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giovedì 6 gennaio 2011

CAPITOLO 7- TEMPUS FUGIT


Mikaela si trovava in una chiesa buia. Dalle finestre ad arco con i vetri a mosaico ogni tanto faceva capolino un lampo di luce che illuminava tutto a giorno: fuori c'era un temporale spaventoso, poteva sentire il rimbombo dei tuoni. Non aveva idea di come fosse arrivata lì, ma sentiva che c'era un motivo ben preciso; non si era nemmeno accorta di essere nuda, ma in quel momento non le sarebbe importato minimamente. Si sentiva come attratta da una forza che non riusciva a identificare, ma la percepiva chiaramente: sembrava venire da dietro l'altare. Attraversò il corridoio che si apriva tra le file di panche non facendo caso al marmo freddo che aveva sotto ai piedi scalzi, non sentiva freddo, anzi era come se sulla sua pelle ci fosse qualcosa di caldo che la proteggeva. Un lampo le illuminò gli occhi color nocciola, che in quel momento erano fissi e intenti a scrutare qualcosa nell'ombra,qualcosa di troppo nascosto nel buio fitto per poter essere realmente visto. I capelli lunghi e mossi le cadevano morbidamente sulle spalle, scuri e profumati, il suo corpo era sinuoso, la pelle morbida e pallida e i lampi creavano un gioco di luci e ombre che valorizzavano ogni curva, da quelle morbide e sode dei seni ai fianchi: era di una bellezza sconvolgente, sinuosa e sensuale, soprattutto con quell'espressione assorta e preoccupata che aveva in volto, involontariamente tenera e spaurita. Le sue gambe si muovevano come se non fosse lei a volerlo e nella mente covava un solo morboso pensiero: raggiungere l'altare, che sembrava distante chilometri. In effetti la chiesa era molto più lunga del solito e gli sembrava di stare camminando da ore, ma non voleva cedere, o piuttosto non poteva. Nelle orecchie sentiva come un ronzio, forse una voce lontana e molto confusa che aumentava mano a mano che si avvicinava alla navata. Ancora pochi passi e sarebbe arrivata dove voleva arrivare, senza badare al frastuono del temporale e ai lampi che a tratti la illuminavano in tutta la sua bellezza sincera. Il suo piede destro tocco il primo dei tre gradini coperti da un tappeto grigio: era arrivata alla meta. Salì gli scalini e oltrepassò l'altare, dietro al quale c'era come un muro d'ombra, impenetrabile e carico di un'energia spaventosa, malvagia. quando vi fu davanti il buio venne squarciato da un sottile cono di luce che illuminava qualcosa: Mikaela pensò che era ovvio. Nuda com'era, bella e pura, allungò una mano dalle unghie lunghe verso l'oggetto, conscia che poteva rivelarsi un grave errore, ma in fondo si trattava di qualcosa di sacro: quello che aveva davanti era un crocifisso gigantesco, di legno nero come la pece, forse ebano. Il ronzio che aveva nelle orecchie ora era un frastuono assordante e sentiva quasi il bisogno di tapparsi le orecchie con tutta la forza che aveva nelle dita, ma resistette. Il crocifisso sembrava permeato da un'aura magnetica di cui Mikaela avvertiva quasi la forza: allungò la mano, desiderando di poterlo toccare. Quando la punta del suo indice era a pochissimi millimetri dal legno il ronzio cessò e lasciò posto ad una voce sibilante: era agghiacciante, non aveva niente di umano e si stava rivolgendo a lei. "Vieni a me... Vieni a me, coraggio".
La ragazza si sentiva attratta da quella forza soprannaturale ma ne aveva anche una gran paura: cosa sarebbe successo se avesse toccato il crocifisso? Ma soprattutto non capiva perchè ne fosse tanto ossessionata, proprio lei che non aveva mai creduto, che non aveva mai avuto fede in Dio. "Ma io non sono Dio, Mikaela" disse la voce cupa e demoniaca nella sua testa "Io sono molto, molto di più". Fu un istante: con un gesto fulmineo la ragazza appoggiò una mano sul legno nero e sussultò: era freddo come la morte, liscio come il vetro e lo sentiva quasi vibrare sotto alla pelle. Ebbe appena il tempo di registrare queste sensazioni e poi si sentì attraversare da una scossa: ogni centimetro del suo corpo soffriva, voleva urlare ma non poteva farlo, aveva la giola come paralizzata. Non respirava. Il suo corpo nudo ebbe uno spasmo e venne scaraventato all'indietro, mentre il crocifisso si spezzava con uno schianto; era rimasto in piedi solo un pezzo del tronco e nel punto in cui si era spezzato scaturiva una luce azzurra che emanava un freddo spettrale. Ora la voce risuono in tutta la chiesa, mentre i lampi illuminavano tutto dalle finestre. "Adesso lo capisci, Mikaela?" disse la voce "Capisci che sei curiosa? I curiosi sono stolti, Mikaela. E lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo...".
