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mercoledì 21 luglio 2010

CAPITOLO 5- FEDE


Il reverendo Stenson si svegliò di soprassalto ed emise un gemito: nonostante avesse gli occhi spalancati si sentiva avvolto da buio e aveva l'impressione che qualcosa nell'oscurità lo stesse fissando. respirò profondamente e si mise seduto sul letto. 'Non è nulla' pensò 'Il solito incubo. Solo quello'
(i demoni che ti fissano)
Solo un brutto sogno. Erano giorni che veniva perseguitato nel sonno da urla spaventose e sentiva un'aura malvagia che tentava di circondarlo; quando si svegliava si sentiva sconvolto e ricordava solo qualche immagine sfocata: quella notte aveva visto nel sogno una sagoma al chiaro di luna che indietreggiava nel bosco mentre un altra figura gli saltava addosso immobilizzandolo. Era come se avesse avvertito la confusione e la paura della persona che veniva aggredita. Si ridistese e provò a chiudere gli occhi: pregò in silenzio, con le mani giunte sul petto, appellandosi alla misericordia di Dio. Nelle settimane precedenti i sogni non avevano nulla di concreto: era sempre solo nel buio e sentiva un lamento costante che gli risuonava nelle orecchie, poteva avvertire che c'era qualcosa nel buio che rimaneva nascosto, in attesa di uscire e fargli del male. Quella notte era la prima volta che aveva sognato qualcosa che non riguardasse solo lui, ma era certo che il sogno avesse comunque a che fare con quella presenza maligna che lo perseguitava da giorni ormai.
Si era sempre detto che era una sua fissazione, il risultato del grande stress a cui era stato sottoposto negli ultimi tempi, forse era addirittura il principio di un esaurimento nervoso
(non ci sarebbe da stupirsi)
Da quando Elle era morta, pochi mesi prima, si sentiva come perduto, ma non aveva perso la fede: la morte di sua moglie lo aveva anzi avvicinato ancora di più a Dio. Si era rifugiato nella preghiera e nel suo lavoro continuo verso la comunità: il Signore aveva chiamato a se una delle cose che più amava, ma gli aveva lasciato un'infinità di persone bisognose del suo aiuto, persone che non voleva deludere.
Lavorava sodo al centro di accoglienza dietro la chiesa di West Coburn, sia per poter compiere la missione che Dio gli aveva affidato, sia per non permettersi di pensare troppo a Elle: non voleva cadere nel baratro, non quando sapeva di avere la fede a sostenerlo. 'Ma la fede a volte non basta' pensò il reverendo, cercando di riaddormentarsi. Si ricordava bene il giorno in cui era tornato tardi dal centro di accoglienza e l'aveva trovata svenuta in salotto, rannicchiata in una pozza del suo stesso vomito e il sangue rappreso che le otturava le narici e le incrostava il golf azzurro pallido. Quando l'aveva vista in quello stato era sul punto di perdere la testa, ma aveva raccolto le forze e la poca lucidità mentale che gli rimaneva in quel momento e l'aveva portata all'ospedale della città. Solo il giorno dopo dalle analisi era risultato che Elle aveva un tumore al cervello in stadio avanzato
(inoperabile)
Il reverendo ricordava bene l'effetto che aveva avuto su di lui quella parola, 'inoperabile': era come se qualcuno lo avesse trafitto con uno stiletto al cuore, gli era mancata l'aria. 'Inoperabile'. Era come dire che Elle era condannata a morte.
E così fu: nel giro di pochi mesi il reverendo Stenson vide sua moglie soffrire a causa dei dolori atroci e a causa della chemioterapia spaventosamente aggressiva; la vide cambiare aspetto: era dimagrita a tal punto che non sembrava quasi più una donna, piuttosto un esile scheletro asessuato. Ma non avrebbe potuto amarla di più: i suoi occhi, anche se colmi di dolore, erano sempre gli stessi che lo avevano fatto innamorare tanti anni prima e quando la toccava per lavarla o per cambiarle la flebo lei gli cingeva debolmente il polso con le dita ossute e lui sentiva il calore che provava ogni volta che sua moglie lo toccava: era sempre lei, nonostante il drastico cambiamento esteriore. Dentro era sempre la donna meravigliosa e pura che lo aveva accompagnato per gran parte della sua vita e non l'avrebbe abbandonata per nessun motivo al mondo. L'agonia era durata poco più di quattro mesi, i peggiori che il reverendo Stenson avesse mai vissuto e il giorno in cui tutto il dolore ebbe fine fu senza dubbio una prova tremenda per lui.
Era un giovedì pomeriggio e un sole pallido penetrava dalla finestra della camera in cui, stesa nel letto, riposava Elle. Lui era con lei e sapeva che ormai era arrivato il momento: la notte precedente aveva avuto un altro attacco e il dottore che l'aveva visitata a casa aveva insistito perchè fosse trasportata d'urgenza in ospedale, ma ne la paziente ne tantomeno il reverendo avevano voluto accettare. Elle stava morendo, e voleva che ciò accadesse a casa sua, nel suo letto. Il dottore aveva capito, ma li aveva avvertiti che in quelle condizioni la morte sarebbe sopraggiunta nel giro di poche ore.
Il reverendo aveva sorriso a sua moglie e l'aveva guardata: il volto era incavato e la pelle era talmente tesa che gli sembrava di osservare un teschio con gli occhi grandi e sofferenti ancora incastrati nelle orbite. Era andato in bagno e si era inginocchiato dopo aver chiuso la porta: per la prima volta dopo mesi aveva deciso di pregare per l'unica cosa che sapeva non essere possibile.
"Ti prego" aveva sussurrato, scosso dai singhiozzi "Ti prego non prenderla con te. Non Ancora, ti prego". era troppo anche per lui. se Dio era così grande e potente perchè allora non poteva salvare sua moglie? Perchè non la guariva, dopo tutto quello che aveva fatto per lui? Dopo tutti quegli anni passati a credere e a pregare, ad aiutare i più deboli in suo nome? ma sapeva la risposta, anche se in quel momento non lo consolava affatto: 'Dio ha un piano per ognuno di noi' aveva pensato 'Ma perchè quello di Elle è così crudele?'. Non poteva saperlo. Poteva solo continuare ad avere fede, come aveva sempre fatto.
Si era rialzato ed era tornato da sua moglie, aveva pregato per lei e le aveva dato l'estrema unzione. Poi si era seduto accanto a lei, sul letto - lo spazio era sufficiente visto come si era rimpicciolita negli ultimi tempi - e l'aveva presa per mano, per accompagnarla ad andare nel luogo dove non avrebbe potuto seguirla. Era rimasto così per ore e si stava quasi addormentando, quando lei con grande fatica, aveva pronunciato qualche parola sommessa, cercando di mettersi a sedere. Il reverendo Stenson aveva sgranato gli occhi e le aveva detto di non sforzarsi, poi si era avvicinato al suo viso e le aveva chiesto di ripetere: lei lo aveva guardato con gli occhi spalancati e luccicanti, quasi troppo grandi per quel viso così magro, e aveva detto qualcosa.
Il reverendo non avrebbe mai saputo dire se quelle parole fossero pensate o se fossero il frutto del tremendo dolore che sua moglie stava provando in quel momento, però se le ricordava molto bene. Si ricordava la voce flebile e rotta di Elle mentre gli sussurrava nell'orecchio quelle strane parole: "Abbi... fede".
"Come?" aveva detto lui, con il volto rigato dalle lacrime.
"Abbi.. fede... sempre. Non... dubitare" aveva ripetuto lei cercando di sforzarsi per parlare.
"Si" aveva ribattuto lui "Si, amore. Te lo giuro". Poi lei aveva strabuzzato gli occhi e aveva detto qualcos'altro, qualcosa che il reverendo non era mai riuscito a decifrare bene: "Jackson... lo stolto... fondo... pozzo... dentro".
"Che cosa?" aveva chiesto lui, confuso. Ma non aveva ottenuto risposta: gli occhi di elle avevano perso la luce vitale che avevano sempre avuto anche durante la malattia e ora sembravano due grosse biglie inutili. Era morta e lo aveva lasciato solo. Il reverendo era rimasto per ore, fino a notte fonda, abbracciato al corpo esanime di sua moglie. poi era uscito ed era andato in chiesa a pregare, aveva versato tutte le lacrime che poteva produrre e si era addormentato ai piedi dell'altare, sfinito.
Il reverendo rimase a guardare il soffitto per qualche minuto prima di rendersi conto che non riusciva a riprendere sonno. Cercava di non distruggersi il cervello a furia di pensare ad Elle, ma con gli incubi in cui era sprofondato nelle ultime settimane non poteva fare a meno di pensarla per farsi forza.
Doveva assolutamente trovare un modo per allontanarli e mentre pensava a questo gli balenò davanti agli occhi la figura del ragazzo che veniva aggredito. Era tutto molto oscuro, ma era convinto di conoscere quel ragazzo, ne era assolutamente certo.
Dal momento che non sarebbe mai riuscito a riprendere sonno decise che avrebbe potuto recarsi al centro di accoglienza per sistemare e mettere un po' in ordine. Andò in bagno e si lavò il viso, poi si guardò allo specchio: i capelli erano ormai grigi e la sua pelle nera era segnata da rughe profonde; gli occhi scuri erano stanchi e colmi di tristezza e preoccupazione. Il fatto di essere il reverendo del paese e nel contempo un uomo di colore aveva creato qualche problema all'inizio del suo lavoro a West Coburn: aveva iniziato molti anni prima, quando era ancora giovane e la diffidenza delle persone più forte e ingiustificata. Tuttavia era riuscito a spazzare via il pregiudizio in molte delle anime di cui aveva deciso di prendersi cura e dopo tutto quel tempo godeva di fiducia e stima profonda, anche se non era quello a cui puntava principalmente. Lui voleva solo aiutare chi ne aveva più bisogno.
