi elettrica, che l'aveva investita pochi istanti prima. C'era qualcosa in quel luogo che forse poteva aiutarla? istintivamente aprì il cancelletto nella staccionata ed entrò nel giardino: sentiva un sibilo provenire dal retro. Facendo attenzione a non essere scoperta fece il giro della casa e quando fu nel giardino sul retro si sentì mozzare il fiato: quello che aveva davanti era... un pozzo. Vecchio e costruito con grezzi mattoni pietra intagliata, l'arcata di metallo con una corda marcia legata che si precipitava all'interno in tutta la sua lunghezza. Il sibilo proveniva dal fondo del pozzo. Mikaela si avvicinò per guardare cosa ci fosse dentro: si sporse e vide una luce abbagliante, poi udì la voce, cupa e fredda, maligna: "Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo...".
"No!" gridò Mikaela gettandosi all'indietro proprio mentre sentiva un'aria fetida e calda accarezzargli il volto. cadde distesa per terra e guardò il pozzo: proprio dove c'era lei un attimo prima era sopraggiunto un vento che veniva risucchiato dalla bocca del pozzo, con un rumore sibilante. Se non si fosse spostata in tempo sarebbe stata risucchiata anche lei: si alzò e corse via da quel luogo, mentre la voce echeggiava minacciosa: "Credi che questo basti per salvarti? Finirete tutti nel pozzo, tutti!".
Mikaela correva a perdifiato con una paura profonda nel cuore: il male, si era risvegliato il male e adesso ne aveva la certezza. La corsa della ragazza fu interrotta da un'esplosione nella sua testa: spalancò gli occhi e si portò le mani alle orecchie cercando di attutire il rintocco di mille campane. Cadde a terra e urlò, urlò fino ad arrochirsi la voce mentre le sfilavano nella mente un milione di immagini diverse. Quando il suono cessò si rimise in piedi , inorridita, ripensò a cosa aveva appena visto. Per la prima volta nella sua vita pronunciò le due parole in cui non aveva mai creduto. "Dio mio" sussurrò. Stava per scoppiare il caos. Poi sentì una mano che le si appoggiava sulla spalla: sussultò e si voltò. Qualcosa la colpì con violenza e poi fu il buio.

Erano le nove meno dieci e lo sceriffo Gambon era ancora in ufficio. Dieci minuti. Non sapeva perchè fosse così curioso di sapere che cosa sarebbe successo alle nove, ma non poteva farne a meno. Si sentiva impotente e sapeva dentro di sè che tutto quello che stava accadendo sfuggiva al suo controllo. pensò a Cartbury, a Viola, al forsetiero che sembrava così stranamente legato a sua figlia... C'era qualcosa di mostruoso dietro agli avvenimenti delle ultime ore e voleva capire di cosa si trattasse, ma poteva solo aspettare. Era frustrante per uno come lui. Improvvisamente fu coltò da un'illuminazione: aveva detto a Samson di chiamare subito Viola quando reginald Langstorm aveva dato di matto, ma poi non era venuta. e lui non si era nemmeno ricordato di averla fatta chiamare. perchè? Si rese conto che non aveva più pensato a sua figlia in tutta la giornata fino a poco prima. Come se qualcosa gliel'avesse estirpata dalla mente. Pensò che aveva paura, nemmeno se avesse avuto di fronte un serpente gigante si sarebbe sentito più spaventato e non era cosa da poco, dato che la sua ofidiofobia era spaventosamente grave. Davanti ad un serpente si paralizzava e si sentiva morire. Una volta aveva sognato un boa gigantesco che usciva dallo scarico del lavandino sfondandolo. Ne aveva parlato a Viola e ne era rimasta molto impressionata.
Gambon si passò una mano tra i capelli grigi e si alzò, avviandosi verso l'uscita della centrale, saluutando il poliziotto che sarebbe rimasto lì tutta la notte. Spalancò la porta e guardò il cielo: nuvole violacea si erano addensate ovunque ne un forte vento stava spazzando le strade. All'improvviso si udì un urlo agghiacciante, ma non di terrore: un urlo minaccioso, come se il male stesse per irversarsi nelle strade. Subito dopo si udì un chiaro rintocco di campane. Non forte come quello di tre ore prima, ma ugualmente limpido. Nove rintocchi.

Reginald Langstorm era nel letto immobile e udì i nove rintocchi. "Crandon" disse.
"Si" gli rispose la voce minacciosa "E' iniziato".

Dal pozzo dietro alla casa di Frida Nelson esplose un fascio di luce e sul bordo di pietra comparve il guanto di un armatura e poco dopo un cavaliere nero si issò fuori. Aveva un lungo pennacchio rosso sull'elmo. Crandon era arrivato. E con lui tutto il resto.

Nella stanza buia il corpo sussultava: era finalmente iniziato tutto. non poteva uscire da lì, ma almeno aveva ucciso la donna. Non si era resa conto che il suo papà non c'era più da un pezzo evidentemente. Non poteva muoversi ma ora poteva creare, poteva essere in tutti i luoghi attraverso le sue creature. Era quasi libero! Alla fine di tutto avrebbe lasciato quel corpo e si sarebbe riversato sull'umanità come la peste. 'Giochiamo sul serio adesso' pensò. La sua furia esplose e un istante dopo sentiva di poter raggiungere ogni luogo di West Coburn nella forma che preferiva, avvertiva la coscienza di ogni abitante e poteva leggerne le paure e le speranze. Si sarebbe molto divertito. Silenziosamente, cercò la mente di Viola, sghignazzando.