"Ci cade dentro!" strillò Mikaela in preda ad un dolore lancinante che non capiva da dove venisse. Riuscì a puntare lo sguardo sul crocifisso anche se era accasciata al suolo e lo vide: un fumo sottilissimo, come quello che viene sprigionato dal ghiaccio, scaturiva lentamente dal legno e si muoveva sinuosamente. Mikaela non poteva crederci ma lo aveva davanti a sè: il fumo si stava disponendo a formare una sagoma e quando si fermò, la ragazza si ritrovò a guardare un essere spaventoso. Era completamente costituito da quel fumo sottile ma i lineamenti e le forme erano inconfondibili: era alto e ammantato, con i capelli lunghi e un paio di occhi fissi, un viso allungato e la bocca aperta munita di zanne, le mani armate con artigli lunghissimi. "Vedi Mikaela" disse la figura avvicinandosi "Tu adesso mi vedi così, ma questo non sono io. E' così che tu ti sei sempre immaginata il male, credo. Mi è più comodo mostrarmi così, ma vedi... io posso essere anche tante altre cose". Si chinò sulla ragazza e la toccò: era ghiacciato e Mikaela sussultò.
"Chi sei?" sussurrò la ragazza, terrorizzata. La figura di fumo la guardò con quegli occhi fissi e punto lo sguardo in quelli di lei: erano a dir poco meravigliosi, scuri ma intensi, con quel taglio splendido.
"Io" disse lo sconosciuto "Sono quello che tormenta i tuoi sogni. Quello che sta per tormentare la veglia di tutti voi. Io sono il Male, ragazza. Sei molto bella, ma ho imparato una cosa sulla bellezza umana: è effimera!" e con un gridò abbassò violentemente gli artigli sul corpo inerme di Mikaela. La ragazza si svegliò con un urlo. Era stesa sul divano e ci mise qualche secondo per realizzare cosa fosse successo.Si alzò a sedere: aveva la fronte imperlata di sudore e qualche ciocca di capelli appiccicata alla pelle; si ricompose e cercò di realizzare cosa fosse appena successo. Ricordava solo che si era stesa sul divano e all'improvviso si era ritrovata in quella chiesa. Aveva sognato, ovvio, ma le era parso tutto così dannatamente reale, poteva ancora sentire quella sensazione di terrore cieco che l'aveva immobilizzata. E poi l'uomo di fumo, quello lo aveva ben presente: aveva l'aspetto di un uomo che tempo prima l'aveva spaventata a morte. era un amico di suo padre, un collega di lavoro. Da parecchio tempo ogni volta che la vedeva si comportava in maniera fin troppo gentile, se la trovava a camminare per strada si offriva volentieri di darle un passaggio. Mai avrebbe pensato che fosse uno schifoso bastardo, se ne accorse solo quando un giorno invece di portarla a casa la condusse in un capanno vicino al bosco. Quando capì cosa stava per succedere era già bloccata nella sua stretta: l'aveva portata dentro al capanno e l'aveva sbattuta contro il tavolo. lei urlava ma lui aveva un coltello e non poteva fare nulla, si sentiva impotente, inerme. Proprio quando lui stava per sfilarsi la cintura era successo qualcosa: lo aveva visto sgranare gli occhi e indietreggiare, tenendosi il braccio sbavando. Dopo pochi secondi era crollato per terra. Era scappata ed era tornata in città, sotto shock: ci erano voluti mesi perchè riuscisse a uscire di casa senza sentirsi morire e questo aveva fatto peggiorare la situazione in casa. i suoi genitori avevano già perso un figlio e rischiare di perdere anche lei li aveva oltremodo distrutti, facendoli addirittura arrivare a pensare che lo stesso uomo che l'aveva aggredita poteva aver ucciso il loro unico figlio maschio, ma le indagini che ne seguirono li avrebbero smentiti. Jeremy era stato ucciso da qualcun altro. Ma in quel momento Mikaela stava pensando a quello che aveva sognato: il suo defunto aggressore, ma non era veramente lui, glielo aveva detto... aveva solo assunto quelle sembianze per terrorizzarla, ma era qualcosa di più. Qualcosa che a quanto pare stava per uscire dall'ombra: Mikaela era sicura che quello non era un semplice sogno, era solo il culmione di tutto l'orrore che da tempo avvertiva come un cancro nella sua testa, lo stesso male che la tormentava ogni notte. Solo che questa volta si era manifestato più chiaramente. Guardò l'orologio: le cinque. Aveva dormito per un paio d'ore, mentre sua madre era al funerale del giovane Pat Turner. Si alzò e andò in bagno per sciacquarsi il viso: quando fu davanti allo specchio si guardò. Era splendida, anche se lei non alo avrebbe mai ammesso, non si riteneva carina, ma in quello aveva grandemente torto. Si passo una mano tra i lunghi capelli mossi e cercò di pettinarli. Era incredibilmente sensuale con quella semplice maglietta a maniche lunghe color verde bottiglia e i jeans stretti
(Sei molto bella)
l'ovale del viso morbido con una ciocca ondulata che andava ad incorniciarlo
(ma ho imparato una cosa sulla bellezza umana)
le labbra perfette leggermente increspate in quel momento
(è effimera!)