Scese al piano inferiore e scaldo il caffè. Le quattro del mattino. 'Beh jackson' pensò rivolgendosi a se stesso 'Almeno oggi potrai renderti utile'. Bevve in fretta il caffè riscaldato senza troppo entusiasmo e aprì lo sportello del frigorifero per cercare la bottiglia del latte. Quando ebbe finito di fare colazione uscì di casa e inizio a camminare nell'aria fresca: era ancora buio pesto.Raggiunse la chiesa in dieci minuti: il centro di accoglienza era situato nell'edificio accanto, ma prima voleva raccogliersi in preghiera e sistemare alcune cose nella sagrestia. Si inginocchiò davanti all'altare e iniziò a pensare a tutto quello che gli stava capitando: gli incubi delle ultime settimane lo spaventavano, inoltre quella notte il sogno era stato incredibilmente realistico. 'E' quasi come se quel ragazzo sia stato realmente aggredito, come se esistesse realmente' pensò. Mentre pregava con gli occhi chiusi avvertì un rumore alle sue spalle, come un fruscio. Si voltò e vide una sagoma sparire dietro una delle colonne situate ai lati.
"Chi è la?" gridò spaventato il reverendo. Sentì un rumore di passi felpati e dall'ombra sbucò qualcosa: era certamente un uomo e il reverendo Stenson non potè fare a meno di notare che era alto più di due metri.La figura avanzò lentamente verso di lui, ma non riusciva ancora a distinguerne i tratti: era semplicemente terrorizzato, tanto che indietreggiò con le gambe tremanti fino a risalire i gradini dell'altare. L'uomo finalmente si fermò e alla luce delle candele il reverendo vide il suo aspetto: era altissimo e magro, con i capelli scuri e arruffati e gli occhi grandi, completamente neri anche dove avrebbe dovuto esserci il bianco; era nudo e il suo corpo pallido era solcato da una ragnatela di cicatrici che andavano a formare un disegno complesso dal significato oscuro. La cosa che più lasciava perplesso il reverendo era che lo sconosciuto non possedeva attributi sessuali: in mezzo alle gambe era liscio, come una bambola. Il reverendo chiuse gli occhi e si trattenne dall'urlare. 'Sei crollato. Alla fine hai ceduto alla pressione e sei impazzito, hai le allucinazioni' pensò, cercando di calmarsi. Riaprì gli occhi ma la strana creatura era ancora davanti a lui e anzi sembrava aver sentito i suoi pensieri perchè lo guardò fisso -il reverendo era certo che lo stesse fissando anche se non aveva le pupille- e scosse la testa, poi puntò il capo verso l'alto e stese le braccia. Da dietro la schiena si dispiegò un enorme paio di ali lunghe, con le piume e le penne nere come la pece.
"Ma cosa..." urlò il reverendo. 'No. No. No!' pensò, terrorizzato, accasciandosi a terra.
"Alzati in piedi" disse la creatura, con voce pura e soave. L'ala sinistra nel dispiegarsi urtò un lungo candeliere di ferro, il quale cadde con un rumore sordo di ferraglia.
"Cosa..." balbettò il reverendo in preda ad un terrore cieco: cos'era quella creatura? Il suo primo pensiero fu che aveva davanti a se un angelo, per quanto incredibile potesse essere, ma quello non sembrava il classico angelo, piuttosto pareva una creatura uscita dall'inferno.
"Non fermarti a quello che i tuoi occhi ti mostrano" disse la creatura con quella sua voce pura, dell'altro mondo "Quello che hai sempre chiamato angelo non è altro che un'immagine distorta della realtà, un'illusione che voi Uomini avete creato nel corso dei millenni. Esseri biondi con le ali candide: noi non siamo così. Osserva le cicatrici sul mio corpo, osserva la sofferenza e i marchi della vergogna che portiamo addosso per causa Vostra".
"Marchi?" replicò il reverendo, confuso e spaventato, osservando l'impressionante ragnatela di tagli e cicatrici che andava a formare un'intricato disegno.
"Da quando Lui ha creato Voi, proteggerVi dal male e dai pericoli è diventato il nostro compito più importante. Ogni volta che uno di noi fallisce nell'impresa sul nostro corpo si imprime il segno del fallimento. Se tu avessi la capacità di leggere questi segni" e indicò il suo corpo martoriato "comprenderesti la mia storia e quello che non sono riuscito ad impedire, le immani catastrofe che si sono compiute perchè non ho saputo arginarle. Ma ad ogni mio fallimento corrispondono centinaia di successi. Ciò che non sono riuscito ad impedire non è nulla in confronto a ciò che nel corso degli anni sono riuscito ad evitarVi. Questo è il motivo per cui sono qui".
"Sto impazzendo" disse il reverendo.
"Al contrario. Sono qui perchè gli Uomini stanno correndo un pericolo ben peggiore di quelli che siamo riusciti a scongiurare nel corso dei secoli. E per fermare tutto questo ho bisogno del tuo aiuto". il reverendo sussultò. Tutto quello che stava vedendo non poteva essere reale: un angelo mostruoso che gli si manifestava e parlava di pericoli da scongiurare, un angelo che aveva bisogno del suo aiuto. Non era possibile.
"Lo è" disse l'angelo, che evidentemente stava leggendo nella sua mente "E tu sei la chiave".
"La chiave?" domandò stupidamente il reverendo Stenson.
"Il Male si è risvegliato a West Coburn. Lo senti, lo puoi avvertire".
"Io non..." cercò di replicare il reverendo.
"la paura che senti. Gli incubi continui. Stanotte è stato ucciso un ragazzo e tu lo hai visto, hai sentito il suo dolore. Si chiamava Patrick Turner". Al reverendo sembrò di ricevere un pugno sul naso: dunque quel ragazzo era morto per davvero e ora sapeva perchè gli era parso di conoscerlo. Era così. Lui conosceva bene Pat Turner e aveva cercato invano di aiutarlo più di una volta, ma or non ce ne sarebbe stato più bisogno: aveva sentito la sua sofferenza e lo aveva sentito morire.
"Il Male teme tutto ciò che ha a che fare con Lui" continuò l'angelo, cercando pazientemente di spiegare la situazione incredibile a quell'uomo spaventato che aveva di fronte "con Dio. La tua fede ha vacillato negli ultimi mesi, anche se non lo sai, tuttavia è rimasta e il male questo lo ha percepito. Senza volerlo ha stabilito una connessione con la tua anima, per cercare di distruggere questo tuo potere inconsapevole, comunicandoti ogni sofferenza che provocava, trasmettendoti parte del tuo odio. Sta crescendo e non riesce a controllarsi, per questo motivo lo percepisci con tanta chiarezza".
"Il male? Che significa?" urlò il reverendo, arretrando.
"Significa che la tua fede è quello che lo spaventa e involontariamente sta cercando di distruggerla, non riesce a controllarsi. Dio ha un piano per tutti noi, questo lo sai già. E' venuto ilo momento di fare quello per cui sei stato messo qui". Il reverendo sgranò gli occhi: dunque il piano di Dio per lui era questo' aiutare un angelo a debellare un fantomatico assassino?
"Non è un assassino. Non è un Uomo. E' qualcosa di molto peggio, qualcosa che non puoi vedere. Devi credere.".
All'improvviso il reverendo Jackson Stenson rivide Elle stesa nel letto e ricordò le sue parole.Abbi fede sempre. Non dubitare. era questo il piano che dio aveva avuto in mente per Elle? L'aveva tolta a lui perchè nel momento del bisogno ricordasse le sue parole in punto di morte e credesse a tutta quella faccenda assurda? Perchè se c'era un momento in cui avrebbe dovuto credere, era certamente quello. Ma il reverendo Stenson era stanco. l'angelo aveva ragione: per quanto lui ci avesse provato, la sua fede stava ormai vacillando. Credere non gli bastava più, aveva bisogno delle prove. Prove che dimostrassero che tutto quello che gli stava accadendo era vero, che gli mostrassero che Elle era morta per qualcosa. Qualcosa che gli facesse capire di non essere pazzo. Cadde in ginocchio, con le lacrime che gli rigavano il volto: era stremato. Finito. Un tempo era stato un grande uomo, un ministro nero che si era fatto rispettare in un covo di retrogradi pregiudizievoli, ma ora era solo un vecchio stanco, una vago ricordo dell'uomo che era stato.
All'improvviso l'angelo si chinò su di lui e stese verso il suo viso una mano chiusa: stringeva qualcosa.
"Prendilo" disse l'angelo. il reverendo Stenson vide la mano che si schiudeva e osservò cosa conteneva: tra le dita della creatura era adagiato un nastro per capelli color ciliegia, liso e consunto. Il reverendo sentì che il cuore perdeva un colpo: era lo stesso nastro che aveva Elle tra i capelli quando avevano sigillato la bara. Come faceva ad esser lì? Avevano profanato la sua tomba?
"Non essere sciocco" disse l'angelo "Non oserei mai violare il riposo delle spoglie umane. Lui ha voluto che tu avessi quel nastro ed è comparso nella mia mano. ecco la prova che cerchi. Non conosco il piano che Lui aveva in mente per lei e forse un giorno ti sarà manifesto, anche se non è un tuo diritto. per il momento devi farti bastare questo. dio ha voluto che tu lo avessi e l'ha tolto da sotto terra. se vorrai controllare vedrai che la bara è intatta e sigillata, sepolta dove hai deciso tu. ora ti chiedo: mi aiuterai?".
Il reverendo Stenson piangeva a dirotto e baciava il nastro. Elle era in un posto migliore e Dio aveva un piano in mente per lei e lui sapeva che un giorno sarebbero tornati di nuovo insieme. Si alzò lentamente e fissò l'angelo, anche se vedeva offuscato per via delle lacrime. "Si" disse "Ma dovrai spiegarmi che cosa devo fare. Devo sapere cos'ho davanti"."Hai davanti il Male. Puro e semplice. Devi fare una cosa per me".
"Cosa?".
"Ora te lo dirò. ma dovrai fidarti".