sabato 13 novembre 2010

CAPITOLO 6- REQUIESCAT IN PACE


Jo aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Era come paralizzato da un terrore che non riusciva a comprendere, anche se sapeva di dover mantenere la calma, ma non era di se stesso che si preoccupava: Viola aveva bisogno di lui in quel momento e doveva rimanere lucido. Aveva chiamato lo sceriffo e un'ambulanza. Gambon era arrivato poco dopo l'aggressione, mostrandosi sconvolto; aveva abbracciato Viola e poi aveva voluto vedere il corpo di Cartbury: aveva guardato il giovane agente con un'espressione che era tra l'afflitto e il furioso.
"Che diavolo ti è preso, Stephen?" l'aveva sentito mormorare. Jo si rese conto che lo sceriffo doveva tenere molto a quel ragazzo e scoprire che prima di morire aveva cercato di uccidere la figlia doveva averlo scosso più di quel che si poteva immaginare. Ma com'era morto? Questo Jo non era riuscito a capirlo. Ma la sensazione che ci fosse dietro qualcosa di orribile e al di sopra dell'umana comprensione non lo abbandonava: aveva sentito una voce che niente aveva di umano ordinare a Cartbury di uccidere Viola, cosa che lo aveva ulteriormente inquietato. Era certo di averla sentita sbraitare qualcosa a proposito di uno "Straniero" e non riusciva a smettere di pensare che in qualche modo si stesse riferendo a lui. Aveva sognato? Era colpa dello stress? Jo ne dubitava: era stato tutto così terribilmente reale. Sentiva che anche Viola aveva avvertito qualcosa di strano, ma non era quello ilo momento di parlarne. Gambon aveva preso da parte Jo e gli aveva chiesto, non senza un certo imbarazzo, di restare da sua figia per quella notte, dal momento che lui doveva urgentemente tornare in centrale per interrogare Reginald Langstorm. Ovviamente Jo era d'accordo con lo sceriffo: Viola era ancora scioccata dall'accaduto.
Mentre Jo sedeva sul divano nel soggiorno di Viola, lei era sotto alla doccia, da parecchio tempo ormai, ma lui non aveva osato disturbarla. Ci voleva del tempo prima che si riprendesse. All'improvviso si trovò ad immaginare il suo corpo nudo, con l'acqua bollente che scivolava lungo la schiena, i capelli bagnati che ricadevano sulle spalle e le labbra carnose con qualche stilla che pendeva, in procinto di cadere. Jo trovava tutto questo assurdo: in fondo chi era Viola Gambon? L'aveva conosciuta solo poche ore prima, dannazione! Eppure cos'era quella stretta al cuore che sentiva ogni volta che la guardava? L'aveva sentita poche volte nella vita e fino a pochi giorni prima la sua più grande paura era stata risentire quella sensazione. Non voleva più sentirsi in quel modo: vulnerabile. Tre volte. Era stato innamorato solo tre volte nella sua vita e sempre aveva sentito quella particolare stretta, quel desiderio di avere di fianco quella persona per sempre, di non abbandonarla mai. La prima volta aveva sedici anni, lei si chiamava Rebecca: alta, capelli scuri, una gran personalità. era spiritosa e soprattutto si era dimostrata fin da subito interessata a lui e lo era stata per i tre anni successivi finchè
(Ciuf Ciuf, JoJo! E Rebecca? Puf!)
non era stata investita da un treno, una notte in cui avevano litigato. Il rumore dell'acqua proveniente dal bagno poco distante era come ipnotico ed era facile perdercisi: Jo non pensava più a rebecca da anni ormai, ma in quel momento la sua mente era come rilassata, sembrava che i ricordi dolorosi stessero sgorgando da una sorta di rubinetto mentale rotto. Ma forse sgorgare era un termine improprio, sarebbe meglio dire che stavano sgocciolando. 'Ecco, sgocciolare è più adatto' pensò Jo, mentre ripensava alla notte in cui aveva litigato con Rebecca. Era stata una cosa stupida, in fondo: lei le aveva confessato che Steve Gross l'aveva baciata qualche sera prima. Ma lo aveva rimesso subito a posto con un paio di sberle. A quel punto Jo non era riuscito a trattenersi ed era sbottato: possibile che non avesse pensato subito di dirglielo? In fondo erano anche affari suoi, no? Da li era seguita una discussione che si era accesa a poco a poco, sempre di più, fino a che non si era incendiata e lei non era uscita di casa
(Uh si si JoJo! Vivevate insieme ricordi? E tu l'hai spinta ad andare alla stazione!)
senza dire più una parola. Non l'aveva inseguita. Non l'aveva supplicata di rimanere. Non le aveva detto che si sentiva stupido -e solo il cielo sapeva quanto si sentisse stupido in quel momento- e non le aveva detto quanto l'amava. Era andata alla stazione per tornarsene dai suoi, non voleva saperne di passare la notte con lui vicino. Erano solo due ore di treno, era già successo. Aveva attraversato il binario al buio, aveva i tacchi (erano tornati da una festa, erano tutti e due in ghingheri)ed era inciampata. Non sapeva bene cosa fosse successo, se non avesse sentito il treno che stava per arrivare, forse era distratta
(e chissà perchèèèèèèè?)
sta di fatto che non aveva fatto in tempo a staccare il tacco dalla ghiaia che era stata travolta. Aveva pianto, si era disperato, aveva anche pensato di uccidersi. Era diventato una larva, non esisteva più e si riteneva responsabile di quello che era successo. Ma con gli anni aveva imparato a perdonarsi e a farsi perdonare: non l'aveva spinta lui sotto il treno. Si avevano avuto uno stupido litigio, ma avevano diciannove anni santo Dio! Tuttavia dovettero passare sette anni prima che Jo riuscisse a prendere sonno senza vedere il volto di lei, furente, mentre lasciava l'appartamento.
Aveva ventisei anni quando incontrò Nora. Lei era bella, in gamba e soprattutto usciva da una situazione molto simile alla sua: tre anni prima il suo ragazzo era morto in seguito ad un cancro che lo aveva divorato lentamente. L'aveva conosciuta al suo gruppo di sostegno psicologico: a quanto pare aveva provato a togliersi la vita tagliandosi i polsi, ma era stata salvata in tempo e di questo Jo ne era stato grato; grazie a lei era riuscito a ripartire, a rimettersi in carreggiata. La loro storia durò parecchio, circa tre anni, in cui si amarono alla follia, fino a che un giorno, tornando a casa dal lavoro, Jo non l'aveva trovata sdraiata sul letto, riversa in una pozza del suo stesso vomito. Sul comodino c'era un flacone di sonniferi vuoto, con una singola pillolina color ambra vicino all'abat-jour. Non una riga, non una sola parola sul perchè l'avesse fatto. Niente di niente. Semplicemente aveva afferrato il flacone con le pillole e se l'era svuotato in gola, senza un apparente motivo: lui la vedeva felice, l'aveva sempre creduta felice al suo fianco. Probabilmente si era sbagliato. Quella volta il colpo fu durissimo: sprofondò in una depressione spaventosa e credeva che non ne sarebbe più uscito, ma quando ormai aveva perso le speranze incontrò Rhonda. La terza donna che ebbe mai amato(ovviamente aveva avuto altre storie, ma niente di veramente serio). Quando la conobbe aveva più di trentacinque anni ed era un professore stimato nella scuola in cui insegnava letteratura. Lei era una sua collega, non era particolarmente bella, ma a lui piaceva: non tanto alta, biondastra, leggermente tozza ma con due occhi spalancati che lo facevano vibrare di stupore ogni volta che vi piantava dentro lo sguardo. la amava ma dentro di lui si agitava ancora qualcosa, una paura incredibile: non voleva che lei facesse la fine delle altre due
(le hai uccise tu Jo, le hai uccise con il tuo comportamento, non ti sopportavano!)
donne che aveva amato. Beveva. beveva tanto e senza misura, così che aveva iniziato ad odiarsi e questo odio lo riversava su Rhonda. la picchiava, forte e con rabbia. Perchè, se l'amava e voleva proteggerla? Perchè era caduto e non riusciva a rialzarsi, pensava ogni volta. Era arrivato al punto di ucciderla quasi: l'ultima volta si era fermato con la mazza da baseball a mezz'aria, pronto a spaccarle il cranio mentre lei piangeva. Lo stava per lasciare, voleva fuggire, non poteva farlo. Ma in un lampo di lucidità di era guardato allo specchio e aveva visto cos'era diventato: un mostro. Un mostro disgustoso. L'aveva lasciata andare e non ne aveva più avuto notizie. Due giorni dopo un agente di polizia si era presentato a casa sua e lo aveva portato in centrale per fargli un mucchio di domande: Rhonda era scomparsa. Dispersa. Sospettavano di lui, credevano che l'avesse uccisa, dal momento che i genitori di lei avevano spèorto denuncia. Fu così che venne a sapere che mentre lui saliva le scale con una mazza da baseball lei aveva tentato di chiamare suo padre, ma la comunicazione era caduta subito, aveva avuto giusto il tempo di chiedere aiuto e collegare le cose era stata questione di secondi.
Si era fatto una settimana demtro per percosse ma alla fine avevano appurato che lui non l'aveva uccisa. Il corpo non fu mai trovato, ammesso che fosse effettivamente morta. Era passato un anno da allora e stava cercando di cambiare vita, per questo era finito a West Coburn. Per darsi una ripulita: era sobrio da mesi e non aveva più cercato di stare con una donna, ne aveva paura. e ora era seduto sul divano di Viola, a pensare a lei, a volere lei, a desiderare lei. Non poteva essere amore, era assurdo, non la conosceva! ma provava quella sensazione, si sentiva bene. Si sentiva alla grande, tralasciando i presentimenti inquietanti delle ultime tre ore. Ma non capiva come fosse possibile, dopotutto lui non sapeva chi fosse Viola Gambon, eppure si ritrovava a sentirsi quasi innamorato di lei. Era assurdo.

Viola aveva finito la doccia e ora stava davanti allo specchio appannato: si sentiva esattamente come la sua immagine in quel momento. Appannata, sfocata, non capiva il senso di se stessa in tutto quello che stava passando. Un orrore mostruoso stava esplodendo nella sua vita e anche in quella di altre persone, con una violenza inaudita. Pat, quel barbone, gli infermieri alla clinica, Cartbury. Con quella pistola. Quell'odio negli occhi. E Langstorm, assassino improvvisato. Sentiva un brivido dietro alla schiena e avvertiva una sgradevole sensazione, come se sapesse che stava per succedere qualcosa di terribile. Di "ancora" più terribile. Aprì il rubinetto del lavandino e non uscì nulla, solo un sibilo soffocato. "Ma che..." sussurrò lei.