e gli occhi color nocciola. Li chiuse per cercare di pensare, aveva ancora la voce di quel mostro nella testa. Era bellissima a quanto pareva. Ma non era felice di sentirselo dire da quell'essere, doveva capire cosa diavolo stava succedendo. la cosa che più la inquietava era che non si sentiva stupita nel ritrovarsi a credere in un essere soprannaturale pronto a emergere dall'oscurità. Perchè le sembrava quasi ovvio? C'era qualcosa che non le tornava, era tutto troppo assurdo. Troppo. Andò in camera sua e si sedette alla scrivania, sospirò e prese in mano la matita: una volta aveva funzionato, perchè non tentare di nuovo? Chiuse gli occhi e appoggiò la punta sul foglio. La mano iniziò a muoversi da sola, memntre lei si sforzava di concentrarsi: quando era stata portata in quel capanno aveva subito un grave shock ed era stata costretta ad andare in cura da uno psichiatra perchè potesse superare il trauma. Se c'era una cosa che davvero sapeva fare bene, era disegnare e questo il dottor Darnell l'aveva capito. Le disse di concentrarsi e di lasciare che la sua mente le muovesse la mano: così, a occhio ciusi, Mikaela quella volta aveva disegnato una ragazza identica a sè stessa che veniva afferrata da un mostro molto simile a quello che aveva sognato, solo che quel giorno era semplicemente il modo in cui nella sua mente vedva il suo aggressore. E adesso lo aveva sognato. Quindi si chiedeva cosa sarebbe accaduto se avesse ripetuto in quel momento l'esperimento, forse sarebbe emerso qualcosa di interessante dal suo subconscio. Forse. Il grafite della mina tracciava ampie linee sinuose sulla carta bianca, trasformandola e dandole un nuovo significato mentre gli occhi di Mikaela guizzavano sotto alle palpebre serrate: aveva gli occhi chiusi ma vedeva. Vedeva. Era buio ma riusciva a intravedere qualcosa, era come una stanza, sentiva di starla disegnando, stretta e alta. No, non una stanza... piuttosto un tunnel, verticale e infinito. Annusò l'aria istintivamente: sentiva odore di muffa. Perchè sentiva odore di muffa?
(Il cervello ti si è fritto, altrochè, miss Mikka Mukka)
sobbalzò nel sentire la voce del suo fratellino nella testa. Mikka Mukka. La chiamava così, e le diceva sempre che aveva il cervello fritto. Le mancava, più di ogni altra cosa. Ora le sembrava quasi di sentire nelle ossa l'umidità della stanza che stava disegnando, era tremendo. Aprì gli occhi risvegliandosi da quella visione e osservò il foglio: davanti a lei c'era uno schizzo perfetto. era chiaramente l'interno di una struttura stretta e alta, con mattoni umidi alle pareti.Chiaro e inequivocabile. Aveva disegnato l'interno di un pozzo.
'Cazzo' pensò 'Cazzo. Che diavolo significa?'.