Viola Gambon indossava il camice bianco e sedeva ad un tavolo di metallo in una stanza completamente bianca, con un neon appeso al soffitto che irradiava una luce fastidiosa. davanti a lei c'era un uomo seduto, sui trentacinque anni, con i capelli rossi e leggermente stempiato, un viso emaciato e uno sguardo perso nel vuoto, catatonico, con due occhiaie profonde, come se gli avessero passato un sughero bruciato sotto agli occhi. L'uomo indossava una camicia di forza e fissava viola senza dare l'impressione di vederla davvero. Con il camice e i capelli neri che vi ricadevano sopra, l'aria seria e pensierosa, Viola era ancora più bella.
"Reginald" iniziò Viola, rivolgendosi all'uomo che aveva davanti "Lo sai perchè sei qui, in questa stanza?". L'uomo non rispose e non emise nemmeno un suono.
"I dottori mi hanno detto che stanotte urlavi. Sono dovuti entrare nella tua stanza tre infermieri e mi hanno riferito che quando hanno cercato di calmarti hai aggredito uno di loro. lo hai quasi strangolato. Ti ricordi di questo Reginald?". Viola cercava di usare il tono più dolce e comprensivo di cui era capace, ma la realtà è che era profondamente turbata. Il paziente non rispondeva. Reginald Langstorm continuava a fissarla con quel suo sguardo carico di nulla. Ecco, pensò Viola, quello che c'è nei suoi occhi è il Nulla. Non aveva mai avuto quello sguardo scarico, pensò, aveva sempre avuto gli occhi colmi di tristezza, ma mai di Vuoto.
"Reginald" riprovò Viola "Che cos'hai sentito o visto che ti ha spaventato tanto, ieri notte?". Puntò i suoi occhi scuri su Langstorm, ma lui non parve avvertirne il fascino magnetico. Però le sue labbra si mossero. dapprima Viola non capì, poi sentì quello che Langstorm aveva detto: "Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro". Aveva detto quelle parole come se fossero una filastrocca imparata a memoria, senza entusiasmo. Come se stesse recitando una poesia di malavoglia.
"Cosa?" chiese viola "Di che pozzo parli?". Era affascinata dal fenomeno. la frase non aveva apparentemente alcun senso, ma forse aveva trovato il suo nodo gordiano: qualunque cosa volessero dire quelle parole, era chiaro che stavano alla base del disagio che Langstorm provava da molti anni ormai.
"Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro" ripetè Reginald.
Per un'altra mezz'ora Viola provò a far parlare Langstorm, ma l'unica cosa che otteneva in risposta era quella filastrocca. Alla fine sospirò, piegò gli angoli della bocca con fare pensieroso e disse all'infermiere che stava di guardia di riportare il paziente nella sua stanza.
Uscì dall'ospedale e si tolse il camice, salì in macchina e si tolse la maglietta bianca che indossava e se ne infilò un'altra, scura, con le labbra degli Stones rosso fuoco stampate sopra e rovinate, con la stampa leggermente scrostata apposta. Si guardò nello specchietto retrovisore e notò quanto era stanca, gli occhi socchiusi. Erano quasi le nove di sera quando arrivò alla tavola calda di Spike e ordinò un piatto un hamburger e una birra. Aveva bisogno di mangiare e di riflettere: Quello che era successo a Langstorm la preoccupava non poco. Langstorm era in cura alla clinica da più di otto anni ormai; quando la madre, ovvero la moglie di Peter Langstorm, si era suicidata inspiegabilmente, Reginald aveva avuto un crollo. era diventato chiuso, sospettoso, non usciva più di casa. Una volta Viola aveva parlato con il padre, lo scrittore Peter, e lui le aveva detto che il figlio era terrorizzato. Ma non aveva detto di più e Viola aveva constatato che anche il padre di Reginald era rimasto molto sconvolto dalla morte della moglie, com'era naturale che fosse. Poco tempo dopo Peter aveva trovato il figlio in casa, sul divano, con i polsi tagliati e lo sguardo vacuo. L'avevano salvato per un pelo e da allora si era chiuso in se stesso, sempre con quello sguardo fisso ma che conteneva un'infinita tristezza, non lo sguardo vuoto e perso che aveva visto quel giorno.
Non aveva più detto una parola dal giorno in cui era stato ricoverato, anni prima e ora era tornato a dire qualcosa. dopo aver quasi ucciso una persona. non aveva mai avuto comportamenti violenti e Viola era preoccupata proprio per questo: qualcosa o qualcuno lo stava spaventando. Il dottor Richardson, il responsabile del reparto, le aveva detto che quando avevano sentito le urla erano accorsi nella sua stanza e lo avevano trovato in preda agli spasmi che urlava qualcosa riguardo ad un certo Crandon. Viola aveva cercato ovunque, ma non c'era traccia di nessun Crandon negli archivi dell'ospedale, quindi non si trattava di un infermiere psicopatico. Nessun Crandon nemmeno a West Coburn e dintorni: chiunque fosse era la causa del nuovo crollo del suo paziente.
mentre pensava a tutto questo sentì una mano che le toccava la spalla. Sussultò e quando si voltò vide che era solo il reverendo Stenson.
"Jackson!" disse lei sorpresa e, alzandosi, lo abbracciò. Lui l'aveva vista nascere ed era un ottimo amico di suo padre.
"Viola, sei sempre più bella ogni giorno che passa" replicò lui, guardandola incantato. Era sempre stato dell'idea che la figlia dello sceriffo Gambon fosse una creatura meravigliosa, un fiore luminoso in un campo pieno di erbe cattive.
"Vorrei che me lo dicessero più spesso" ribattè lei ridendo. Quando rideva era a dir poco bellissima, constatò il reverendo: le labbra le si increspavano e si intravedevano i denti bianchi, mentre gli zigomi si contraevano leggermente e gli occhi le si illuminavano. Ma quello che la rendeva più graziosa era il naso all'insù, coperto di lentiggini, che si arricciava appena quando rideva. era una risata pura, che spazzava via ogni inquietudine. Il reverendo sperava che Dio avesse un grande piano per lei. Ma in quel momento aveva altro a cui pensare, doveva portare a termine il compito che l'angelo gli aveva affidato. Aveva passato la giornata intera a confessare i fedeli e a fare come se nulla fosse, attendendo di poter parlare con Viola la sera. Verso le otto aveva preso il nastro, lo aveva nascosto in una scatola per scarpe e l'aveva messa sul ripiano più alto dello scaffale che c'era nel suo ufficio, di fianco alla sagrestia. Poi era uscito e si era recato alla tavola calda, sapendo che l'avrebbe trovata li dopo le nove: Viola cenava sempre in quel posto finito il lavoro.
"Allora dimmi, come vanno le cose?" chiese il reverendo dopo essersi accomodato a sua volta su uno sgabello e aver ordinato una tazza di caffè.
"Potrebbe andare meglio2 rispose lei, sorseggiando la birra direttamente dalla bottiglia.
"Qualcosa ti turba?".
"Molte cose, per la verità".
"Se vuoi parlarne sai che con me puoi farlo, dopotutto sono il tuo confessore da quando eri bambina. Anche se credo che per te la fede in Dio sia qualcosa di sorpassato".
"Non sorpassato. Sopravvalutato. Ognuno ha bisogno di credere in qualcosa, ma io non sento il bisogno di credere in Dio. Ci sono molte altre cose che mi mantengono viva, più salutari".
"Vedo" disse il reverendo osservando sospettoso la lingua rossa che spuntava dalle labbra scrostate sulla maglietta di lei.
"La musica aiuta" disse lei in tono pratico, cercando di spostare la conversazione su qualcos'altro.
"Ad ogni modo, come va il lavoro?".
"Beh, non come vorrei. Ma non posso davvero parlarti di questo, Jackson. Sono legata anche io dal... Segreto professionale". Il vecchio reverendo rise
di gusto: trovava esilarante definire il suo obbligo al silenzio "segreto professionale". La sua non era una professione, era piuttosto una vocazione, ma lasciò perdere, sapendo che Viola aveva solo fatto una battuta. Era sempre pungente e questo gli piaceva. Però aveva bisogno di sapere di più. Doveva azzardare.
"E dimmi, come sta il figlio del vecchio Langstorm?". Viola rimase immobile con la bottiglia di birra a mezz'aria e voltò lentamente la testa verso il reverendo.
"Prego?" disse.
"Si, il figlio di Langstorm lo scrittore. Come sta Reginald?" disse il reverendo, pur sapendo che Viola non era stupida. Ma non sapeva cos'altro fare.
"Sta bene. Come al solito" rispose Viola, glaciale. Perchè il reverendo voleva sapere di Reginald proprio il giorno in cui era impazzito del tutto?
"Non è vero. E' successo qualcosa. A Reginald, intendo. non chiedermi come lo so, lo so e basta". Il reverendo sperò che la ragazza credesse che uno degli infermieri fosse andato da lui a confessarsi e gli avesse raccontato tutto. Non sarebbe stata la prima volta. L'angelo gli aveva detto che il suo compito riguardava un uomo ricoverato nella clinica della contea. Gli aveva detto chi era e lo aveva indotto ad informarsi. In realtà non sapeva nulla.
"Jackson, non so chi ti abbia raccontato di Langstorm, ma non ne posso parlare. Non posso davvero, mi spiace".
"Viola, quell'uomo è in pericolo, capisci? Il Male..." disse il reverendo.
"Il male non c'entra nulla" sbottò Viola, infastidita "L'aggressività non ha niente a che fare con il diavolo, Jackson. Quell'uiomo ha subito un trauma e quello che lo ha perseguitato in passato è tornato stanotte. Crollo psicotico, punto e basta. E ho già detto fin troppo, discussione chiusa". Viola non voleva aggredire così il reverendo ma aveva avuto una giornata dura. Si scusò e tornò a bere la birra in silenzio, giocando con la forchetta sulla carne. Non aveva più molta fame in quel momento.
'allora è questo che succede' pensò il reverendo 'In quel posto il Male ha trovato Langstorm'.
"Scusa, non volevo essere invadente. ora devo andare... Riguardati, Viola, ti vedo stanca".
"Non volevo essere aggressiva jackson. Ho solo avuto una brutta giornata, ti chiedo scusa".
Il reverendo lasciò Viola sola al bancone, con lo sguardo triste.

