Visualizzazioni totali

venerdì 21 gennaio 2011

CAPITOLO 8: CRISI


Elizabeth Skeepson non amava uscire di casa, anzi le piaceva rimanere in solitudine, soprattutto all'ora di cena. Non si era mai sposata, non aveva mai avuto figli e a dirla tutta non aveva mai avuto nemmeno un uomo; tutti a West Coburn la credevano pazza, una snob che aveva perso il senno e che si riteneva tanto al di sopra da non volersi mischiare con il resto delle persone. Ma la verità era ben altra. Elizabeth si sedette a tavola, erano le otto e mezza, e si versò una porzione di minestra calda e fumante nella ciotola e accompagnò il tutto con un bicchiere di vino rosso che riempì per metà. Sorseggiò il liquido fresco e lo sentì scendere in gola a scaldarla, mentre il suo sguardo andava a posarsi sullo specchio che stava appesso al muro di fronte a lei, oltre il tavolo. C'erano specchi ovunque in casa sua: tre solo nella cucina, sei nel bagno, cinque nella camera da letto (uno addirittura sul soffitto), sette in salotto e addirittura due nel ripostiglio. Guardò la sua immagine riuflessa: era bella, bionda con gli occhi verdi, la pelle liscia e vellutata, pallida. Non aveva più di trent'anni ma dentro se ne sentiva almeno un centinaio e non le importava di tutti gli uomini che sembravano volerla divorare con lo sguardo: detestava essere toccata da un uomo, non c'era nulla che la disgustasse di più. Ma d'altro canto la repelleva l'idea di stare con una donna, non era attratta dal suo stesso sesso. era una donna senza sessualità e questo le creava un dolore incredibile, tanto che certe volte si spogliava davanti ai suoi specchi, di modo da poter vedere il suo corpo nudo da più di un'angolazione, e si ritrovava ad odiarlo. Odiava quelle curve tornite, quelle forme calde e invitanti che erano state la causa della sua condizione tremenda: odiava quello che era diventata ma allo stesso tempo non poteva in nessun modo evitare di continuare ad essere in quel modo.
Affondò il cucchiaio nella minestra e lo portò alle labbra, soffiando delicatamente per dissipare il vapore rovente: era squisita. Annaffiò il boccone con una sorsata di vino e chiuse gli occhi. Sentiva che c'era qualcosa di strano quella sera, era come se fuori regnasse un'atmosfera cupa, quasi procellosa; guardò fuori dalla finestra e vide il cielo violaceo, l'aria che spazzava le foglie e scrollava i rami degli alberi. Decisamente qualcosa non andava, se lo sentiva nelle ossa. Era in un giorno come quello che si era consumato il suo dramma, quindici anni prima. era una ragazzina, aveva solo sedici anni e viveva a West Coburn da pochi mesi: era la nuova arrivata, quella che tutti guardavano con sospetto, che tutti evitavano e che i ragazzi più grandi cercavano di approcciare, forti della sua timidezza e della sua condizione di"straniera". Non era mai stata con un ragazzo, sebbene fosse semplicemente splendida, solo non si sentiva ancora pronta; aveva avuto dei ragazzi, certo, ma non era mai andata oltre i baci, non le interessava in quel momento;: pensava di più agli studi e ad aiutare in casa. Sua madre era gravemente malata e suo padre riusciva a provvedere a malapena a lei e a suo fratello con il modesto lavoro di spazzino che era riuscito a procurarsi, aggiunto all'impiego come guardiano notturno al museio della città . Quel giorno, era estate, stava camminando senza pensare a nulla: il cielo era cupo e nelle nuvole dardeggiavano lampi accesi e terrificanti, mentre il vento soffiava senza sosta, frustandole il volto e scarmigliandole i capelli. Si affrettava per otrnare a casa, visto che suo padre si era raccomandato
(non fermarti troppo in giro, Principessa)
Voleva molto bene a suo padre: sgobbava come uno schiavo per mantenere lei e suo fratello e in più doveva accudire sua madre, che ormai era in fin di vita, divorata dal cancro al fegato che si era esteso troppo per poter fare qualcosa. Camminava pensando allo sguardo sofferente di sua madre e le veniva da piangere. Il vento le sollevava di tanto in tanto la lunga gonna rosa che lei cercava di fermare con i palmi delle mani, senza però fermarsi: si stava facendo buio
(e le cose nel buio non sono mai quello che sembrano, ricordatelo Principessa)