Frida Nelson stava preparando il the. Adorava berlo mentre parlava con suo padre, anche se sapeva bene che lui non la sentiva. Ma lo stesso le piaceva entrare nella stanza buia, chiudere gli occhi e sorbire il liquido caldo e ambrato mentre parlava del più e del meno con l'unica persona che restava con lei.; certo, era in uno stato vegetativo e aveva solo qualche piccolo spasmo ogni tanto, ma negli ultimi tempi le sembrava quasi che lui la potesse sentire, era convinta di percepirlo più ricettivo, ma forse era solo una sua idea. Quando il bollitore iniziò a fischiare Frida spense il fornello e versò il the fumante in una tazza di ceramica azzurra, poi salì le scale ed entrò nella camera dove riposava suo padre. Era buio pesto, ma Frida non voleva far entrare troppa luce. A suo padre la luce non era mai piaciuta e anche se il dottore le consigliava sempre di arieggiare il locale e spalancare le finestre, lei non ne voleva sapere: suo padre amava il buio quando era cosciente e lo amava anche ora che era ridotto ad uno stato vegetativo, ne era certa. Si sedette su una sedia e iniziò a parlare. "Giornata assurda oggi. Quello che è successo in chiesa ha dell'incredibile, ma te l'ho già detto prima. A volte mi chiedo perchè accadano certe cose così strane, ma del resto Nostro Signore opera per vie misteriose e chissà, forse si è trattato di un a strana reazione chimica, chi può dirlo?" fece una pausa per sorseggiare del the. "Oggi sei più inquieto del solito" continuò. Il corpo nel letto era scosso da piccoli sussulti: capitava spesso ma quel giorno era come se il corpo di suo padre stesse cercando di risvegliarsi. Era strano. Frida continuò a parlare nel buio, talvolta accarezzando la fronte imperlata di sudore del vecchio, con la dolcezza che metteva in ogni gesto nei suoi riguardi: doveva molto a suo padre ed era per questo che si era sobbarcata la responsabilità di accudirlo, sorprendendosi nel vedere che non era assolutamente una grave incombenza come aveva pensato all'inizio. Era molto sola e lui in un modo o nell'altro le faceva compagnia. Dopo aver bevuto il the scese al piano di sotto per sistemare alcune faccende, lasciando da solo il vecchio. La stanza era immersa totalmente nel buio e l'unico rumore che si poteva sentire era il rantolo che emetteva il corpo steso nel letto. E poi c'era quel sussulto, continuo e quasi impercettibile, come se il corpo fosse scosso dall'eccitazione. Frida era sulle scale quando sentì il verso. Si voltò e ascoltò attentamente: ancora una volta il silenzio fu rotto da un lamento. Spaventata, la donna corse nella stanza dove riposava suo padre e istintivamente accese la luce. Desiderò non averlo mai fatto: il vecchio era seduto sul letto con gli occhi spalancati e completamente neri anche dove normalmente dovrebbe esserci il bianco, la bocca aperta come in un silenzioso grido di terrore, le gengive scoperte. E quel lamento basso e sottile invadeva la stanza.
"Papà" strillò Frida "Mio Dio che ti succede?". Frida piangeva, non sapeva cosa fare.
Il vecchio mosse gli occhi e la guardò, rantolando ed emettendo quel lamento figlio inequivocabile di chi non riesce a respirare bene. "Il pozzo" biascicò "Lo straniero. Finalmente. Finalmente!" gracchiò infine. Frida avrebbe voluto urlare ma non ne ebbe il tempo: sentì una fitta al torace e venne scaraventata all'indietro, picchiando la testa contro il muro. Stordita, Frida cercò di rialzarsi, ma quando aprì gli occhi vide che suo padre la stava fissando intensamente con quei suoi occhi completamente neri: avvertì una morsa di panico serrargli la bocca dello stomaco, mentre la vista gli si confondeva. Il vecchio era ancora seduto nel letto con quell'espressione vacua e terribile: Frida si accasciò sul pavimento, oramai praticamente priva di coscienza; poteva solo avvertire gli occhi che le si scioglievano colando sulle guance in una poltiglia appiccicosa. Pochi secondi dopo la donna giaceva esanime a terra, con una bava grigiastra e striata di rosso che le gocciolava dalle orecchie.Il vecchio nel letto rimase immobile, ma consapevole: ormai era tutto pronto, finalmente si sarebbe liberato e lo Straniero era in suo potere. Doveva solo uccidere la ragazza, ma per quello c'era ancora tempo, ancora pochissime ore e avrebbe portato l'inferno a West Coburn.


Lo sceriffo Gambon rimase di sasso quando gli riferirono quello che era successo un paio d'ore prima: la chiesa era andata a fuoco dopo l'esplosione della bara del giovane Turner. Era chiaro che qualcosa non quadrava, ma era sempre stato restio a credere nel soprannaturale, anche se nelle ultime ore erano successe molte cose che avevano dell'assurdo. Al momento si trovava in ospedale, chino sul letto in cui giaceva, in stato catatonico, Reginald Langstorm. Accanto a lui c'era il padre dell'uomo, Peter, alto e azzimato, con i radi capelli rossicci ben pettinati.