Viola era profondamente turbata: cosa voleva il reverendo? Mentre pensava a questo sentì una scossa alla schiena, leggera. 'Che diamine...?' pensò. I suoi pensieri furono interrotti dallo squillo del telefono cellulare. Rispose: "Pronto? Papà, ciao! Come? Stai scherzando? No, aspetta, vengo da te". Si alzò, con gli occhi pieni di lacrime, pensando alla sorte che era toccata a Pat Turner.

Nello stesso momento Jo Blonde si era alzato dal tavolo nell'angolo cui era seduto e aveva pagato il conto. quella sera era troppo stanco per accorgersi di Viola, che era rannicchiata sul piatto e sulla sua birra, nascosta, ma quando le passò vicino avvertì una scossa che gli percorse la spina dorale, ma la scambiò per un brivido. Non si voltò ma la sentì. il giorno dopo avrebbe provato quella sensazione amplificata cento volte, mentre parlava con lo sceriffo Gambon. Jo uscì dal locale proprio mentre Viola rispondeva al telefono.

Il giorno seguente il reverendo Jackson ricevette una nuova visita dell'angelo e gli disse quello che aveva scoperto.
"Molto bene, è come pensavo" disse l'angelo "Il Male vuole qualcosa da Langstorm, qualcosa che lo aiuterebbe a liberarsi. Finchè Langstorm rimane in quella clinica non ci sarà nulla da fare.Sai quello che devi fare". Si, Jackson lo sapeva. Stava per aiutare Dio a liberare West Coburn da qualcosa di orribile.
Era ormai tardo pomeriggio quando il reverendo Jackson salì sul pulmino della parrocchia e mise in moto. Dopo venti minuti era davanti alla clinica psichiatrica della contea. Sapeva che Viola quel giorno si era presa una vacanza. meglio, almeno non poteva sapere che lui era andato li. Comunicò che voleva dare conforto spirituale ad alcuni pazienti e chiese di Langstorm. Sulle prime il dottor Richardson non volle farlo passare, ma poi si chiese come avesse fatto il reverendo a sapere di Langstorm. Se qualcuno aveva parlato era meglio accontentare il reverendo, magari non avrebbe detto niente alla stampa, non che non si fidasse di quell'uomo, ma con il tempo aveva imparato a non fidarsi troppo delle persone. Lo fece passare e disse agli infermieri di farlo entrare, ma di perquisirlo prima. Non aveva niente di sospetto addosso. L'infermiere rimase di guardia alla porta e gli concesse cinque minuti. Al reverendo ne sarebbero bastati molti di meno.
Jackson entrò e vide Langstorm, emaciato e con lo sguardo perso nel vuoto, avvolto nella camicia di forza e seduto al centro della stanza, immobile.
"Ciao Reginald" disse.
"Il Signore è il mio pastore" replicò Reginald, con voce roca.
"Come?" domandò il reverendo. non si aspettava che Langstorm gli avrebbe parlato. Lo credeva catatonico.
"Dio disse ad Abramo: uccidi tuo figlio" continuò Langstorm.
"Reginald, perchè citi la Bibbia?".
"Lo sai qual'è la condizione peggiore di Lucifero?" disse Langstorm freddamente, alzandosi.
"No, io..." balbettò Jackson. Che stava succedendo?
"Era un angelo magnifico, ma questo lo sai. L'Astro del Mattino, la creatura più bella che Dio avesse creato. Ma lui voleva di più, voleva essere lui Dio, perchè si credeva migliore del suo fattore. Fu precipitato sulla terra e si incastrò nell'abisso infernale. Dante lo colloca al centro dell'Inferno, in un lago ghiacciato. Enorme, spaventoso e al buio. Imperatore di un regno che fa paura a tutti, il regno che tutti vorrebbero evitare" ora Langstorm era vicinissimo, la sua bocca era a un centimetro dal viso di Jackson.
"Ecco qual'è il brutto. L'essere più bello e puro trasformato in un mostro, reggitore di un luogo orribile, imprigionato nel buio. Mi ha trovato, reverendo. mi ha trovato e ora devo aiutarlo".
"Chi? Lucifero ti ha trovato?" chiese il reverendo.
"No. lucifero non esiste. Nemmeno Dio. ma chi mi ha trovato, Lui esiste" e detto questo Langstorm si inginocchiò. Il reverendo sapeva cosa doveva fare, ma stava iniziando a dubitare. Allora vide accanto a se l'angelo. Perchè non ci pensava lui? Ma la risposta era chiara: Dio voleva che fosse lui, Jackson Stenson, a farlo. Il reverendo aprì la Bibbia che portava in mano e sfilò il coltello che vi aveva nascosto. Non avevano guardato li dentro mentre l,o perquisivano, forse si fidavano. Tagliò i lacci della camicia di forza. aveva compiuto la sua missione. Langstorm lo colpì con tutta la forza che aveva in corpo e Jackson cadde a terra, poi l'aggressore gli prese il coltello di mano e iniziò a gridare.
Il reverendo vedeva tutto annebbiato e non riusciva ad alzarsi. aveva il naso rotto e gli girava la testa. sentiva langstorm gridare e poi udì la porta della cella aprirsi. Udì l'infermere che urlava mentre Langstorm lo accoltellava e scappava dalla sua stanza. ma si rese conto che non era una stanza , era una cella. E reginald l'aveva appena chiuso dentro. 'Cos'ho fatto?' si domandò.
Spaventato e confuso, si infilò la mano in tasca dove aveva mesos il nastro di Elle. L'aveva tolto dalla scatola dove l'aveva nascosto per portarlo con se e farsi coraggio; il nastro però non c'era. L'aveva perso?
"No, Tesoro2 disse una voce poco distante. Era Elle.
"Elle?" disse Jackson, incredulo "Elle che ci fai qui?".
"Ma io non sono qui. Io sono polvere, amore. Sono morta di un male orribile senza che nessuno potesse aiutarmi e il mio corpo è marcito in una bella cassa di legno
imbottita di velluto". jackson guardò la donna che aveva davanti e urlò: ora vedeva tutto chiaro. Ellle era vestita come il giorno in cui l'aveva seppellito, con un lungo abito nerpo ed era magrissima, più bassa e la sua pelle era marcia, come se fosse carta da parati ammuffita che si stava staccando. Gli occhi non c'erano più e al loro pòsto c'erano lunghi lombrichi che pasteggiavano con la carne rimasta nelle orbite svuotate; i denti erano affilati e non aveva le labbra, le dita erano storte e artigliate. Puzzava come si supponeva che dovesse puzzare la morte e il cranio era quasi esposto, la poca pelle che lo ricopriva scrostata e verdastra.Quella non era Elle.
"No. Ma sono molto di più" disse la non morta Elle e all'improvviso si controrse e cambiò forma. Davanti a lui ora c'era l'angelo.
"Visto, Jackson? Hai visto come è facile manipolare un uomo che ha fede? la fede, solo questo frega voi schifosi esseri Umani. Avete bisogno di credere a tutti i costi in qualcosa. Ti ho accontentato, pidocchioso bastardo. adesso dimmi, come ci si sente a scoprire che il tuo Dio non c'è e non può aiutarti?".
"Chi sei?" urlò disperato Jackson, urtando il muro con le spalle mentre indietreggiava.
"Non l'hai ancora capito?" disse l'angelo, che ora era tornato ad essere la Elle spaventosa di poco prima "Io sono tutto quello che tu hai sempre combattuto. Tra poco potrò uscire e dilagherò sulla Terra. Ego sum captivus. Ma ancora per poco".
"Buon Dio" mormorò il reverendo, cercando di non guardare quel mostro che aveva preso le sembianze della sua defunta moglie e che ora gli alitava in faccia a pochi centimetri di distanza.
"Dio non esiste, Jackson" disse Elle, con voce demoniaca ma fintamente soave "Io si".
Jackson urlò mentre Elle affondava la mano artigliata nel costato e gli frantumava le costole. era un dolore lancinante e percepì l'esatto momento in cui gli artigli gli spappolavano il cuore. 'Mi ha ingannato. Ho liberato un assassino, ho fatto il suo gioco. perdonami Elle'. ebbe il tempo di pensare solo questo, dopodichè, tra atroci dolori, si spense. poco dopo il dottor Richardson apprese della fuga sanguinaria di Reginald ed entrò nella cella. il reverendo era accasciato a terra e Richardson notò un piccolo squarcio sulla camicia nera, in corrispondenza del costato. Sulla pelle, in quel punto, c'era un taglio profondo che sanguinava. Il reverendo era morto.