Un urlo agghiacciante riportò Jo alla realtà: veniva dal bagno e quella era inequivocabilmente la voce di Viola. Si precipitò in bagno e rimase pietrificato da quello che vedeva: Viola era contro il muro, con l'accappatoio azzurro aperto e il corpo nudo in bella vista, ma al momento Jo non ci fece caso. Non poteva. Viola aveva un corpo fantastico,certo, con quei seni tondi e perfetti, ma in quell'istante Jo non li vedeva neppure perchè la sua attenzione era assorbita da qualcosa di orribile: il lavandino era in frantumi e tra i cocci strisciava qualcosa di enorme e disgustoso, nero. Sulle prime Jo non seppe identificarlo, ma una cosa la intuiva perfettamente: era pericoloso. Passarono pochi secondi di shock prima che si rendesse conto che aveva di fronte un gigantesco serpente sibilante che si avviluppava su se stesso in numerose spire. 'Dio mio, che diavolo è questa cosa?' pensò Jo terrorizzato, ma non doveva lasciarsi prendere dal panico, Viola era spaventata dietro di lui e doveva proteggerla. senza pensarci due volte, afferrò una bottiglia di vetro duro contenente sali da bagno dalla mensola alle sue spalle e la sfondò contro il muro, pronto a piantare il collo spezzato nella carne della bestia viscida che si stava
(srotolando)
preparando ad attaccare, 'Perchè sta facendo questo, giusto?' pensò Jo 'Si sta preparando ad attaccare'. Il serpente era largo quanto due braccia umane messe vicine e i aveva il muso piatto, con due occhi lattiginosi che sembravano due pozzette di marmellata ammuffita incastrate nei lati del cranio. ma era la lingua la cosa più disgustosa: giallastra e triforcuta, sempre in movimento e stillante una bava biliosa.
"Lentamente" disse Jo rivolgendosi a Viola pur senza staccare lo sguardo dalla bestia "Vai di là, senza fare movimenti bruschi. vai e aspettami". Viola era paralizzata, ma si costrinse a muoversi.
"Ma tu cosa..." tentò di dire, ma Jo la allontanò con un gesto del braccio. Doveva concentrarsi. Per prima cosa: da dove diavolo era sbucato? D'accordo, aveva sfondato il lavandino squartando persino il rubinetto di metallo che ora era accantonato sulla montagnola di cocci, ma questo com'era possibile? Non aveva mai sentito parlare di serpenti tanto grossi che sbucano dal rubinetto, non in quello stato, perlomeno. Ma soprattutto non aveva mai visto nemmeno in foto una bestia disgustosa come quella e nemmeno sapeva di serpenti dalla lingua biforcuta. Quella creatura scaturiva da un incubo rivoltante, per quanto questo potesse sembrare incredibile. Ma Jo stava iniziando a capire che qualcosa non andava a West Coburn e per quanto si sforzasse di stupirsi, non ci riusciva: era come se nel suo cuore avesse sempre saputo che qualcosa di inconcepibile stava per accadere. Piantò lo sguardo su quel muso triangolare e piatto e fissò quelle vomitevoli gelatine biancastre che il serpente aveva oer occhi: erano grandi e al loro interno non c'erano pupille verticali, nossignore. dentro ciascun occhio si muovevano minuscoli insetti neri, che si dibattevano come se fossero intrappolati in quella melma lattiginosa. Era pericoloso, Jo lo sapeva. 'Ssssssssicuro!' sibilò una voce inumana che echeggiò nella testa di Jo. 'Lo ssssssono. E ora togliti Ssssssssstraniero. Non è te che voglio'. Il serpente stava parlando. 'Cazzo' pensò Jo 'E' la stessa voce che ho sentito poco prima che Cartbury attaccasse Viola'.
"Chi sei?" gridò Jo "Cosa diavolo sei?". Il serpente si srotolò e iniziò ad alzarsi: a poco a poco arrivò a toccare il soffitto con la testa: doveva essere almeno tre metri e ancora la coda guizzava in spire furiose sul pavimento, spazzando i cocci del lavandino e facendoli tintinnare come docili maracas. Jo era impotente, o meglio, lo sarebbe stato se non gli fosse venuta in mente una cosa e fu come un lampo nel cervello: cartbury non aveva attaccato subito Viola, perhè non voleva fare del male a lui. Qualunque cosa fosse quella, non lo avrebbe attaccato. Osservò le zanne del serpente: erano quattro -due superiori e due inferiori- che spuntavano dalla bocca esageratamente spalancata, tanto che le ossa del cranio si stavano slogando lentamente; ciascuna di quelle zanne era bianca come la neve e grande quanto due degli indici di Jo messi in fila e acuminata come un rasoio. Jo spinse rapidamente la mano verso il corpo gigantesco dell'animale ma per poco non morì di paura: la testa del serpente saettò rapida verso di lu e se non si fosse abbassato provvidenzialmente gli avrebbe staccato la testa con un morso. Invece frantumò le piastrelle che ricoprivano la parete alle sue spalle, provocando un gran frastuono. Jo ne approfittò per conficcare il collo di bottiglia spezzato nel fianco dell'animale: la carne nera si squarciò con un rumore disgustoso, come di salsa grumosa che viene gettata sul pavimento all'improvviso; dalla ferita sgorgò un fiotto di sangue denso nel quale nuotavano grossi insetti simili a mosche, solo più grossi. Jo non riuscì a trattenersi e vomitò, scosso da conati violenti: si riprese giusto in tempo per vedere la testa del serpente che con un sibilo irato guizzava nuovamente verso il suo viso. Ebbe appena il tempo di afferrare un coccio di specchio -quando si era rotta la specchiera?- e frapporlo lungo la traiettoria della bestia immonda: sentì che il suo braccio veniva ingoiato per metà, ma le zanne non lo sfiorarono. Il coccio che aveva in mano sporgeva con la punta affilata verso l'alto e venne inghiottito insieme al suo braccio, conficcandosi nel tenero palato del bestione, che quasi non si accorse di andare incontro alla morte cercando di fagocitare la sua preda. Il pezzo di vetro squarciò la carne del serpente conficcandosi fino all'osso del cranio e frantumandolo. Il tutto accadde nel giro di due secondi: Jo avvertì uno strappo gorgogliante e quando riapri gli occhi aveva il braccio affondato in un gigantesco serpente con la testa aperta a metà, il sangue grumoso che gli inzaccherava la manica fino alla spalla. Estrasse il braccio disgustato e si levò di dosso alcuni mosconi inzuppati di quel fetido sangue nerastro. osservò attonito lo spettacolo che aveva di fronte: il serpente era gigantesco, riempiva completamente la stanza e nel trambusto Jo non si era accorto molto di quello che succedeva intorno, ma la bestia dibattendosi aveva infranto la specchiera e frantumato il vetro della doccia, per non parlare delle mensole che aveva abbattuto. Quello era un campo di battaglia e il grottesco animale aveva perso. Viola era poco dietro la soglia del bagno e osservava Jo con uno sguardo colmo di terrore cieco: cosa diavolo stava succedendo?
"Dovremmo chiamare mio padre" disse lei con un filo di voce, trattenendo il vomito.
"Sarebbe la cosa migliore da fare, ma vorrei prendermi un attimo" ribattè Jo "Forse dovremmo semplicemente fermarci un secondo per pensare, io..." ma non sapeva che altro dire. Aveva improvvisamente una sete del diavolo. La vecchia sete del diavolo, quella che lo spingeva ad aprire l'armadietto dei liquori e saccheggiarlo, quella che lo ottenebrava facendogli bruciare la gola, facendolo regredire ad uno stato quasi animalesco. Quale momento migliore per farsi un goccio? Aveva appena ucciso una specie di bestia mutante uscita dallo scarico di un lavandino dannazione! Era scioccato, ne aveva bisogno. Invece guardò Viola negli occhi e la sete scomparve, o meglio, si calmò notevolmente. Le si avvicinò e la abbracciò e lei si abbandonò al suo abbraccio, molle di paura e di stanchezza: aveva un gran bisogno di dormire.
"Facciamo così" disse Jo "Vai a letto, io starò di guardia. Tra qualche ora chiameremo tuo padre, per ora non credo ce ne sia bisogno".
"Ne sei sicuro?" chiese lei.
"Sicuro" disse lui. Ma sentiva che non si stava comportando come avrebbe richiesto la situazione, era come se stesse agendo spinto da un impulso nascosto nella sua mente. Gli venne in mente il comportamento di gambon poche ore prima quando voleva arrestarlo: subito aveva cambiato idea e lo aveva addirittura lasciato con sua figlia. Non era normale, non era logico. E non era logico che lui adesso reagisse con tutta quella calma di fronte all'orrore che era accaduto, ma allora perchè sentiva che doveva agire in quel modo? Era troppo stanco per rispondere a quella domanda: era così che sentiva di dover gestire tutto quanto ed era così che avrebbe fatto; Viola andò in camera sua e si mise nel letto, dopo pochi minuti sprofondò in un sonno irrequieto. Jo ne approfittò per cercare un modo di sbarazzarsi del serpente: prese dalla cucina un grosso sacco nero di quelli della spazzatura e frugò nei cassetti in cerca di un coltello o di qualunque attrezzo per tagliare il corpo del bestione. trovò una mannaia, la prese e si diresse verso il bagno.
"Cazzo!" esclamò. La specchiera era in frantumi, il lavandino distrutto e le mensole erano ancora per terra con tutto quello che avevano sostenuto sparso intorno, ma in tutto quel macello non c'era traccia del serpente, nemmeno l'ombra.


Reginald Langstorm era sdraiato sulla brandina nella cella che si trovava all'interno del posto di polizia di West Coburn. Aveva lo sguardo fisso verso l'alto, ma non stava fissando nulla: aveva spento la vista, se così si può dire,per concentrarsi su immagini puramente mentali. Vedeva una gigantesca sagoma nera che si muoveva lentamente nella penombra: un'armatura lucida, con un elmo grottesco che aveva un lungo pennacchio rosso, dalla cui celata echeggiava una risata demoniaca. 'E' qui. E' sempre stato qui e adesso mi ha preso' pensò disperatamente Reginald. Si riscosse e la stanza riapparve davanti ai suoi occhi. Si alzò a sedere, toccandosi il volto incrostato di sangue: si era quasi dimenticato di quello che aveva fatto. Non che provasse rimorso, Lui non gli permetteva assolutamente di provarne ed era l'unica cosa di cui gli era grato. ma quando non avesse avuto più bisogno di lui allora lo avrebbe fatto rinsavire e si sarebbe reso conto degli orrori che aveva commesso. reginald sapeva di essere in un certo senso posseduto, ma lo stesso non poteva reagire: faceva quello che gli veniva chiesto pur essendo conscio di non volerlo fare. Sarebbe impazzito del tutto, ovvio. Era riuscito ad isolarsi per tutto quel tempo, ma ora... ora era tutto inutile, Lui era più forte e ora iniziava a diventare reale. Tutto quello che Lui pensava, iniziava a non essere più solo nella mente delle vittime e questo Reginald lo sapeva: anni prima tutte quelle creature le aveva viste, ma sapeva che non erano reali, certo, se una di loro lo attaccava, sentiva dolore, ma era nella sua testa. Il reverendo invece aveva un taglio sul corpo dove la creatura lo aveva attaccato: era diventata vera, non del tutto forse, ma sicuramente più di prima. Lui stava risorgendo ed entro poche ore sarebbe stato ovunque, come un fiume in piena. E di Lui Reginald aveva una paura del diavolo. Rise a pensarci: aveva una paura del diavolo, ma ciò di cui aveva paura era peggio del diavolo, perchè Lui esisteva. Il diavolo forse, ma Reginald non l'aveva mai visto, mentre Lui si. O meglio, aveva visto quello di cui era capace, non lo aveva mai individuato fisicamente, non sapeva dove si nascondeva, ma era certo che fosse da qualche parte nel buio, a West Coburn. 'Papà perchè?" pensò 'Perchè dovevi dargLi tutte quelle idee?'. Pensò a suo padre Peter e a quello che aveva inconsapevolmente fatto: aveva condannato la città, lo aveva fatto senza rendersene conto. però lo aveva fatto. 'Ancora poche ore e scoppierà l'Inferno' continuò a pensare 'E io ho paura, papà. Ho paura perchè sono stato curioso, anni fa'.
"Sono stato stolto" sussurrò "E lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo..." ma qualcun al tro continuò per lui.
"...Ci cade dentro". La voce veniva da sotto alla branda. Reginald rabbrividì: non voleva guardare.
"Reeeeeeeeeeginald" cantilenò la voce, profonda e demoniaca.
"Non sei reale" disse lui.
"Smettila Reginald2 replicò la voce "Ora lo sono molto più di prima. Sto mangiando, mi sto rimettendo in forze! Corpo di mille balene!". Reginald era terrorizzato: la voce era diventata quella di Braccio di Ferro, il suo personaggio preferito di cui non si perdeva un cartone animato da bambino.
"Sto mangiando i miei spinaci! Tutti voi, siete i miei spinaci!" sghignazzò la voce. reginald si tappo le orecchie ma una mano fredda, metallica gli si appoggiò sul polso. Gridò. Crandon, era Crandon, era sempre stato Crandon!
"Crandon!" urlava Reginald "Crandoooooooon!" e le risate demoniache si amplificavano, rimbombavano. La mano stringeva il suo polso ed era gelida, il metallo del guanto di metallo nero era bruciante. Langstorm aprì gli occhi e vide distintamente il cavaliere, con il suo elmo e il pennacchio rosso.
"Basta stragi per ora, Reginald. Tu sei un messaggero. Porterai il tuo messaggio" disse il cavaliere con la sua voce demoniaca. Non era più Braccio di Ferro, ma Reginald lo avrebbe preferito.
"Che messaggio?" domandò, spaventato.
"Oh vedrai.Anzi, Reg, te lo mostro subito" e nel dire queste parole appoggiò un dito guantato sulla fronte di Langstorm. Fu come un fulmine: Reginald sentì la testa esplodergli e vide. Vide tutto quello che sarebbe accaduto, vide che cosa voleva fare Lui attraverso il cavaliere, attraverso tutti gli orrori che era in grado di generare. lo vide e lo sguardo gli si spense. Crollò per terra e lì rimase, con gli occhi aperti che non vedevano nulla. Era partito e non sarebbe tornato per qualche ora ancora. Gambon, che aveva sentito le urla, accorse quando già era svenuto. del cavaliere nessuna traccia, c'era solo lui a terra, con lo sguardo vitreo.