"Peter, non vorrei dovertelo chiedere, però..." iniziò Gambon, cercando di assumere un tono diplomatico.
"Non lo so perchè l'ha fatto" rispose langstorm con voce piatta "E' pazzo, Hannibal. Violento. Non credo ci siano altre spiegazioni".
"E Crandon?" continuò lo sceriffo.
"Cosa?" chiese Langstorm, stupito oltremodo. aveva sentito bene?
"Continuava ad urlarlo, poi è diventato così" spiegò lo sceriffo, indicando gli occhi vitrei e spalancati di Reginald: non aveva mai visto un tale sguardo, così vuoto e triste.
"Non... Non so cosa potrebbe essere" replicò Langstorm "Senti hannibal, da quanto ci conosciamo?".
"Molti anni" disse Gambon.
"E se ti dicessi che stiamo per morire tutti, cosa rispinderesti? Ti fideresti di me o mi daresti semplicemente del pazzo?".
"Peter, non credo di capire dove vuoi arrivare. Perchè diavolo staremmo tutti per morire?".
"Non ho detto che stia per accadere. Ti ho chiesto se mi crederesti in un'ipotetica situazione simile".
"Sei sconvolto, ti capisco. Beh, credo che ti darei ascolto. Magari non ti crederei subito, ma non ti darei del pazzo. Ogni persona può credere quello che vuole, Peter. E se tu ne fossi convinto allora credo che nessuno potrebbe farti cambiare idea. Ma tu credi davvero che stiamo per morire tutti vecchio mio?".
"No" disse Langstorm con un debole sorriso "E' solo che sono a pezzi. Ho bisogno solo di sapere se ho almeno i vecchi amici vicino".
"Sempre, vecchio mio. Vai a casa ora, resto qui io".
"Che ore sono?".
"Le sei meno dieci".
"Va bene. Tornerò verso..." fece per dire Langstorm.
"Prima che mi dimentichi" lo interruppe Gambon "Ha detto qualcosa circa il nono rintocco. E' successo tutto poche ore fa... credo si riferisse alle nove di stasera. Che succede a quell'ora?".
Langstorm fissò suo figlio tristemente e poi si rivolse allo sceriffo: "Succede che lui sarà ancora in questo letto, con gli occhi spalancati. E noi qui fuori dal mondo in cui è sprofondato e da cui non uscirà più. Devo andare" e detto questo si congedò.
Peter Langstorm camminava da solo nell'aria fresca del tardo pomeriggio. ma aveva in mente pensieri cupi, di morte: ormai aveva capito cosa stava succedendo. "Perchè lui?" domandò a voce alta, ma senza gridare.
"ma tesoro" sussurrò una voce calda e morbida, eppure lievemente minacciosa "Lo sai il perchè".
Langstorm guardò alla sua destra e la vide: la solita vecchia disgustosa con la pelle marcia, le orbite vuote, le gengive cave e nere. i suoi capelli erano lunghi e disgustosi, come alghe appassite. "Hai sempre avuto una predilezione per Reginald. Era solo un ragazzo, eppure hai voluto tormentarlo lo stesso. perchè lo fai? Perchè vuoi ucciderci tutti?".
"Amore" replicò la voce, questa volta gracchiante e sgraziata "Lo faccio perchè devo. Perchè mi diverte, perchè vi adoro tutti" concluse ridacchiando "Vi adoro perchè mi fate divertire, siete così buffi quando soffrite".
"E' per stasera, dunque. Stavo pensando, che accadrebbe se io ora andassi a casa, afferrassi un rasoio e mi aprissi i polsi?".
"Non accadrebbe nulla, tesoro mio. Prenderei il rasoio e lo farei sparire. Se tu morissi sarebbe solo perchè l'ho deciso io, e non voglio perderti adesso. Mi servi, oh sì tesoro, mi servi proprio".
"Lo immaginavo. E se io non volessi collaborare?".
"Ma tu non puoi scegliere! Se ti rifiutassi dovrei costringerti con la forza della persuasione e sai quanto io sia brava in questo. No, preferisco averti lucido, amore".
"D'accordo, non posso sottrarmi" disse Langstorm lentamente " Ma una cosa per me la puoi fare forse".
"Tutto quello che vuoi amore mio".