Nella stanza buia la figura immobile sorrideva. Nell'aria si sentiva l'eco di una risata malvagia. Perchè aveva dovuto fare tutto quello al reverendo? la risposta era semplice: così era molto più divertente. ripensò al dolore dell'uomo nello scoprire di essere stato ingannato. gioiva nel pensare che era riuscito a togliere l'unica cosa che faceva andare avanti il reverendo. la Fede. Gliel'aveva restituita e poi l'aveva tolta di nuovo, prima di farlo morire. Voleva che sapesse che era solo. Solo e dimenticato. e ora il suo servo Langstorm era libero. 'Giochiamo. pedine pronte, Signore e Signori, dame e cavalieri, il giuoco inizia. Ci divertiremo un mondo!'. quelle parole pronunciate dalla voce demoniaca risuonarono nella stanza. 'Sangue e risa. sarà uno spasso'. La sagoma sussultò lievemente. Non vedeva l'ora. Ma la cosa che si nascondeva nel buio, che si nascondeva nel corpo immobile era scontenta: Lei viveva ancora. Ma c'era tempo. E lo Straniero non poteva salvarla ancora per molto.

mercoledì 7 luglio 2010

CAPITOLO 4- PRIGIONIERO


Viola Gambon se ne stava appollaiata sul divano, con un bicchiere pieno di the freddo in una mano e gli occhi rivolti verso il televisore, ma non lo stava guardando veramente. In realtà i suoi pensieri continuavano a tornare a quella mattina e alla visita forzata ai genitori di Pat Turner. Suo padre aveva voluto che ci fosse anche lei per due ragioni fondamentali: lei, come lo sceriffo, conosceva i genitori del ragazzo da molto tempo e poi un valido aiuto psicologico gli avrebbe certamente fatto comodo, del resto Viola era la migliore nel suo campo, era un'ottima ascoltatrice e aveva un talento naturale nel capire le persone, sapeva inquadrarle perfettamente nel giro di pochi secondi. Quando avevano suonato il campanello aveva sentito una stretta allo stomaco: quella volta non sarebbe stato come al solito e lo sapeva bene, era troppo coinvolta sentimentalmente in tutta la faccenda, anche se cercava di simulare un minimo di freddezza, cosa che le riusciva solo in parte. Lo sceriffo la guardava con la sua stessa espressione tesa: Viola aveva ricambiato lo sguardo di suo padre e lo aveva fissato con due paia di occhi identici; la porta della villetta si era aperta ed era comparso sulla soglia un uomo alto, sulla cinquantina, che indossava un paio di bermuda color kakhi e una t-shirt dello stesso colore, con al centro una stampa che riproduceva l'immagine dello Zio Sam in versione scheletro.
Quando James Turner aveva visto chi aveva suonato il campanello sbiancò in volto: era molto tempo che Viola non faceva visita a lui e Susan e Hannibal era in servizio in quel momento. Aveva capito subito che se si trovavano li non era per una visita di cortesia.
"Ciao James" aveva detto Gambon con voce grave.
"Hannibal" aveva replicato l'altro, con il respiro strozzato "Che è successo?".
Gambon aveva guardato di nuovo sua figlia e si era tolto il cappello a tesa larga che portava sempre calcato sul capo, poi aveva rivolto lo sguardo verso l'amico e aveva continuato: "Possiamo entrare?".
"Dio" aveva detto James, con gli occhi che si riempivano di lacrime "Si... si tratta di Pat?".
"Temo di si. Davvero, è meglio se ne parliamo dentro" aveva ribattuto Gambon.
Erano entrati e subito avevano notato una donna, ancora bella nonostante non fosse più così giovane, che era appoggiata contro il muro e si copriva il volto con le mani: Susan Turner doveva aver sentito la conversazione che suo marito aveva avuto con lo sceriffo.
"Cosa gli è successo?" aveva domandato tra le lacrime "Cos'ha fatto stavolta? Ha rubato un auto? Gli hanno spaccato la faccia?". Aveva quasi gridato. Gambon aveva provato una gran pena per Susan: stravedeva per Pat ma il ragazzo non faceva nulla per renderle la vita facile e si era sempre cacciato nei guai. Gambon aveva fatto sedere i Turner in salotto e aveva spiegato loro di come avevano trovato il pick up incidentato sulla strada e quando arrivò al punto in cui avevano trovato il corpo di loro figlio nel bosco non riuscì a continuare.
"Ma lui dov'è, Hannibal? Dov'è mio figlio?" chiese James, anche se aveva ormai intuito tutto. Gambon non rispose: non sapeva perchè, ma non riusciva a dirlo.
"James" intervenne Viola e puntò sull'uomo i suoi occhi meravigliosi, che ora brillavano di lacrime "Pat ha avuto un brutto incidente. Era..." e qui aveva esitato. Avrebbe dovuto dirgli che era completamente ubriaco e probabilmente impasticcato al momento dello schianto?
"Non ce l'ha fatta" aveva concluso, rapidamente. Una lacrima era scesa a rigargli il volto: anche in quel momento era stupenda e anzi sembrava essere ancora più bella del solito. James si era afflosciato sul divano, con lo sguardo perso nel vuoto, Susan invece aveva avuto una reazione completamente diversa: con uno strillo acuto si era gettata tra le braccia di Viola e si era abbandonata ad un pianto dirotto. Viola l'aveva abbracciata e le aveva sussurrato all'orecchio di sfogarsi, di buttare tutto fuori; la ragazza aveva chiuso gli occhi e aveva stretto la donna amorevolmente, passandole piano la mano sulla spalla per farle coraggio. Gambon aveva osservato la scena e non aveva potuto fare a meno di notare la smorfia di dolore che era passata sul volto di sua figlia: le labbra erano arricciate e contratte, mentre gli occhi erano chiusi, le narici leggermente dilatate. Lo sceriffo sapeva quanto Viola stesse soffrendo in quel momento, ma non l'avrebbe vista piangere a dirotto come aveva fatto Susan Turner.
Mentre ripensava a quella mattina viola provò una fitta di dolore al petto: era stata dai Turner per ore, per cercare di aiutarli a superare il primo momento di smarrimento. James era un uomo forte e si sarebbe ripreso, ma Susan... lei non aveva mai voluto accettare il fatto che suo figlio non fosse il bravo ragazzo che aveva sempre creduto e, a differenza di James, non si sarebbe mai aspettata di sentirsi dire che era morto. Temeva che la donna avrebbe avuto un crollo nervoso, così aveva deciso che l'avrebbe seguita giornalmente a casa, per aiutarla a mettersi il cuore in pace, ma non sarebbe stato facile: la morte di un figlio era un trauma che molti non riuscivano a superare nemmeno nel corso di anni e anni.
Sorseggiò il the e appoggiò il bicchiere sul tavolino accanto al divano, poi si rannicchiò ancora di più. Non avrebbe potuto essere più bella che in quel momento: indossava una canottiera attillata con una scollatura che metteva in evidenza la rotondità perfetta dei seni e un paio di shorts bianchi, cosi che si potevano notare le lunghe gambe nude dalle cosce tornite; i capelli neri e lunghi le ricadevano sul petto e così rannicchiata era terribilmente sensuale. Si sentiva incredibilmente triste e aveva anche pianto parecchio, una volta tornata a casa: era molto che non i sentiva con Pat Turner, ma con tutto quello che c'era stato tra loro non poteva non sentirsi distrutta. Guardò l'ora: le nove e mezza di sera. si alzò e andò in camera da letto; dopo cinque minuti ne uscì con indosso una maglia color panna con il collo molle che ricadeva sul davanti, allargandosi a scoprire la scollatura e un paio di jeans, poi si mise la matita sugli occhi, rendendoli ancora più straordinari di quanto già non fossero, afferrò la borsa e uscì di casa. In pochi minuti fu in centro e iniziò a passeggiare, sperando di riuscire a distrarsi.