Nella stanza buia il corpo immobile sussultava di piacere. Era finalmente iniziato per davvero: si era nutrito delle loro paure e adesso poteva veramente raggiungerli, tutto ciò che creava era vero. Ancora debole rispetto a quello che sarebbe stato, ma vero: poteva ferirli e lasciare tracce sui loro corpi molli. Si sarebbe divertito, oh se si sarebbe divertito. E aveva anche spaventato lo Straniero, gli aveva fatto capire che con Lui non poteva dettare legge, nossignore. Ma aveva fallito, non aveva ancora ucciso la ragazza e forse ancora non ne era in grado, tuttavia era rimasto stupito. Non credeva di poter creare quelle creature fin da subito, per questo aveva usato Cartbury: perchè non poteva ancora essere ovunque. Ma da poche ore, da quando lo Straniero lo aveva sentito parlare, era diventato più forte e poteva farle apparire dove voleva in città. Poche ore e sarebbe dilagato come un'epidemia. "Tanto mi piace giocaaaaaaaaaaar" canticchiò la voce demoniaca, ridendo come un bambino.

Viola si era svegliata da poco e stava facendo colazione, mentre Jo i faceva una doccia, dopo che aveva ripulito il bagno da tutti i cocci: li aveva infilati nel sacco nero e aveva dato una spazzata. Nel pomeriggio sarebbe stato celebrato il funerale del giovane Pat Turner, nonostante il reverendo fosse morto da poche ore. Il suo funerale doveva attendere l'autopsia, così come quello del barbone. la cerimonia del funerale sarebbe stata officiata da Padre McGuill, un giovane prete irlandese che si trovava a West Coburn come ospite della parrocchia; non conosceva molto bene il reverendo, ma quando in mattinata aveva appreso la notizia dal telegiornale aveva pianto: forse non lo conosceva più di tanto, ma abbastanza per dire che era un grande uomo che aveva saputo affrontare egregiamente le difficoltà che la vita gli aveva riservato. padre mcguill si trovava in chiesa in quel momento e stava confessando alcuni fedeli rimasti temporaneamente senza guida spirituale. Al momento stava confessando una donna molto bella, che doveva avere quarant'anni. aveva i capelli neri striati di grigio e uno sguardo molto triste.
"Ho avuto un sogno questa notte, padre" disse lei.
"Un sogno?" domandò lui con un forte accento irlandese nella voce.
"Si. Era tutto buio, ma stringevo una persona tra le braccia. Mio figlio. Lo avevo ucciso con un coltello che era caduto ai miei piedi" e iniziò a singhiozzare.
"Crede che questo voglia dire qualcosa? ha mai pensato a fare del male a suo figlio?" si informò il reverendo preoccupato.
"No, no! Vede,circa otto anni fa mio figlio scomparve. Trovarono i resti del suo corpo nel bosco".
"Ma è terribile! E lei... lei si sente responsabile di questo?".
"Ogni giorno della mia vita".
"Come si chiama?".
"Sandra" disse lei "Sandra Reagan".
"Sandra, perchè dovrebbe essere responsabile della morte di suo figlio?".
"Io... io non lo so. Era a giocare non so dove. Forse... forse se io...".
"Lei non ha colpe Sandra. E' giusto che lei cerchi un conforto spirituale, ma lei non ha colpe".
"ne ho molte invece. So di averne".
"sandra, forse lei dovrebbe rivolgersi a qualcuno che possa aiutarla. Un consulto psicologico, ecco2.
"Niente può togliermi questo senso di colpa. Speravo che parlare con un uomo di fede mi avrebbe aiutata, ma...".
"La capisco. Se vuole possiamo parlarne approfonditamente quando non c'è nessuno".
"Si... credo che mi farebbe bene. Ora mi scusi, devo andare".
"Spero di rivederla" concluse Padre McGuill mentre Sandra usciva dall'altra parte del confessionale.
la donna si diresse verso le panche di legno: su una di queste era seduta una ragazza, sui diciotto o diciannove anni. Era straordinariamente bella: fissava il crocefisso con due occhi scuri incredibili, dal taglio allungato anche da un velo di matita nera agli angoli; i capelli erano lunghi e mossi, quasi neri, che ricadevano sulle spalle. Le labbra erano carnose e splendide, il naso grazioso e dritto; indossava un giubbotto di pelle liso e sotto un dolcevita nero e un paio di jeans. Vedendo Sandra arrivare si alzò in piedi mostrando un fisico magro e intrigante. Si pizzicò uno cei cerchietti d'argento che aveva appeso al lobo sinistro.
"Mikaela" disse Sandra "Potevi metterti qualcos'altro" continuò indicando il giubbotto consumato.
"Non credo che se ne abvrà a male per questo" disse Mikaela indicando il crocefisso.
"Non essere blasfema" la rimproverò Sandra.
"Scusa mamma" replicò lei "E' che non capisco perchè hai voluto che venisii". Aveva una voce calda.
"Avevo bisogno di sapere che qualcuno mi sta vicino" ribattè Sandra e si avviò verso l'uscita della chiesa.
Mikaela la seguì e Padre McGuill osservò con curiosità, da lontano, il giubbotto di pelle che la ragazza indossava: sul retro aveva dipinto un teschio bianco, disegnato con uno stile da cartone animato, era simpatico.
Mikaela intanto pensava a sua madre e a tutto quello che aveva passato. lei aveva undici anni quando suo fratello Jeremy era scomparso. era solo un bambino di sette anni. Avevano trovato i resti carbonizzati nel bosco pochi giorni dopo e i suoi genitori non erano più stati gli stessi: suo padre era sempre silenzioso e taciturno e sua madre era malinconica e assente perchè si incolpava di quanto era accaduto. Non si sapeva chi fosse stato ad ucciderlo, ma Mikaela era convinta che ci fosse qualcosa di inquietante sotto. faceva sogni. Sogni terribili riguardo a un pozzo. e sentiva sempre nel sonno una frase: "Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro". Erano giorni che questo sogno lo tormentava e non poteva fare a meno di sentire che c'entrava con la morte di suo fratello. Prima di salire in macchina si legò i capelli e per un istante stette ferma con entrambe le braccia sollevate e le mani affondate nella massa scura della chioma: in quella posizione era graziosa, con l'espressione imbronciata e lo sguardo leggermente assente, assorto in quei cupi pensieri. 'lo stolto che si sporge....' pensò. Cosa diavolo poteva voler dire?

Erano le due e mezza e la chiesa era gremita di gente. Jo era accanto a Viola, la quale singhiozzava sommessamente: stava dando l'addio definitivo a Pat. un pezzo di lei che se ne andava. 'Cos'hai combinato, Patrick?' pensava. I genitori del ragazzo erano distrutti e il padre era scosso dal pianto, appoggiato alla spalla della moglie che non aveva una cera migliore. Padre Mcguill intanto parlava e diceva cose sulla morte e la resurrezione dell'anima. Jo trovava tutto questo deprimente e sconfortante: lui non sarebbe nemmeno dovuto essere li. Aveva ancora in mente il serpente che era scomparso: non potevano esserselo immaginato, eppure non c'era più e nemmeno il sangue che aveva perso c'era; aveva lasciato però la devastazione nel bagno, segno inequivocabile della sua preenza. Doveva parlarne a Gambon, doveva capire cosa diavolo stava succedendo. Ma dov'era Gambon? Aveva forse avuto problemi con il figlio di Peter Langstorm? Poi accadde una cosa strana: Jo vide il coperchio della bara sussultare. Non poteva essere. eppure l'aveva visto! E come se non bastasse ecco che lo vide sussultare di nuovo. "Aiutami!" urlò una voce. Jo rabbrividì. "Aiutami tu1 Tu, quello vicino a Viola! Aiuttami! Non sono morto! Aiutami!". Jo si alzò e uscì dalla Chiesa. Sentiva che avrebbe vomitato presto.
"Ma che cazzo ti prende?" sbottò Viola alle sue spalle. Lo aveva seguito.
"E'... Lo so che non è possibile. Ma... ho sentito pat turner, chiedeva aiuto".
"Jo se è uno scherzo ti assicuro che non..." cercò di dire lei, disorientata.
"L'ho sentito!" gridò lui "Diceva di essere vivo in quella bara!".
"Sei sicuro?" chiese lei.
"Si! Ma non troveremo nessun ragazzo pimpante aprendola. Sono voci, è da ieri che le sento. Lui è morto, Viola. ma per qualche strano motivo io lo sento. Ha a che fare con Cartbury, con il serpente, con tutto quanto!".
"Jo ma che ti prende?" disse Viola, abbracciandolo.
"Non lo so. Non la senti anche tu? Quella sensazione che stia per succedere qualcosa si terribile?".
"Si. Ora più che mai".
"Stammi vicino, ti prego" disse Jo. i loro volti erano vicinissimi. le loro labbra quasi in contatto. Ma non ci fu alcun bacio. Invece furono interrotti dalle grida. tante, terrorizzate.
"Ma che..." disse Jo.
Una massa di persone uscì urlando dalla chiesa, e dal portone aperto Viola vide cos'era successo: la bara aveva preso fuoco, o meglio: lingue di fuoco erano scaturite dal feretro come da un lanciafiamme ed era scoppiato l'inferno.
Jo sentì la risata echeggiargli in testa e cadde in ginocchio: "L'ammazzerò, bastardo. Tutti vi ammazzerò. Tutti!". La voce era spaventosa e gli martellava nella testa, assordandolo. "Tutti! Brucerò questo lercio buco dimenticato da Dio e vagherò sulle terre degli Uomini per sempre!". Jo aprì gli occhi: la chiesa era in fiamme e le nuvole di fumo nero come la pece per un attimo gli sembrarono un volto. E che gli venisse un colpo se non era quello di Rhonda.

Erano le tre del pomeriggio e Gambon era ancora in ufficio: non poteva andare al funerale, non dopo quello che era successo con Langstorm. Doveva capire, doveva sapere. Cosa stava succedendo nella sua città? Cosa diavolo stava... i suoi pensieri furono interrotti dall'ennesimo grido. Era Langstorm, ancora lui. Accorse e lo vide in piedi, attaccato alle sbarre.
"Crandon! Crandon! Crandooooooooon!" urlava. Non era più decisamente catatonico.
"Cosa? Cos'è Crandon?" disse Gambon "Parla! Parla!".
"Non posso venire" disse Langstorm "Non posso venire e mi sento sciocco, ma ho troppa, troppa paura del nono rintocco".
"Come?" chiese Gambon stupito.
"Non posso venire e mi sento sciocco, ma ho troppa, troppa paura del nono rintocco".
"Samson" disse Gambon rivolgendosi al suo sottoposto "Chiama Viola, è urgente. falla venire anche se è al funerale".
"... troppa paura del nono rintocco" continuava a ripetere langstorm.
"Cazzo" disse Gambon "Cazzo!".