"perfetto. Allora smettila di chiamarmi amore. Lana è morta, smettila di imitarla. Mi disgusti" e detto ciò accelerò il passo. Tanto lei lo avrebbe seguito anche se fosse andato alla velocità della luce. ma con sua inorridita sorpresa si senti afferrare il polso da una mano viscida e fredda: ne avvertiva la stretta.
"Amore, tu non detti condizioni" disse la vecchia con un sorriso tutto gengive. Sulla fronte aveva delle piaghe cancrenose che quasi scendevano a divorarle gli occhi. Un balenio bianco offuscò una delle narici mangiate dalla decomposizione e un verme paffuto fece capolino, muovendosi lentamente. La pupilla dell'occhio sinistro era biancastra e nella sclerotica si muovevano tanti piccoli moscerini. "Non sono più solo un parto della tua mente: ora sono vera. e tra tre ore lo saranno tutte le altre cose". E poi accadde una cosa che ebbe dell'assurdo.

Viola era ancora con Jo, a casa. Era abbracciata a lui sul divano, la testa appoggiata sulla sua spalla. la chiesa era andata a fuoco, la bara di Pat era praticamente saltata per aria. Cosa cazzo stava succedendo? Era come se si fossero ritrovati all'improvviso in un film dell'orrore, non aveva senso quello che stava accadendo. era in uno stato di shock molto profondo e aveva bisogno di Jo più che mai; si ritrovò a pensare a quello che provava per lui: era quella forse la cosa più strana. Era da quando si era lasciata con Pat che non aveva più provato simili sensazioni per un uomo e per di più si trattava di un perfetto sconosciuto: non sapeva assolutamente nulla di lui, nulla. Eppure lui era lì che le stava accarezzando i capelli scuri e lisci, contemplando il suo sguardo fisso e spaventato. Si sentiva al sicuro con lui, come se niente potesse accaderle, non sapeva che nome dare a quel sentimento, ma era certamente qualcosa di molto forte. E questo non aveva alcun senso logico. Poche ore prima erano stati sul punto di baciarsi, ora invece erano legati da una sintonia impressionante, come se in quel momento le loro menti fossero collegate da un legame invisibile: lui sentiva la paura di lei e lei sentiva la calma rassicurante di lui. Ma in realtà Jo non era poi così calmo: aveva paura, ma cercava di dissimulare quel sentimento per non allarmare Viola. Quanto avrebbe desiderato un sorso di whisky in quel momento! ma non poteva, doveva stare con lei: era lei il suo whisky adesso, calda e sensuale. fece scivolare una mano lungo il suo ventre, accarezzandola e la sentì scuotersi in un brivido di piacere.
"Sai" disse lei all'improvviso "Non so perchè, ma credo che ci sia qualcosa in te che mi attragga in maniera incredibile".
"La cosa è reciproca. Per anni ho cercato una come te, una che non avessi bisogno di imparare a conoscere. Ed è così: non ho bisogno di conoscerti per capire che sei la cosa più bella che io potessi desiderare" disse lui avvicinando il viso al suo. Fu un istante e le loro labbra si toccarono: quelle di lei erano morbide e calde. Si baciarono a lungo stringendosi con passione, abbandonandosi completamente e dimenticando quello che era successo in quelle ore. Lei gli mise una mano intorno al collo e lo tirò a se, cadendo distesa sul divano e sentendo il corpo di lui che si appoggiava delicatamente sopra il suo. Istintivamente Viola portò una mano a slacciare i primi bottoni dei jeans e subito dopo sentì la mano di Jo che si insinuava dolcemente in basso, dentro all'indumento. Gli occhi di lei si socchiusero e si morse leggermente il labbro inferiore quando avvertì la prima ondata di piacere e con le dita strinse la spalla di lui, che nel frattempo le baciava languidamente il collo liscio e profumato. Lei non pensava più a niente, solo alle senzazioni che le stava provocando il tocco intimo e delicato di lui, deciso ma allo stesso tempo dolce. Era scossa dal piacere e non le era mai capitato prima di essere investita da una tale forza, era come se conoscesse quell'uomo da una vita, sapeva esattamente come toccarla, cosa dirle. Ansimò in preda a ripetuti brividi caldi che le arrossarono leggermente le pallide guance, gli occhi offuscati da un velo di lacrime. Poi si abbandonarono completamente l'uno all'altra.