Cartbury non era più nel bosco, ma ormai si era fatta sera. Il suo amico era sempre accanto a lui e ogni tanto uno schizzo di sangue dall'occhio devastato gli macchiava la polo, che era ormai tutta incrostata da macchie scure e rapprese.
"Cosa ci facciamo qui?" chiese Cartbury con il solito sorriso ebete.
"Dev fare una cosa. Lui vuole che lei la faccia" rispose l'altro.
"Se lo chiede Lui allora lo faccio".
"Non è una cosa bella, agente. Ma va fatta" continuò l'uomo senza occhio.
"Nessun problema. Non ci sono problemi" rispose Cartbury.
"Molto bene. Molto molto bene. Ce l'ha ancora la pistola, agente?".
"Certo" disse Cartbury tirando fuori dalla tasca la Glock.
"Eccellente. Adesso entri e la usi".
"Va bene. se Lui vuole così, lo faccio".
"Bene, agente. Molto bene". Cartbury sfondò la porta della casetta davanti a cui si trovava ed entrò.

Jo era nella tavola calda di Spike. Per tutto il giorno non era riuscito a pensare ad altro che Viola Gambon: era rimasto letteralmente stregato da quella ragazza. era la cosa più bella che avesse mai visto e sentiva ancora il suo profumo nelle narici se respirava a fondo. Sorseggiò il suo caffè con noncuranza e ordinò un piatto di patatine fritte. Si chiedeva se sarebbe mai riuscito a conoscerla meglio, non gli sarebbe affatto dispiaciuto
(A lei si però)
Questo pensiero lo attraversò come un proiettile: con quale coraggio poteva pensare che Viola si sarebbe interessata a uno come lui? Era stato un uomo orribile, anche se ora era cambiato. 'Il passato non si cancella' pensò 'Puoi far finta che niente sia accadto, puoi credere di aver cambiato vita e di essere una persona migliore, forse, ma le cose non cambiano'. E ora era li che no riusciva a togliersi dalla testa quegli occhi così belli. Quando era tornato a casa quella mattina si era buttato in doccia e poi si era appisolato sul divano; naturalmente aveva sognato lei: era lì, nell'oscurità densissima che lo fissava, la pelle bianca e i capelli neri che si confondevano con l'oscurità alle sue spalle. Ricordava che nel sogno aveva fissato a lungo il suo viso: le sue ciglia lunghe e gli occhi come gocce orizzontali, il naso lentigginoso, stupendo, e quelle labbra così morbide. Ma qualcosa non andava: nel buio dietro di lei c'era qualcosa, una sagoma più chiara che si avvicinava e in mano aveva una pistola. Jo le aveva urlato di scappare, ma lei lo aveva guardato socchiudendo gli occhi e arricciando le labbra: lo stesso sguardo desideroso che le aveva visto poche ore prima mentre se ne andava con lo sceriffo dalla tavola calda. Mentre cercava di spostarla, di sottrarla alle grinfie dell'uomo con la pistola si era svegliato. non sapeva dire cosa significasse quel sogno, ma certo era strano: si sarebbe aspettato di sognare qualcosa di diverso, visto il desiderio irrefrenabile che provava per lei. 'Ti si è fottuto il cervello' pensò 'Nemmeno la conosci e ti comporti come un ragazzino innamorato. Patetico'.
Mentre pensava questo la porta della tavola calda si aprì e lui rischiò di strozzarsi con il caffè che stava bevendo: come una visione inaspettata era apparsa sulla soglia quella che nelle ultime ore era diventata la sua ossessione: Viola era lì, ancora più bella rispetto a quando l'aveva vista quella mattina.
lei lo notò subito e gli fece un cenno di saluto, poi a passo spedito si diresse verso il suo tavolo. "Posso?" chiese.
(Assolutamente si!)
"Ciao viola" disse lui, cercando di darsi un contegno "Prego".
"Dobbiamo smetterla di incontrarci così" disse lei allegra mentre si accomodava.
"Scusa?" disse lui, sopreso.
"Citazione da un film, non ricordo quale, ma la frase è perfetta per la situazione. Ti incontro una volta alla tavola calda di Spike e speravo di rivederti. E dove ti trovo? Di nuovo qui" rispose lei, sicura.
'Speravo di rivederti?'. Il cuore di Jo aveva aumentato i battiti.
"Beh anch'io speravo di rivederti. Ed eccoci qua".
"Già" disse lei, con una lieve nota di imbarazzo nella voce.
La cameriera arrivò con il piatto di patatine fritte. "Prendine pure" disse Jo.
"Grazie" rispose lei. Parlarono a lungo e Jo pensò che non c'era nessun altro posto in cui sarebbe voluto essere: stava bene con lei, adorava guardarla mentre parlava del suo lavoro con i ragazzi, adorava sentirla dire qualunque cosa perchè aveva una voce calda e sensuale. Constatò che era brillante e si poteva parlare di tutto con lei, visto che era anche dannatamente intelligente e sveglia. Per tutto il tempo in cui rimasero seduti a parlare lei non gli staccò gli occhi di dosso e lo guardava intensamente e di tanto in tanto le labbra si allargavano in quel sorriso spostato verso destra che Jo trovava irresistibile. C'era un che di cinico in lei, affrontava qualunque argomento con un'ironia sottile e tagliente che lo faceva impazzire. 'Come fa ad essere tanto perfetta?' pensò. Eppure notava che c'era qualcosa a turbarla: i suoi occhi meravigliosi erano leggermente velati dalla preoccupazione, ma forse era solo un'idea di Jo. Dopo un po' lei guardò l'orologio e disse:"Già mezzanotte. Dovrei andare".
"Ti accompagno" disse lui pronto.
('Che stai facendo? Non sei pronto ancora')
Ignorò quel pensiero. Viola Gambon ormai lo aveva rapito e a lui non dispiaceva affatto. Erano mesi che non si sentiva così vivo. 'Cancella tutto' pensò 'Non mi ero mai sentito così vivo'.
Uscirono dalla tavola calda e si avviarono. Mentre camminavano Jo disse, quasi senza pensare: "Ho sentito che hanno trovato un ragazzo morto nel bosco. Ne stava parlando spike con un tizio prima che tu arrivassi".
"Pat" disse, con la voce tremante "Lui era...". Ma qui si bloccò e Jo capì di avere toccato il tasto sbagliato. Le mise timidamente una mano sulla spalla e si scusò.
"Non devi scusarti" disse lei, con una lacrima che pendeva dalle ciglia lunghissime "Non ne ho parlato con nessuno. Nemmeno con mio padre... Voglio dire, lui sa come sto, ma non mi andava di parlare. Ma con te è diverso".
"Perchè sarebbe diverso?" chiese Jo.
"detesto farmi vedere in queste condizioni. Non voglio che nessuno mi veda così. Ma tu" e gli passò un indice sul mento "tu sei diverso. hai questi occhi così tristi, sofferenti. Io e Pat Turner eravamo fidanzati, anni fa. Credo che sia uno dei pochi che sia riuscita ad amare... veramente". Jo era sbalordito: la conosceva solo da poche ore e lei gli stava raccontando una cosa tanto personale. Si sentiva a disagio.
"Scusa, non volevo" disse lei, accorgendosi della sua perplessità.
"No, continua. Solo non mi aspettavo che ti andasse di parlarmene".
"Non lo credevo nemmeno io. c'è qualcosa in te che... Ad ogni modo io e Pat siamo stati insieme per due anni. Io ero più grande di lui di tre anni, ma non mi importava. era un ragazzo difficile, ribelle e questo mi faceva impazzire. Andava sempre in giro con altri due: Preston e Peter, tra di loro si chiamavano scherzosamente 'Le tre P'". Ora aveva il volto rigato dalle lacrime. Jo la ascoltava in silenzio, tenendole la mano mentre camminavano.
"Un giorno di pochi anni fa erano tutti e tre sul furgoncino di Peter, che era alla guida ubriaco. Accosto il furgoncino proprio al limite del burrone per andare a vomitare, non si sentiva bene. Pat e Preston erano troppo bevuti per poter anche solo pensare di mettersi alla guida. Peter scese e non mise il freno a mano. Fu questione di pochi secondi e si ritrovarono in acqua, dentro al mezzo. pat era terrorizzato e cercò subito di uscire, ma Preston era incastrato tra i due sedile e aveva battuto la testa, svenendo. Pat aspettò che tutto l'abitacolo fosse sommerso prima di mettersi in salvo e lasciare Preston a morire. Ma non aveva scelta, capisci?". Jo annuì in silenzio.
"Ma Pat non si perdonò mai. Mai. Incominciò a bere per davvero e divenne alcoolizzato, si devastava con la droga e pian piano divenne un poco di buono. Non mi volle più vedere perchè odiava quello che aveva fatto e cos'era diventato. Un relitto. E ora è morto".
Jo la abbracciò e lei ricambiò, stringendolo forte tra le braccia. Jo credette di stare per morire: il cuore gli stava per scoppiare e sentiva il volto caldo di lei premuto contro la spalla.
"Mi dispiace" disse lui "E' terribile, ma devi andare avanti". 'Grazie tante genio' pensò mentre parlava 'Potevi trovare qualcosa di meglio da dirle'.
Era incredibile la confidenza che avevano già lui e Viola dopo poche ore che si erano conosciuti. C'era qualcosa in quella ragazza che la rendeva diversa dalle altre, come se nel destino di Jo ci fosse sempre stato scritto che si sarebbero incontrati. 'Idea assurda' pensò lui.
Camminarono ancora un po' e davanti a loro si parò un uomo molto basso, con un pizzetto a punta e un paio di ridicoli occhiali da sole. "Viola" disse.
"Stu" replicò lei, quasi disgustata.
"Perchè non molli mister tristezza, qui " e indicò sprezzante Jo "e vieni a farti una birra con me? Dopo Andiamo a casa mia e ti faccio vedere una cosina che ho imparato...".