La signora Frida Nelson era tornata a casa dal funerale, sconvolta. Quello che era successo er a dir poco tremendo: la bara del povero giovane Turner che prendeva fuoco e incendiava la chiesa. Era orribile. Frida era ormai sui sessant'anni e si era rassegnata a diventare una vecchia zitella, ma l'unica cosa che la faceva sentire ancora utile era suo padre. Il vecchio Chad Nelson: un vegetale che stava morendo lentamente al piano di sopra della sua casa e di cui lei si occupava amorevolmente. Salì le scale di casa sua ed entrò nella stanza: era buio pesto e il corpo del vecchio steso nel letto aveva un tremito, come un sussulto ogni tanto. Frida notò che gli occhi si muovevano sotto alle palpebre incartapecorite. Strano, di solito era tranquillo. "Papà, non immagini cos'è successo oggi al funerale" iniziò. Stava ore a parlare con lui. ma ora sembrava diverso, come se avesse riacquistato coscienza di se anche se era ancora in coma. ma non ci diede troppo peso.
Nel giardino della casa di Frida faceva freddo e il vento soffiava tra le fronde del pesco, scuoteva l'altalena di legno che aveva fatto installare per la nipotina. Soffiava echeggiando nel vecchio pozzo sul retro. E presto avrebbe soffiato anche più forte.