Jo era in bagno e ripensava a quello che era accaduto poco prima. Era stata l'esperienza più incredibile che avesse mai provato e non credeva di aver mai incontrato in nessuna una simile energia. Era stato meraviglioso, intimo e incredibilmente potente: i loro corpi si erano uniti con una naturalezza straordinaria e le loro menti si erano sintonizzate come mai prima. per qualche secondo addirittura gli era parso di riuscire a sentire i pensieri di lei ed era stato investito da una passione tale che aveva quasi perso i sensi. Viola era ancora abbandonata sul divano con gli occhi chiusi e nella mente tutto quello che avevano fatto pochi minuti prima. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai. Si rimise i vestiti e ripensò al momento in cui le era parso di sentire nella testa la voce di lui che le sussurrava quanto l'amasse. Ma era certa che lui non aveva parlato, era come se ne avesse percepito i pensieri.
Jo non poteva credere di avere pensato di amarla eppure era quello che sentiva in quel momento: la amava. Non la conosceva, ma la amava, quasi fosse qualcosa che non poteva controllare. Non glielo avrebbe detto però, non era il momento ancora, era troppo presto.
Viola sentiva di amarlo, anche se la cosa le pareva impossibile. Ma era così, quello che provava era inequivocabile. Mentre pensava questo non fece caso all'orologio appeso al muro: erano le sei e in quello stesso momento Peter Langstorm veniva afferrato al polso dalla donna morta che lo perseguitava. Fu in quel momento che accadde: come amplificati da mille megafoni echeggiarono ovunque sei rintocchi di campana. Viola si strinse la testa: era come se una campana stesse rintoccando nel suo cervello, credette di impazzire e allostesso modo Jo si ritrovò accovacciato a tapparsi le orecchie. Era così in tutta West Coburn: per qualche secondo tutti, dai bambini agli anziani, dovettero stringersi forte la testa, spaventati da quel fenomeno improvviso. Solo Reginald Langstorm nel suo letto di ospedale sembrava non esserne infastidito: rimase immobile eccetto per le labbra, che si stesero in un sorriso largo e quasi ebete.
Quando tutto fu finito, Viola vide Jo che accorreva per vedere se le fosse successo qualcosa. "la campana" disse Viola con calma "Come fa a suonare la campana?".
"Cosa vuoi dire?" replicò Jo, stringendola a sè.
"La chiesa è andata a fuoco, e anche il campanile. Come può suonare?". Jo la fissò: aveva ragione. Che diavolo stava succedendo?

Mikaela si mise al collo il ciondolo a forma di pentacolo e uscì di casa. D0accordo, stava decisamente impazzendo: prima il sogno, poi il disegno... qualcosa non andava. Doveva capire che cosa le stava succedendo e soprattutto voleva sapere se tutto ciò avesse a che fare con la morte di suo fratello. Giocò per un po' con il piccolo pentacolo di metallo mentre camminava, poi si avviò i lunghi capelli all'indietro e infilò le mani nelle tasche del giubbotto di pelle. All'improvviso si sentì attraversare il corpo da una scarica: sussultò e si voltò alla sua destra. Era davanti a una grossa gasa in legno con tanto di giardino: sapeva chi viveva lì. Era una signora di mezz'età che accudiva il padre paralitico se non ricordava male, gliene aveva parlato sua madre tempo prima; si avvicinò sentendo crescere quella sensazione strana, quasi elettrica, che l'aveva investita pochi istanti prima. C'era qualcosa in quel luogo che forse poteva aiutarla? istintivamente aprì il cancelletto nella staccionata ed entrò nel giardino: sentiva un sibilo provenire dal retro. Facendo attenzione a non essere scoperta fece il giro della casa e quando fu nel giardino sul retro si sentì mozzare il fiato: quello che aveva davanti era... un pozzo. Vecchio e costruito con grezzi mattoni pietra intagliata, l'arcata di metallo con una corda marcia legata che si precipitava all'interno in tutta la sua lunghezza. Il sibilo proveniva dal fondo del pozzo. Mikaela si avvicinò per guardare cosa ci fosse dentro: si sporse e vide una luce abbagliante, poi udì la voce, cupa e fredda, maligna: "Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo...".
"No!" gridò Mikaela gettandosi all'indietro proprio mentre sentiva un'aria fetida e calda accarezzargli il volto. cadde distesa per terra e guardò il pozzo: proprio dove c'era lei un attimo prima era sopraggiunto un vento che veniva risucchiato dalla bocca del pozzo, con un rumore sibilante. Se non si fosse spostata in tempo sarebbe stata risucchiata anche lei: si alzò e corse via da quel luogo, mentre la voce echeggiava minacciosa: "Credi che questo basti per salvarti? Finirete tutti nel pozzo, tutti!".