"Mi piacerebbe davvero tanto, Stu" disse lei con voce falsamente dispiaciuta "Ma poi non vorrei che Biancaneve si ingelosisse. Dove sono gli altri sei?".
Stu divenne paonazzo e se ne andò spintonando Jo, che era alto quasi il doppio.
"Quello chi era?" chiese.
"Un idiota, non farci caso. in questo posto ci provano tutti, dal primo all'ultimo. Non mi danno mai tregua". Jo poteva capire il perchè.
arrivarono davanti alla chiesa e Viola assottiglio le palpebre dietro agli occhiali: cos'era quella cosa davanti al portone? Jo guardò nella stessa direzione e istintivamente le mise una mano a coprirle il volto e la voltò, stringendola forte a se.
"Jo che ti prende?" chiese lei più che sorpresa.
"Non guardare" disse lui inorridito "Non voglio che guardi".
"ma perchè? Cosa..." cercò di chiedere lei, ma Jo la strinse più forte di prima.
"Chiama tuo padre mentre vado a vedere".
Viola ancora non capiva, ma di certo non aveva intenzione di dare ascolto a Jo: lo seguì a passo spedito e più si avvicinava, più capiva la reazione dell'altro. Quando fu più vicina vide Jo che si voltava disgustato e correva verso la siepe più vicina: vomitò tutto quello che aveva mangiato alla tavola calda. Viola si avvicinò al portone e i suoi occhi si spalancarono, inorriditi e scintillanti. Le sue labbra morbide si stirarono in una smorfia di disgusto e il naso lentigginoso ebbe un fremito quando fu raggiunto dalla puzza di mattatoio. Davanti alla ragazza si presentava uno spettacolo spaventoso: un vecchio, probabilmente un barbone, a giudicare dagli stracci consunti che indossava, giaceva inchiodato al portone di legno, come una grottesca imitazione del Cristo in croce. Il volto esangue era bianco e orribilmente sfregiato, come se ci avessero passato ripetutamente sopra una lama e la folta barba grigia era intrisa di sangue raggrumato; gli occhi castani erano sbarrati e vi si poteva leggere un cieco terrore congelato per sempre al loro interno. Era a torso nudo e oltre alla spaventosa magrezza, Viola notò le ferite tremende che aveva sul petto e si sforzò di non vomitare; i piedi non erano stati inchiodati e il peso del corpo stava spezzando i polsi in cui erano conficcati i chiodi, che si erano già incominciati a torcere, così che le ferite procurate dal metallo sanguinavano copiosamente e si allargavano sempre di più, lacerando la carne e i tendini che affioravano come sottili corde di chitarra. Le gambe magrissime erano coperte da un paio di pantaloni stracciati e dai buchi nel tessuto si intravedeva la pelle biancastra. Viola era inorridita e mentre guardava lo spettacolo impressionante fu raggiunta da Jo, che nel frattempo si era ripreso.
"Perchè hai guardato?" le chiese.
"Chi sei, mio padre?" disse lei cercando di scherzare, ma sentiva che avrebbe vomitato anche lei "E' spaventoso. Chi può...?" ma non finì la frase perchè dovette voltarsi per non sentire l'odore del sangue. Ce n'era tantissimo, sul portone, sul corpo del vecchio e sui muri, addirittura si era formata una gigantesca pozzanghera proprio sotto al cadavere. Poi Jo alzò lo sguardo e vide una cosa che non aveva notato prima, anche se era evidente: sopra l'arcata descritta dal portone, sul muro candido, c'era una scritta fatta con il sangue che diceva: EGO SUM CAPTIVUS.
La calligrafia era storta e appuntita e questo si notava anche se il liquido era colato, rendendola ancora più grottesca. Jo rimase perplesso: era ancora sconvolto e doveva pensare a Viola, ma non potè fare a meno di sentirsi sorpreso, visto che la scritta era in latino. Viola era ancora lì con l'espressione sconvolta, così Jo si fece dare da lei il numero dello sceriffo e gli spiegò la situazione. Dopo mezz'ora Gambon era sul posto e subito abbracciò la figlia, cercando di tranquillizzarla. Jo notò che Viola era diventata silenziosa e la sua pelle era più bianca del solito, gli occhi spaventati e le labbra che di tanto in tanto tremavano. Le passò un dito sul naso, non seppe perchè, ma la sentì rabbrividire di piacere: "Non preoccuparti" le disse sussurrandole all'orecchio "Adesso ti porto a casa". Lei annuì, ma era ancora tesa. Lo sceriffo domandò a Jo come avessero fatto a trovare il corpo e lui spiegò che avevano semplicemente visto il corpo inchiodato ai battenti.
"Non ho mai visto una cosa del genere qui a West Coburn. Mai" disse Gambon.
"Io non credevo che avrei mai visto niente di simile. Ho vomitato davanti a sua figlia" disse Jo cercando di sdrammatizzare.
"Non credo che ti giudicherà per questo. Sto avendo qualche problema anche io a tenere la cena nello stomaco. E il mio secondo ancora non si è visto" replicò Gambon, pensando con ansia a Cartbury che ancora non si era fatto vivo.
"Capisco" disse Jo "C'è qualcosa che posso fare per aiutarla?".
"Ho chiamato altri agenti e la scientifica sarà qui domattina. Potete andare e ti prego di assicurarti che lei stia bene prima di lasciarla sola" disse Gambon accennando a Viola.
"Con me è al sicuro" affermò Jo.
"Lo spero" disse Gambon, guardandolo sospettoso. Jo cinse Viola con un braccio e si diressero verso casa.
"Un momento" li fermò Gambon "Una cosa che puoi dirmi ci sarebbe, Jo".
"Mi dica sceriffo".
"Tu sei un insegnante, giusto?" Non è che per caso..."
"Io sono prigioniero" disse Jo.
"Prego?" domandò Gambon confuso.
"Avrei dovuto dirglielo prima, sceriffo, mi scusi. E' la scritta: è latino e significa 'io sono prigioniero'".
"Grazie" replicò Gambon. A chi sarebbe mai venuto in mente di fare uno scempio simile? e chi avrebbe potuto saper scrivere in latino in quel posto? Naturalmente l'assassino poteva benissimo aver copiato la frase da qualche libro senza sapere bene cosa significasse. Ad ogni modo Gambon era semplicemente sconvolto: era il secondo cadavere che rinveniva in pochi giorni, ma questo era stato palesemente massacrato. Si avvicinò ancora di più al corpo e osservò le ferite al petto. Sgranò gli occhi.
"Jo!" urlò "Vieni presto!". Jo sciolse Viola dall'abbraccio e si diresse verso il vecchio sceriffo.
"Che succede?" domandò.
"Le ferite sul petto. Mi spiace, non posso lasciarti andare".
"Come?" chiese Jo, confuso.
"Le ferite" ripetè Gambon, gravemente.
Jo le osservò e capì: non erano semplici tagli. Qualcuno aveva inciso una frase con una lama, scrivendola in corsivo sottile. non l'aveva notata prima perchè era lontano e dalla ferita era sgorgato molto sangue, ma ora che era a pochi centimetri leggeva chiaramente: 'Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo ci cade dentro'.
"Sono le parole che hai detto stamattina, Jo" disse lentamente Gambon.
"Cosa vuole dirmi? Sono sospettato?" trasalì Jo.
"Non posso escludere nulla. Sei appena arrivato in città e trovo un cadavere orrendamente sfigurato che riporta sul petto la frase che ti ho sentito mormorare alla tavola calda. Cosa dovrei pensare? tutto è possibile. Mi dispiace ma devo dichiararti in arresto".
"Questo è ridicolo!" sbottò Viola "E' stato con me tutta la sera e a occhio e croce quell'uomo è stato ammazzato un paio di ore fa".
"Come fai a dirlo?".
"Ho studiato medicina di base papà, ricordi? Le ferite sono troppo fresche, te lo confermerà il medico legale".
"Lo tratterrò in centrale fino a che non avremo stabilito l'ora del decesso".
"Non puoi farlo!" disse Viola, furente. Jo vedeva la rabbia nei suoi occhi straordinari e pensò che non esisteva niente di più bello e puro di Viola Gambon.
"Sono io lo sceriffo e dico che lo terrò in custodia fino a domani". Viola stava per ribattere ma il suo telefono cellulare squillò.
"Pronto?" disse. Rimase in silenzio e le labbra si incresparono "Come? Quasndo? Sono con mio padre, glielo riferisco subito". Viola riattaccò.
"Che è successo?" domandò Gambon.
"Puoi lasciarlo andare, papaà" disse indicando Jo "Era il dottor Hoffman. Mi ha chiamato per dirmi che il paziente di cui ti ho parlato stamattina, quello che ha cercato di strangolare un infermiere è scappato qualche ora fa. Hanno trovato due infermieri morti in uno sgabuzzino, li ha uccisi per fuggire. Jo conosceva quella frase, è vero, ma la conosceva anche quell'uomo. E' stato lui, ne sono certa: tra le tante cose assurde che blaterava aveva detto qualcosa riguardo ad un prigioniero. Ora ricordo" era come se le si fosse accesa una lampadina in testa.
"Dici sul serio?" disse Gambon.
"Assolutamente si".
"D'accordo, allora riportala a casa, Jo. ma non lasciare West Coburn per nessun motivo". Jo non si sarebbe allontanato da Viola per niente al mondo, per cui annuì.
"Come si chiama il paziente, Viola?" chiese Gambon.
"Langstorm" rispose lei "Reginald Langstorm".
"Come?" sussultò Jo "E' per caso...".
"Il figlio di peter Langstorm. Si" concluse per lui Gambon.
'Brutta storia' pensò Jo. poi, dopo essersi assicurato che Gambon non sopsettava di lui, accompagnò Viola a casa.