mercoledì 21 luglio 2010

CAPITOLO 5- FEDE


Il reverendo Stenson si svegliò di soprassalto ed emise un gemito: nonostante avesse gli occhi spalancati si sentiva avvolto da buio e aveva l'impressione che qualcosa nell'oscurità lo stesse fissando. respirò profondamente e si mise seduto sul letto. 'Non è nulla' pensò 'Il solito incubo. Solo quello'
(i demoni che ti fissano)
Solo un brutto sogno. Erano giorni che veniva perseguitato nel sonno da urla spaventose e sentiva un'aura malvagia che tentava di circondarlo; quando si svegliava si sentiva sconvolto e ricordava solo qualche immagine sfocata: quella notte aveva visto nel sogno una sagoma al chiaro di luna che indietreggiava nel bosco mentre un altra figura gli saltava addosso immobilizzandolo. Era come se avesse avvertito la confusione e la paura della persona che veniva aggredita. Si ridistese e provò a chiudere gli occhi: pregò in silenzio, con le mani giunte sul petto, appellandosi alla misericordia di Dio. Nelle settimane precedenti i sogni non avevano nulla di concreto: era sempre solo nel buio e sentiva un lamento costante che gli risuonava nelle orecchie, poteva avvertire che c'era qualcosa nel buio che rimaneva nascosto, in attesa di uscire e fargli del male. Quella notte era la prima volta che aveva sognato qualcosa che non riguardasse solo lui, ma era certo che il sogno avesse comunque a che fare con quella presenza maligna che lo perseguitava da giorni ormai.
Si era sempre detto che era una sua fissazione, il risultato del grande stress a cui era stato sottoposto negli ultimi tempi, forse era addirittura il principio di un esaurimento nervoso
(non ci sarebbe da stupirsi)
Da quando Elle era morta, pochi mesi prima, si sentiva come perduto, ma non aveva perso la fede: la morte di sua moglie lo aveva anzi avvicinato ancora di più a Dio. Si era rifugiato nella preghiera e nel suo lavoro continuo verso la comunità: il Signore aveva chiamato a se una delle cose che più amava, ma gli aveva lasciato un'infinità di persone bisognose del suo aiuto, persone che non voleva deludere.
Lavorava sodo al centro di accoglienza dietro la chiesa di West Coburn, sia per poter compiere la missione che Dio gli aveva affidato, sia per non permettersi di pensare troppo a Elle: non voleva cadere nel baratro, non quando sapeva di avere la fede a sostenerlo. 'Ma la fede a volte non basta' pensò il reverendo, cercando di riaddormentarsi. Si ricordava bene il giorno in cui era tornato tardi dal centro di accoglienza e l'aveva trovata svenuta in salotto, rannicchiata in una pozza del suo stesso vomito e il sangue rappreso che le otturava le narici e le incrostava il golf azzurro pallido. Quando l'aveva vista in quello stato era sul punto di perdere la testa, ma aveva raccolto le forze e la poca lucidità mentale che gli rimaneva in quel momento e l'aveva portata all'ospedale della città. Solo il giorno dopo dalle analisi era risultato che Elle aveva un tumore al cervello in stadio avanzato
(inoperabile)
Il reverendo ricordava bene l'effetto che aveva avuto su di lui quella parola, 'inoperabile': era come se qualcuno lo avesse trafitto con uno stiletto al cuore, gli era mancata l'aria. 'Inoperabile'. Era come dire che Elle era condannata a morte.
E così fu: nel giro di pochi mesi il reverendo Stenson vide sua moglie soffrire a causa dei dolori atroci e a causa della chemioterapia spaventosamente aggressiva; la vide cambiare aspetto: era dimagrita a tal punto che non sembrava quasi più una donna, piuttosto un esile scheletro asessuato. Ma non avrebbe potuto amarla di più: i suoi occhi, anche se colmi di dolore, erano sempre gli stessi che lo avevano fatto innamorare tanti anni prima e quando la toccava per lavarla o per cambiarle la flebo lei gli cingeva debolmente il polso con le dita ossute e lui sentiva il calore che provava ogni volta che sua moglie lo toccava: era sempre lei, nonostante il drastico cambiamento esteriore. Dentro era sempre la donna meravigliosa e pura che lo aveva accompagnato per gran parte della sua vita e non l'avrebbe abbandonata per nessun motivo al mondo. L'agonia era durata poco più di quattro mesi, i peggiori che il reverendo Stenson avesse mai vissuto e il giorno in cui tutto il dolore ebbe fine fu senza dubbio una prova tremenda per lui.
Era un giovedì pomeriggio e un sole pallido penetrava dalla finestra della camera in cui, stesa nel letto, riposava Elle. Lui era con lei e sapeva che ormai era arrivato il momento: la notte precedente aveva avuto un altro attacco e il dottore che l'aveva visitata a casa aveva insistito perchè fosse trasportata d'urgenza in ospedale, ma ne la paziente ne tantomeno il reverendo avevano voluto accettare. Elle stava morendo, e voleva che ciò accadesse a casa sua, nel suo letto. Il dottore aveva capito, ma li aveva avvertiti che in quelle condizioni la morte sarebbe sopraggiunta nel giro di poche ore.
Il reverendo aveva sorriso a sua moglie e l'aveva guardata: il volto era incavato e la pelle era talmente tesa che gli sembrava di osservare un teschio con gli occhi grandi e sofferenti ancora incastrati nelle orbite. Era andato in bagno e si era inginocchiato dopo aver chiuso la porta: per la prima volta dopo mesi aveva deciso di pregare per l'unica cosa che sapeva non essere possibile.
"Ti prego" aveva sussurrato, scosso dai singhiozzi "Ti prego non prenderla con te. Non Ancora, ti prego". era troppo anche per lui. se Dio era così grande e potente perchè allora non poteva salvare sua moglie? Perchè non la guariva, dopo tutto quello che aveva fatto per lui? Dopo tutti quegli anni passati a credere e a pregare, ad aiutare i più deboli in suo nome? ma sapeva la risposta, anche se in quel momento non lo consolava affatto: 'Dio ha un piano per ognuno di noi' aveva pensato 'Ma perchè quello di Elle è così crudele?'. Non poteva saperlo. Poteva solo continuare ad avere fede, come aveva sempre fatto.
Si era rialzato ed era tornato da sua moglie, aveva pregato per lei e le aveva dato l'estrema unzione. Poi si era seduto accanto a lei, sul letto - lo spazio era sufficiente visto come si era rimpicciolita negli ultimi tempi - e l'aveva presa per mano, per accompagnarla ad andare nel luogo dove non avrebbe potuto seguirla. Era rimasto così per ore e si stava quasi addormentando, quando lei con grande fatica, aveva pronunciato qualche parola sommessa, cercando di mettersi a sedere. Il reverendo Stenson aveva sgranato gli occhi e le aveva detto di non sforzarsi, poi si era avvicinato al suo viso e le aveva chiesto di ripetere: lei lo aveva guardato con gli occhi spalancati e luccicanti, quasi troppo grandi per quel viso così magro, e aveva detto qualcosa.
Il reverendo non avrebbe mai saputo dire se quelle parole fossero pensate o se fossero il frutto del tremendo dolore che sua moglie stava provando in quel momento, però se le ricordava molto bene. Si ricordava la voce flebile e rotta di Elle mentre gli sussurrava nell'orecchio quelle strane parole: "Abbi... fede".
"Come?" aveva detto lui, con il volto rigato dalle lacrime.
"Abbi.. fede... sempre. Non... dubitare" aveva ripetuto lei cercando di sforzarsi per parlare.
"Si" aveva ribattuto lui "Si, amore. Te lo giuro". Poi lei aveva strabuzzato gli occhi e aveva detto qualcos'altro, qualcosa che il reverendo non era mai riuscito a decifrare bene: "Jackson... lo stolto... fondo... pozzo... dentro".
"Che cosa?" aveva chiesto lui, confuso. Ma non aveva ottenuto risposta: gli occhi di elle avevano perso la luce vitale che avevano sempre avuto anche durante la malattia e ora sembravano due grosse biglie inutili. Era morta e lo aveva lasciato solo. Il reverendo era rimasto per ore, fino a notte fonda, abbracciato al corpo esanime di sua moglie. poi era uscito ed era andato in chiesa a pregare, aveva versato tutte le lacrime che poteva produrre e si era addormentato ai piedi dell'altare, sfinito.
Il reverendo rimase a guardare il soffitto per qualche minuto prima di rendersi conto che non riusciva a riprendere sonno. Cercava di non distruggersi il cervello a furia di pensare ad Elle, ma con gli incubi in cui era sprofondato nelle ultime settimane non poteva fare a meno di pensarla per farsi forza.
Doveva assolutamente trovare un modo per allontanarli e mentre pensava a questo gli balenò davanti agli occhi la figura del ragazzo che veniva aggredito. Era tutto molto oscuro, ma era convinto di conoscere quel ragazzo, ne era assolutamente certo.
Dal momento che non sarebbe mai riuscito a riprendere sonno decise che avrebbe potuto recarsi al centro di accoglienza per sistemare e mettere un po' in ordine. Andò in bagno e si lavò il viso, poi si guardò allo specchio: i capelli erano ormai grigi e la sua pelle nera era segnata da rughe profonde; gli occhi scuri erano stanchi e colmi di tristezza e preoccupazione. Il fatto di essere il reverendo del paese e nel contempo un uomo di colore aveva creato qualche problema all'inizio del suo lavoro a West Coburn: aveva iniziato molti anni prima, quando era ancora giovane e la diffidenza delle persone più forte e ingiustificata. Tuttavia era riuscito a spazzare via il pregiudizio in molte delle anime di cui aveva deciso di prendersi cura e dopo tutto quel tempo godeva di fiducia e stima profonda, anche se non era quello a cui puntava principalmente. Lui voleva solo aiutare chi ne aveva più bisogno.
Scese al piano inferiore e scaldo il caffè. Le quattro del mattino. 'Beh jackson' pensò rivolgendosi a se stesso 'Almeno oggi potrai renderti utile'. Bevve in fretta il caffè riscaldato senza troppo entusiasmo e aprì lo sportello del frigorifero per cercare la bottiglia del latte. Quando ebbe finito di fare colazione uscì di casa e inizio a camminare nell'aria fresca: era ancora buio pesto.Raggiunse la chiesa in dieci minuti: il centro di accoglienza era situato nell'edificio accanto, ma prima voleva raccogliersi in preghiera e sistemare alcune cose nella sagrestia. Si inginocchiò davanti all'altare e iniziò a pensare a tutto quello che gli stava capitando: gli incubi delle ultime settimane lo spaventavano, inoltre quella notte il sogno era stato incredibilmente realistico. 'E' quasi come se quel ragazzo sia stato realmente aggredito, come se esistesse realmente' pensò. Mentre pregava con gli occhi chiusi avvertì un rumore alle sue spalle, come un fruscio. Si voltò e vide una sagoma sparire dietro una delle colonne situate ai lati.
"Chi è la?" gridò spaventato il reverendo. Sentì un rumore di passi felpati e dall'ombra sbucò qualcosa: era certamente un uomo e il reverendo Stenson non potè fare a meno di notare che era alto più di due metri.La figura avanzò lentamente verso di lui, ma non riusciva ancora a distinguerne i tratti: era semplicemente terrorizzato, tanto che indietreggiò con le gambe tremanti fino a risalire i gradini dell'altare. L'uomo finalmente si fermò e alla luce delle candele il reverendo vide il suo aspetto: era altissimo e magro, con i capelli scuri e arruffati e gli occhi grandi, completamente neri anche dove avrebbe dovuto esserci il bianco; era nudo e il suo corpo pallido era solcato da una ragnatela di cicatrici che andavano a formare un disegno complesso dal significato oscuro. La cosa che più lasciava perplesso il reverendo era che lo sconosciuto non possedeva attributi sessuali: in mezzo alle gambe era liscio, come una bambola. Il reverendo chiuse gli occhi e si trattenne dall'urlare. 'Sei crollato. Alla fine hai ceduto alla pressione e sei impazzito, hai le allucinazioni' pensò, cercando di calmarsi. Riaprì gli occhi ma la strana creatura era ancora davanti a lui e anzi sembrava aver sentito i suoi pensieri perchè lo guardò fisso -il reverendo era certo che lo stesse fissando anche se non aveva le pupille- e scosse la testa, poi puntò il capo verso l'alto e stese le braccia. Da dietro la schiena si dispiegò un enorme paio di ali lunghe, con le piume e le penne nere come la pece.
"Ma cosa..." urlò il reverendo. 'No. No. No!' pensò, terrorizzato, accasciandosi a terra.
"Alzati in piedi" disse la creatura, con voce pura e soave. L'ala sinistra nel dispiegarsi urtò un lungo candeliere di ferro, il quale cadde con un rumore sordo di ferraglia.
"Cosa..." balbettò il reverendo in preda ad un terrore cieco: cos'era quella creatura? Il suo primo pensiero fu che aveva davanti a se un angelo, per quanto incredibile potesse essere, ma quello non sembrava il classico angelo, piuttosto pareva una creatura uscita dall'inferno.
"Non fermarti a quello che i tuoi occhi ti mostrano" disse la creatura con quella sua voce pura, dell'altro mondo "Quello che hai sempre chiamato angelo non è altro che un'immagine distorta della realtà, un'illusione che voi Uomini avete creato nel corso dei millenni. Esseri biondi con le ali candide: noi non siamo così. Osserva le cicatrici sul mio corpo, osserva la sofferenza e i marchi della vergogna che portiamo addosso per causa Vostra".
"Marchi?" replicò il reverendo, confuso e spaventato, osservando l'impressionante ragnatela di tagli e cicatrici che andava a formare un'intricato disegno.
"Da quando Lui ha creato Voi, proteggerVi dal male e dai pericoli è diventato il nostro compito più importante. Ogni volta che uno di noi fallisce nell'impresa sul nostro corpo si imprime il segno del fallimento. Se tu avessi la capacità di leggere questi segni" e indicò il suo corpo martoriato "comprenderesti la mia storia e quello che non sono riuscito ad impedire, le immani catastrofe che si sono compiute perchè non ho saputo arginarle. Ma ad ogni mio fallimento corrispondono centinaia di successi. Ciò che non sono riuscito ad impedire non è nulla in confronto a ciò che nel corso degli anni sono riuscito ad evitarVi. Questo è il motivo per cui sono qui".
"Sto impazzendo" disse il reverendo.
"Al contrario. Sono qui perchè gli Uomini stanno correndo un pericolo ben peggiore di quelli che siamo riusciti a scongiurare nel corso dei secoli. E per fermare tutto questo ho bisogno del tuo aiuto". il reverendo sussultò. Tutto quello che stava vedendo non poteva essere reale: un angelo mostruoso che gli si manifestava e parlava di pericoli da scongiurare, un angelo che aveva bisogno del suo aiuto. Non era possibile.
"Lo è" disse l'angelo, che evidentemente stava leggendo nella sua mente "E tu sei la chiave".
"La chiave?" domandò stupidamente il reverendo Stenson.
"Il Male si è risvegliato a West Coburn. Lo senti, lo puoi avvertire".
"Io non..." cercò di replicare il reverendo.
"la paura che senti. Gli incubi continui. Stanotte è stato ucciso un ragazzo e tu lo hai visto, hai sentito il suo dolore. Si chiamava Patrick Turner". Al reverendo sembrò di ricevere un pugno sul naso: dunque quel ragazzo era morto per davvero e ora sapeva perchè gli era parso di conoscerlo. Era così. Lui conosceva bene Pat Turner e aveva cercato invano di aiutarlo più di una volta, ma or non ce ne sarebbe stato più bisogno: aveva sentito la sua sofferenza e lo aveva sentito morire.
"Il Male teme tutto ciò che ha a che fare con Lui" continuò l'angelo, cercando pazientemente di spiegare la situazione incredibile a quell'uomo spaventato che aveva di fronte "con Dio. La tua fede ha vacillato negli ultimi mesi, anche se non lo sai, tuttavia è rimasta e il male questo lo ha percepito. Senza volerlo ha stabilito una connessione con la tua anima, per cercare di distruggere questo tuo potere inconsapevole, comunicandoti ogni sofferenza che provocava, trasmettendoti parte del tuo odio. Sta crescendo e non riesce a controllarsi, per questo motivo lo percepisci con tanta chiarezza".
"Il male? Che significa?" urlò il reverendo, arretrando.
"Significa che la tua fede è quello che lo spaventa e involontariamente sta cercando di distruggerla, non riesce a controllarsi. Dio ha un piano per tutti noi, questo lo sai già. E' venuto ilo momento di fare quello per cui sei stato messo qui". Il reverendo sgranò gli occhi: dunque il piano di Dio per lui era questo' aiutare un angelo a debellare un fantomatico assassino?
"Non è un assassino. Non è un Uomo. E' qualcosa di molto peggio, qualcosa che non puoi vedere. Devi credere.".
All'improvviso il reverendo Jackson Stenson rivide Elle stesa nel letto e ricordò le sue parole.Abbi fede sempre. Non dubitare. era questo il piano che dio aveva avuto in mente per Elle? L'aveva tolta a lui perchè nel momento del bisogno ricordasse le sue parole in punto di morte e credesse a tutta quella faccenda assurda? Perchè se c'era un momento in cui avrebbe dovuto credere, era certamente quello. Ma il reverendo Stenson era stanco. l'angelo aveva ragione: per quanto lui ci avesse provato, la sua fede stava ormai vacillando. Credere non gli bastava più, aveva bisogno delle prove. Prove che dimostrassero che tutto quello che gli stava accadendo era vero, che gli mostrassero che Elle era morta per qualcosa. Qualcosa che gli facesse capire di non essere pazzo. Cadde in ginocchio, con le lacrime che gli rigavano il volto: era stremato. Finito. Un tempo era stato un grande uomo, un ministro nero che si era fatto rispettare in un covo di retrogradi pregiudizievoli, ma ora era solo un vecchio stanco, una vago ricordo dell'uomo che era stato.
All'improvviso l'angelo si chinò su di lui e stese verso il suo viso una mano chiusa: stringeva qualcosa.
"Prendilo" disse l'angelo. il reverendo Stenson vide la mano che si schiudeva e osservò cosa conteneva: tra le dita della creatura era adagiato un nastro per capelli color ciliegia, liso e consunto. Il reverendo sentì che il cuore perdeva un colpo: era lo stesso nastro che aveva Elle tra i capelli quando avevano sigillato la bara. Come faceva ad esser lì? Avevano profanato la sua tomba?
"Non essere sciocco" disse l'angelo "Non oserei mai violare il riposo delle spoglie umane. Lui ha voluto che tu avessi quel nastro ed è comparso nella mia mano. ecco la prova che cerchi. Non conosco il piano che Lui aveva in mente per lei e forse un giorno ti sarà manifesto, anche se non è un tuo diritto. per il momento devi farti bastare questo. dio ha voluto che tu lo avessi e l'ha tolto da sotto terra. se vorrai controllare vedrai che la bara è intatta e sigillata, sepolta dove hai deciso tu. ora ti chiedo: mi aiuterai?".
Il reverendo Stenson piangeva a dirotto e baciava il nastro. Elle era in un posto migliore e Dio aveva un piano in mente per lei e lui sapeva che un giorno sarebbero tornati di nuovo insieme. Si alzò lentamente e fissò l'angelo, anche se vedeva offuscato per via delle lacrime. "Si" disse "Ma dovrai spiegarmi che cosa devo fare. Devo sapere cos'ho davanti"."Hai davanti il Male. Puro e semplice. Devi fare una cosa per me".
"Cosa?".
"Ora te lo dirò. ma dovrai fidarti".