Mikaela correva a perdifiato con una paura profonda nel cuore: il male, si era risvegliato il male e adesso ne aveva la certezza. La corsa della ragazza fu interrotta da un'esplosione nella sua testa: spalancò gli occhi e si portò le mani alle orecchie cercando di attutire il rintocco di mille campane. Cadde a terra e urlò, urlò fino ad arrochirsi la voce mentre le sfilavano nella mente un milione di immagini diverse. Quando il suono cessò si rimise in piedi , inorridita, ripensò a cosa aveva appena visto. Per la prima volta nella sua vita pronunciò le due parole in cui non aveva mai creduto. "Dio mio" sussurrò. Stava per scoppiare il caos. Poi sentì una mano che le si appoggiava sulla spalla: sussultò e si voltò. Qualcosa la colpì con violenza e poi fu il buio.

Erano le nove meno dieci e lo sceriffo Gambon era ancora in ufficio. Dieci minuti. Non sapeva perchè fosse così curioso di sapere che cosa sarebbe successo alle nove, ma non poteva farne a meno. Si sentiva impotente e sapeva dentro di sè che tutto quello che stava accadendo sfuggiva al suo controllo. pensò a Cartbury, a Viola, al forsetiero che sembrava così stranamente legato a sua figlia... C'era qualcosa di mostruoso dietro agli avvenimenti delle ultime ore e voleva capire di cosa si trattasse, ma poteva solo aspettare. Era frustrante per uno come lui. Improvvisamente fu coltò da un'illuminazione: aveva detto a Samson di chiamare subito Viola quando reginald Langstorm aveva dato di matto, ma poi non era venuta. e lui non si era nemmeno ricordato di averla fatta chiamare. perchè? Si rese conto che non aveva più pensato a sua figlia in tutta la giornata fino a poco prima. Come se qualcosa gliel'avesse estirpata dalla mente. Pensò che aveva paura, nemmeno se avesse avuto di fronte un serpente gigante si sarebbe sentito più spaventato e non era cosa da poco, dato che la sua ofidiofobia era spaventosamente grave. Davanti ad un serpente si paralizzava e si sentiva morire. Una volta aveva sognato un boa gigantesco che usciva dallo scarico del lavandino sfondandolo. Ne aveva parlato a Viola e ne era rimasta molto impressionata.
Gambon si passò una mano tra i capelli grigi e si alzò, avviandosi verso l'uscita della centrale, saluutando il poliziotto che sarebbe rimasto lì tutta la notte. Spalancò la porta e guardò il cielo: nuvole violacea si erano addensate ovunque ne un forte vento stava spazzando le strade. All'improvviso si udì un urlo agghiacciante, ma non di terrore: un urlo minaccioso, come se il male stesse per irversarsi nelle strade. Subito dopo si udì un chiaro rintocco di campane. Non forte come quello di tre ore prima, ma ugualmente limpido. Nove rintocchi.

Reginald Langstorm era nel letto immobile e udì i nove rintocchi. "Crandon" disse.
"Si" gli rispose la voce minacciosa "E' iniziato".

Dal pozzo dietro alla casa di Frida Nelson esplose un fascio di luce e sul bordo di pietra comparve il guanto di un armatura e poco dopo un cavaliere nero si issò fuori. Aveva un lungo pennacchio rosso sull'elmo. Crandon era arrivato. E con lui tutto il resto.

Nella stanza buia il corpo sussultava: era finalmente iniziato tutto. non poteva uscire da lì, ma almeno aveva ucciso la donna. Non si era resa conto che il suo papà non c'era più da un pezzo evidentemente. Non poteva muoversi ma ora poteva creare, poteva essere in tutti i luoghi attraverso le sue creature. Era quasi libero! Alla fine di tutto avrebbe lasciato quel corpo e si sarebbe riversato sull'umanità come la peste. 'Giochiamo sul serio adesso' pensò. La sua furia esplose e un istante dopo sentiva di poter raggiungere ogni luogo di West Coburn nella forma che preferiva, avvertiva la coscienza di ogni abitante e poteva leggerne le paure e le speranze. Si sarebbe molto divertito. Silenziosamente, cercò la mente di Viola, sghignazzando.

1 commento:

  1. Mi sono ricordato solo ora che anche tu hai un blovel (così lo chiamano gli americani il blog/romanzo), sebbene segua il tuo canale spesso, quindi sono venuto a dare un'occhiata...e ti dirò è davvero interessante! Ora mi leggerò tutti i capitoli! Grande!

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