Cartbury sedeva al buio. Il suo amico guardava dritto davanti a se e non parlava. Erano entrati nella casa ma non c'era nessuno, così stavano aspettando e Cartbury stringeva saldamente la Glock, in attesa di usarla.
"Tra poco sarà qui. E' meglio se non sbaglia, agente" disse l'uomo con l'occhio ferito.
"La mia mira è buona, lo sai" ridacchiò Cartbury.
"Lo so" disse l'altro e il foro nell'occhio pulsò leggermente, colando pus giallastro che andò ad aggiungersi alla collezione di macchie sulla polo.
"Non te l'ho mai chiesto" disse Cartbury "Ma ti fa male?" e indicò la ferita.
"No. Io non provo dolore, agente. Sono immune a ogni emozione umana, eccetto una".
"Quale?".
"La più forte".
"L'amore?" domandò Cartbury con voce strascicata.
"L'odio". Cartbury annuì ma non disse altro: aveva sentito un rumore di voci all'esterno.
"E' ora, agente. Non sbagli".
"Io non sbaglio mai" replicò Cartbury e si mise in piedi davanti alla porta, con la pistola puntata all'altezza dello spioncino.

Jo era davanti alla casa di Viola e stava per farla entrare, quando notò che la porta era stata sfondata e ora era solo socchiusa. Le fece cenno di stare indietro, ma quando fece per toccare il pomello accadde una cosa strana: sentì una voce contraffatta nella sua testa che mormorava ossessivamente: "Non farlo! Non colpire lo straniero, vattene! Vattene!". prima che potesse capire da dove venisse la voce spalancò la porta e vide un giovane in piedi, con lo sguardo fisso e una pistola in mano. 'Spara a lei! Spara a lei!' gridava la voce.
"No!" urlò Jo e come se sapesse che a lui il giovane non avrebbe sparato, gli saltò addossò e lo disarmò con estrema facilità. Viola entrò e vide Cartbury con gli occhi sbarrati e biancastri.
"Cartbury?" disse perplessa.
Cartbury gridò: "Viola! devo sparare a Viola! Viola!". Era come impazzito.
viola era sbigottita: voleva ucciderla? Jo prese dalla cintira del ragazzo le manette che portava appese e lo immobilizzò. Cartbury sollevò lo sguardo e vide l'uomo senza occhio che lo guardava inferocito: "fallire non è contemplato, agente. ha esitato perchè voleva vedere lo Straniero. Non ha sparato a lei perchpè era troppo occupato a guardarlo. E' stato curioso agente".
"I curiosi" mormorò Cartbury, con stupore di Jo "Sono stolti".
"E lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo ci cade dentro!" strepitò l'altro. Ma nessuno lo poteva vedere, solo cartbury. L'agente gridò di terrore e Jo e Viola non capirono perchè. cartbury sentì a malapena i denti dell'uomo senza occhio che affondavano nel suo collo e gli strappavano la testa.
Quello che però Jo e Viola videro fu il giovane che gridava e contorceva il collo, come se glielo stessero azzannando. L'urlo fui atroce, po, improvvisamente, espirò con violenza, sputando sangue e rimase fermo immobile. Era morto.

Nella stanza buia la persona sdraiata immobile aveva gli occhi fissi. Non emetteva nessun suono ma era furente, assolutamente furente. Quella notte il bosco avrebbe tremato per la sua ira. 'Non posso perdere tempo' si sentì mormorare e questa volta era una voce tremenda. Se il male avesse avuto una voce, sarebbe stata certamente quella. 'Gli stolti cadranno tutti nel pozzo. D'ora in poi la pietà è bandita. Straniero, Amore mio, presto ti avrò. E tutto il mio dolore finirà. Ego sum captivus. Ancora per poco'.

Gambon ricevette la telefonata di Viola poco dopo che lei e Jo avevano incontrato Cartbury. lo sceriffo era allibito. Cartbury aveva tentato di ucciderla? per quale motivo? Mentre pensava a tutto questo avvertì un rumore alle sue spalle e si voltò: davanti a lui c'era un uomo coperto di sangue. Era il figlio di Langstorm. si inginocchiò e disse a Gambon: "Sono stato io. Ora voglio andare dove vanno quelli come me".
"Sarai accontentato" disse Gambon, ammanettandolo. Mentre lo caricava in macchina avrebbe giurato che Reginald Langstorm stesse sorridendo, ma era ancora troppo sconvolto a causa della morte inspiegabile di Cartbury per capire se era stata solo una sua impressione oppure no, comunque non aveva importanza. 'Portami lì. Portamici e farò iniziare il secondo atto' pensò Reginald. Ma Gambon non notò la luce diabolica nei suoi occhi.