Viola Gambon indossava il camice bianco e sedeva ad un tavolo di metallo in una stanza completamente bianca, con un neon appeso al soffitto che irradiava una luce fastidiosa. davanti a lei c'era un uomo seduto, sui trentacinque anni, con i capelli rossi e leggermente stempiato, un viso emaciato e uno sguardo perso nel vuoto, catatonico, con due occhiaie profonde, come se gli avessero passato un sughero bruciato sotto agli occhi. L'uomo indossava una camicia di forza e fissava viola senza dare l'impressione di vederla davvero. Con il camice e i capelli neri che vi ricadevano sopra, l'aria seria e pensierosa, Viola era ancora più bella.
"Reginald" iniziò Viola, rivolgendosi all'uomo che aveva davanti "Lo sai perchè sei qui, in questa stanza?". L'uomo non rispose e non emise nemmeno un suono.
"I dottori mi hanno detto che stanotte urlavi. Sono dovuti entrare nella tua stanza tre infermieri e mi hanno riferito che quando hanno cercato di calmarti hai aggredito uno di loro. lo hai quasi strangolato. Ti ricordi di questo Reginald?". Viola cercava di usare il tono più dolce e comprensivo di cui era capace, ma la realtà è che era profondamente turbata. Il paziente non rispondeva. Reginald Langstorm continuava a fissarla con quel suo sguardo carico di nulla. Ecco, pensò Viola, quello che c'è nei suoi occhi è il Nulla. Non aveva mai avuto quello sguardo scarico, pensò, aveva sempre avuto gli occhi colmi di tristezza, ma mai di Vuoto.
"Reginald" riprovò Viola "Che cos'hai sentito o visto che ti ha spaventato tanto, ieri notte?". Puntò i suoi occhi scuri su Langstorm, ma lui non parve avvertirne il fascino magnetico. Però le sue labbra si mossero. dapprima Viola non capì, poi sentì quello che Langstorm aveva detto: "Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro". Aveva detto quelle parole come se fossero una filastrocca imparata a memoria, senza entusiasmo. Come se stesse recitando una poesia di malavoglia.
"Cosa?" chiese viola "Di che pozzo parli?". Era affascinata dal fenomeno. la frase non aveva apparentemente alcun senso, ma forse aveva trovato il suo nodo gordiano: qualunque cosa volessero dire quelle parole, era chiaro che stavano alla base del disagio che Langstorm provava da molti anni ormai.
"Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro" ripetè Reginald.
Per un'altra mezz'ora Viola provò a far parlare Langstorm, ma l'unica cosa che otteneva in risposta era quella filastrocca. Alla fine sospirò, piegò gli angoli della bocca con fare pensieroso e disse all'infermiere che stava di guardia di riportare il paziente nella sua stanza.
Uscì dall'ospedale e si tolse il camice, salì in macchina e si tolse la maglietta bianca che indossava e se ne infilò un'altra, scura, con le labbra degli Stones rosso fuoco stampate sopra e rovinate, con la stampa leggermente scrostata apposta. Si guardò nello specchietto retrovisore e notò quanto era stanca, gli occhi socchiusi. Erano quasi le nove di sera quando arrivò alla tavola calda di Spike e ordinò un piatto un hamburger e una birra. Aveva bisogno di mangiare e di riflettere: Quello che era successo a Langstorm la preoccupava non poco. Langstorm era in cura alla clinica da più di otto anni ormai; quando la madre, ovvero la moglie di Peter Langstorm, si era suicidata inspiegabilmente, Reginald aveva avuto un crollo. era diventato chiuso, sospettoso, non usciva più di casa. Una volta Viola aveva parlato con il padre, lo scrittore Peter, e lui le aveva detto che il figlio era terrorizzato. Ma non aveva detto di più e Viola aveva constatato che anche il padre di Reginald era rimasto molto sconvolto dalla morte della moglie, com'era naturale che fosse. Poco tempo dopo Peter aveva trovato il figlio in casa, sul divano, con i polsi tagliati e lo sguardo vacuo. L'avevano salvato per un pelo e da allora si era chiuso in se stesso, sempre con quello sguardo fisso ma che conteneva un'infinita tristezza, non lo sguardo vuoto e perso che aveva visto quel giorno.
Non aveva più detto una parola dal giorno in cui era stato ricoverato, anni prima e ora era tornato a dire qualcosa. dopo aver quasi ucciso una persona. non aveva mai avuto comportamenti violenti e Viola era preoccupata proprio per questo: qualcosa o qualcuno lo stava spaventando. Il dottor Richardson, il responsabile del reparto, le aveva detto che quando avevano sentito le urla erano accorsi nella sua stanza e lo avevano trovato in preda agli spasmi che urlava qualcosa riguardo ad un certo Crandon. Viola aveva cercato ovunque, ma non c'era traccia di nessun Crandon negli archivi dell'ospedale, quindi non si trattava di un infermiere psicopatico. Nessun Crandon nemmeno a West Coburn e dintorni: chiunque fosse era la causa del nuovo crollo del suo paziente.
mentre pensava a tutto questo sentì una mano che le toccava la spalla. Sussultò e quando si voltò vide che era solo il reverendo Stenson.
"Jackson!" disse lei sorpresa e, alzandosi, lo abbracciò. Lui l'aveva vista nascere ed era un ottimo amico di suo padre.
"Viola, sei sempre più bella ogni giorno che passa" replicò lui, guardandola incantato. Era sempre stato dell'idea che la figlia dello sceriffo Gambon fosse una creatura meravigliosa, un fiore luminoso in un campo pieno di erbe cattive.
"Vorrei che me lo dicessero più spesso" ribattè lei ridendo. Quando rideva era a dir poco bellissima, constatò il reverendo: le labbra le si increspavano e si intravedevano i denti bianchi, mentre gli zigomi si contraevano leggermente e gli occhi le si illuminavano. Ma quello che la rendeva più graziosa era il naso all'insù, coperto di lentiggini, che si arricciava appena quando rideva. era una risata pura, che spazzava via ogni inquietudine. Il reverendo sperava che Dio avesse un grande piano per lei. Ma in quel momento aveva altro a cui pensare, doveva portare a termine il compito che l'angelo gli aveva affidato. Aveva passato la giornata intera a confessare i fedeli e a fare come se nulla fosse, attendendo di poter parlare con Viola la sera. Verso le otto aveva preso il nastro, lo aveva nascosto in una scatola per scarpe e l'aveva messa sul ripiano più alto dello scaffale che c'era nel suo ufficio, di fianco alla sagrestia. Poi era uscito e si era recato alla tavola calda, sapendo che l'avrebbe trovata li dopo le nove: Viola cenava sempre in quel posto finito il lavoro.
"Allora dimmi, come vanno le cose?" chiese il reverendo dopo essersi accomodato a sua volta su uno sgabello e aver ordinato una tazza di caffè.
"Potrebbe andare meglio2 rispose lei, sorseggiando la birra direttamente dalla bottiglia.
"Qualcosa ti turba?".
"Molte cose, per la verità".
"Se vuoi parlarne sai che con me puoi farlo, dopotutto sono il tuo confessore da quando eri bambina. Anche se credo che per te la fede in Dio sia qualcosa di sorpassato".
"Non sorpassato. Sopravvalutato. Ognuno ha bisogno di credere in qualcosa, ma io non sento il bisogno di credere in Dio. Ci sono molte altre cose che mi mantengono viva, più salutari".
"Vedo" disse il reverendo osservando sospettoso la lingua rossa che spuntava dalle labbra scrostate sulla maglietta di lei.
"La musica aiuta" disse lei in tono pratico, cercando di spostare la conversazione su qualcos'altro.
"Ad ogni modo, come va il lavoro?".
"Beh, non come vorrei. Ma non posso davvero parlarti di questo, Jackson. Sono legata anche io dal... Segreto professionale". Il vecchio reverendo rise
di gusto: trovava esilarante definire il suo obbligo al silenzio "segreto professionale". La sua non era una professione, era piuttosto una vocazione, ma lasciò perdere, sapendo che Viola aveva solo fatto una battuta. Era sempre pungente e questo gli piaceva. Però aveva bisogno di sapere di più. Doveva azzardare.
"E dimmi, come sta il figlio del vecchio Langstorm?". Viola rimase immobile con la bottiglia di birra a mezz'aria e voltò lentamente la testa verso il reverendo.
"Prego?" disse.
"Si, il figlio di Langstorm lo scrittore. Come sta Reginald?" disse il reverendo, pur sapendo che Viola non era stupida. Ma non sapeva cos'altro fare.
"Sta bene. Come al solito" rispose Viola, glaciale. Perchè il reverendo voleva sapere di Reginald proprio il giorno in cui era impazzito del tutto?
"Non è vero. E' successo qualcosa. A Reginald, intendo. non chiedermi come lo so, lo so e basta". Il reverendo sperò che la ragazza credesse che uno degli infermieri fosse andato da lui a confessarsi e gli avesse raccontato tutto. Non sarebbe stata la prima volta. L'angelo gli aveva detto che il suo compito riguardava un uomo ricoverato nella clinica della contea. Gli aveva detto chi era e lo aveva indotto ad informarsi. In realtà non sapeva nulla.
"Jackson, non so chi ti abbia raccontato di Langstorm, ma non ne posso parlare. Non posso davvero, mi spiace".
"Viola, quell'uomo è in pericolo, capisci? Il Male..." disse il reverendo.
"Il male non c'entra nulla" sbottò Viola, infastidita "L'aggressività non ha niente a che fare con il diavolo, Jackson. Quell'uiomo ha subito un trauma e quello che lo ha perseguitato in passato è tornato stanotte. Crollo psicotico, punto e basta. E ho già detto fin troppo, discussione chiusa". Viola non voleva aggredire così il reverendo ma aveva avuto una giornata dura. Si scusò e tornò a bere la birra in silenzio, giocando con la forchetta sulla carne. Non aveva più molta fame in quel momento.
'allora è questo che succede' pensò il reverendo 'In quel posto il Male ha trovato Langstorm'.
"Scusa, non volevo essere invadente. ora devo andare... Riguardati, Viola, ti vedo stanca".
"Non volevo essere aggressiva jackson. Ho solo avuto una brutta giornata, ti chiedo scusa".
Il reverendo lasciò Viola sola al bancone, con lo sguardo triste.

Viola era profondamente turbata: cosa voleva il reverendo? Mentre pensava a questo sentì una scossa alla schiena, leggera. 'Che diamine...?' pensò. I suoi pensieri furono interrotti dallo squillo del telefono cellulare. Rispose: "Pronto? Papà, ciao! Come? Stai scherzando? No, aspetta, vengo da te". Si alzò, con gli occhi pieni di lacrime, pensando alla sorte che era toccata a Pat Turner.

Nello stesso momento Jo Blonde si era alzato dal tavolo nell'angolo cui era seduto e aveva pagato il conto. quella sera era troppo stanco per accorgersi di Viola, che era rannicchiata sul piatto e sulla sua birra, nascosta, ma quando le passò vicino avvertì una scossa che gli percorse la spina dorale, ma la scambiò per un brivido. Non si voltò ma la sentì. il giorno dopo avrebbe provato quella sensazione amplificata cento volte, mentre parlava con lo sceriffo Gambon. Jo uscì dal locale proprio mentre Viola rispondeva al telefono.

Il giorno seguente il reverendo Jackson ricevette una nuova visita dell'angelo e gli disse quello che aveva scoperto.
"Molto bene, è come pensavo" disse l'angelo "Il Male vuole qualcosa da Langstorm, qualcosa che lo aiuterebbe a liberarsi. Finchè Langstorm rimane in quella clinica non ci sarà nulla da fare.Sai quello che devi fare". Si, Jackson lo sapeva. Stava per aiutare Dio a liberare West Coburn da qualcosa di orribile.
Era ormai tardo pomeriggio quando il reverendo Jackson salì sul pulmino della parrocchia e mise in moto. Dopo venti minuti era davanti alla clinica psichiatrica della contea. Sapeva che Viola quel giorno si era presa una vacanza. meglio, almeno non poteva sapere che lui era andato li. Comunicò che voleva dare conforto spirituale ad alcuni pazienti e chiese di Langstorm. Sulle prime il dottor Richardson non volle farlo passare, ma poi si chiese come avesse fatto il reverendo a sapere di Langstorm. Se qualcuno aveva parlato era meglio accontentare il reverendo, magari non avrebbe detto niente alla stampa, non che non si fidasse di quell'uomo, ma con il tempo aveva imparato a non fidarsi troppo delle persone. Lo fece passare e disse agli infermieri di farlo entrare, ma di perquisirlo prima. Non aveva niente di sospetto addosso. L'infermiere rimase di guardia alla porta e gli concesse cinque minuti. Al reverendo ne sarebbero bastati molti di meno.
Jackson entrò e vide Langstorm, emaciato e con lo sguardo perso nel vuoto, avvolto nella camicia di forza e seduto al centro della stanza, immobile.
"Ciao Reginald" disse.
"Il Signore è il mio pastore" replicò Reginald, con voce roca.
"Come?" domandò il reverendo. non si aspettava che Langstorm gli avrebbe parlato. Lo credeva catatonico.
"Dio disse ad Abramo: uccidi tuo figlio" continuò Langstorm.
"Reginald, perchè citi la Bibbia?".
"Lo sai qual'è la condizione peggiore di Lucifero?" disse Langstorm freddamente, alzandosi.
"No, io..." balbettò Jackson. Che stava succedendo?
"Era un angelo magnifico, ma questo lo sai. L'Astro del Mattino, la creatura più bella che Dio avesse creato. Ma lui voleva di più, voleva essere lui Dio, perchè si credeva migliore del suo fattore. Fu precipitato sulla terra e si incastrò nell'abisso infernale. Dante lo colloca al centro dell'Inferno, in un lago ghiacciato. Enorme, spaventoso e al buio. Imperatore di un regno che fa paura a tutti, il regno che tutti vorrebbero evitare" ora Langstorm era vicinissimo, la sua bocca era a un centimetro dal viso di Jackson.
"Ecco qual'è il brutto. L'essere più bello e puro trasformato in un mostro, reggitore di un luogo orribile, imprigionato nel buio. Mi ha trovato, reverendo. mi ha trovato e ora devo aiutarlo".
"Chi? Lucifero ti ha trovato?" chiese il reverendo.
"No. lucifero non esiste. Nemmeno Dio. ma chi mi ha trovato, Lui esiste" e detto questo Langstorm si inginocchiò. Il reverendo sapeva cosa doveva fare, ma stava iniziando a dubitare. Allora vide accanto a se l'angelo. Perchè non ci pensava lui? Ma la risposta era chiara: Dio voleva che fosse lui, Jackson Stenson, a farlo. Il reverendo aprì la Bibbia che portava in mano e sfilò il coltello che vi aveva nascosto. Non avevano guardato li dentro mentre l,o perquisivano, forse si fidavano. Tagliò i lacci della camicia di forza. aveva compiuto la sua missione. Langstorm lo colpì con tutta la forza che aveva in corpo e Jackson cadde a terra, poi l'aggressore gli prese il coltello di mano e iniziò a gridare.
Il reverendo vedeva tutto annebbiato e non riusciva ad alzarsi. aveva il naso rotto e gli girava la testa. sentiva langstorm gridare e poi udì la porta della cella aprirsi. Udì l'infermere che urlava mentre Langstorm lo accoltellava e scappava dalla sua stanza. ma si rese conto che non era una stanza , era una cella. E reginald l'aveva appena chiuso dentro. 'Cos'ho fatto?' si domandò.
Spaventato e confuso, si infilò la mano in tasca dove aveva mesos il nastro di Elle. L'aveva tolto dalla scatola dove l'aveva nascosto per portarlo con se e farsi coraggio; il nastro però non c'era. L'aveva perso?
"No, Tesoro2 disse una voce poco distante. Era Elle.
"Elle?" disse Jackson, incredulo "Elle che ci fai qui?".
"Ma io non sono qui. Io sono polvere, amore. Sono morta di un male orribile senza che nessuno potesse aiutarmi e il mio corpo è marcito in una bella cassa di legno
imbottita di velluto". jackson guardò la donna che aveva davanti e urlò: ora vedeva tutto chiaro. Ellle era vestita come il giorno in cui l'aveva seppellito, con un lungo abito nerpo ed era magrissima, più bassa e la sua pelle era marcia, come se fosse carta da parati ammuffita che si stava staccando. Gli occhi non c'erano più e al loro pòsto c'erano lunghi lombrichi che pasteggiavano con la carne rimasta nelle orbite svuotate; i denti erano affilati e non aveva le labbra, le dita erano storte e artigliate. Puzzava come si supponeva che dovesse puzzare la morte e il cranio era quasi esposto, la poca pelle che lo ricopriva scrostata e verdastra.Quella non era Elle.
"No. Ma sono molto di più" disse la non morta Elle e all'improvviso si controrse e cambiò forma. Davanti a lui ora c'era l'angelo.
"Visto, Jackson? Hai visto come è facile manipolare un uomo che ha fede? la fede, solo questo frega voi schifosi esseri Umani. Avete bisogno di credere a tutti i costi in qualcosa. Ti ho accontentato, pidocchioso bastardo. adesso dimmi, come ci si sente a scoprire che il tuo Dio non c'è e non può aiutarti?".
"Chi sei?" urlò disperato Jackson, urtando il muro con le spalle mentre indietreggiava.
"Non l'hai ancora capito?" disse l'angelo, che ora era tornato ad essere la Elle spaventosa di poco prima "Io sono tutto quello che tu hai sempre combattuto. Tra poco potrò uscire e dilagherò sulla Terra. Ego sum captivus. Ma ancora per poco".
"Buon Dio" mormorò il reverendo, cercando di non guardare quel mostro che aveva preso le sembianze della sua defunta moglie e che ora gli alitava in faccia a pochi centimetri di distanza.
"Dio non esiste, Jackson" disse Elle, con voce demoniaca ma fintamente soave "Io si".
Jackson urlò mentre Elle affondava la mano artigliata nel costato e gli frantumava le costole. era un dolore lancinante e percepì l'esatto momento in cui gli artigli gli spappolavano il cuore. 'Mi ha ingannato. Ho liberato un assassino, ho fatto il suo gioco. perdonami Elle'. ebbe il tempo di pensare solo questo, dopodichè, tra atroci dolori, si spense. poco dopo il dottor Richardson apprese della fuga sanguinaria di Reginald ed entrò nella cella. il reverendo era accasciato a terra e Richardson notò un piccolo squarcio sulla camicia nera, in corrispondenza del costato. Sulla pelle, in quel punto, c'era un taglio profondo che sanguinava. Il reverendo era morto.

Nella stanza buia la figura immobile sorrideva. Nell'aria si sentiva l'eco di una risata malvagia. Perchè aveva dovuto fare tutto quello al reverendo? la risposta era semplice: così era molto più divertente. ripensò al dolore dell'uomo nello scoprire di essere stato ingannato. gioiva nel pensare che era riuscito a togliere l'unica cosa che faceva andare avanti il reverendo. la Fede. Gliel'aveva restituita e poi l'aveva tolta di nuovo, prima di farlo morire. Voleva che sapesse che era solo. Solo e dimenticato. e ora il suo servo Langstorm era libero. 'Giochiamo. pedine pronte, Signore e Signori, dame e cavalieri, il giuoco inizia. Ci divertiremo un mondo!'. quelle parole pronunciate dalla voce demoniaca risuonarono nella stanza. 'Sangue e risa. sarà uno spasso'. La sagoma sussultò lievemente. Non vedeva l'ora. Ma la cosa che si nascondeva nel buio, che si nascondeva nel corpo immobile era scontenta: Lei viveva ancora. Ma c'era tempo. E lo Straniero non poteva salvarla ancora per molto.