Mentre camminava sentì un rumore di latta provenire da un vicolo e sussultò, spaventata: sapeva che avrebbe dovuto fermarsi, ma non lo aveva fatto. Invece era entrata nel vicolo, incuriosità anche se molto spaventata: voleva essere sicura che non ci fosse niente di cui temere. Vide un gatto striato uscire da un bidone rovesciato e si rassicurò. Povera bestiolina, doveva avere una fame tremenda. Rovistò nella borsa per cercare il pacchetto di biscotti vuoto per metà che aveva portato con sè e quando alzò lo sguardo vide che il gatto era sparito, ma il vicolo si era fatto più scuro. Eppure fino a poco prima la luce era ancora chiara, che cosa stava succedendo? Sentì un rantolo soffocato e si girò di scatto,per gettare un grido di puro terrore: di fronte a lei c'era un uomo alto almeno due metri, gigantesco e che indossava un paio di jeans sporchi e strappati abbinati ad una canottiera nera lisa e consunta. Aveva due braccia forti e grosse come tronchi, i capelli corvini, lisci e lunghi e gli occhi dal taglio a mandorla. Doveva essere un indiano, forse un Cherokee, Elizabeth non avrebbe saputo dirlo, ma di una cosa era assolutamente certa: non era normale. Aveva lo sguardo vitreo e impastato, quasi sembrava non vederla, ma sapeva bene che la stava guardando, in più respirava con un rantolo catarroso e un filo di bava gli colava da un angolo della bocca. E poi Elizabeth vide cosa stringeva nella mano destra e capì: dal pugno chiuso spuntava una siringa, dal cui ago stillavano alcune goccioline giallastre. Quel colosso si era appena fatto e ora stava davanti a lei, con aria inebetita; in verità non era minaccioso, solo inquietante e la sua stazza gigantesca non aiutava certo a farlo sembrare un agnellino. Elizabeth provò a indietreggiare ma l'uomo scatto e la afferrò forte per un braccio, facendola gridare di dolore: aveva una presa salda e aggressiva. Elizabeth era presa dal panico ma non sapeva cosa fare, poi l'indiano avanzò e la sbattè con violenza contro il jmuro. La ragazza gridò ma all'improvviso sembrava che l'umanità fosse stata inghiottita in un buco nero: nessuno passava di lì. L'uomo la guardava ora avidamente, con gli occhi dalle pupille dilatate, scuri e spavewntosi, la bocca aperta in un ghigno tutto denti gialli e marci. aveva l'alito di un cane morto ed emetteva continuamente quel rantolo disgustoso, come se fosse stato una bestia affamata e non un uomo. Era troppo forte e a nulla valsero i tentativi che Elizabeth fece per liberarsi, in più era sotto l'effetto dell'eroina e non sentiva il dolore, nemmeno i calci di lei potevano destarlo da quel suo torpore bestiale. Le sollevò lòa gonna e si insinuò sotto con la mano enorme. Elizxabeth gridava con tutto il fiato che aveva in gola ma non poteva fare assolutamente nulla, solo aspettare che accadesse l'inevitabile. Sentì la stoffa delle mutande che veniva strappata con forza e pochi istanti dopo avvertì un dolore lancinante, spaventoso. il suo corpo gridava, lei gridava, sentì le dita di quel mostro che si insinuavano dentro di lei e d'improvviso ebbe un violento conato di vomito. Lui non si accorse nemmeno del liquido caldo e acido che lei rigettò sulla maglia, era troppo preso da quell'atto di indicibile violenza. Lei credette di stare per svenire quando sentì qualcosa che si spezava dnetro di lei, probabilmente l'imene. e avvertì il sangue caldo che fluiva dall'estremità inferiore del suo corpo, mentre il solo poensiero che le girava per la testa frastornata era: 'Ti prego uccidimi. Ammazzami adesso. AMMAZZAMI ADESSO!'. ma non la uccise. invece continuò ad ansimare e non smise di toccarla per altri lunghissimi minuti. a nulla valsero i morsi e i graffi: aveva l'unghia dell'indice destro strappata, la vide conficcata nella carne del suo aggressore, ma lui non diede segno di averlo notato. Dopo quella che le sembrò un'eternità il mostro tolse la mano e la afferrò per il collò, la sollevò e la girò, poi con grande forza le sbattè la faccia contro il muro. Il colpo fu durissimo e sentì il naso che si frantumava, sarebbe caduta se lui non l'avesse tenuta in piedi. le alzò la gonna fino a sopra la testa e lei sentì che si slacciava i pantaloni.'No' pensò 'No! No! No figlio di puttana. No!'. Non era possibile che stesse per farlo, non era giusto. Aveva paura. Tremava e avrebbe voluto morire. E poi lo sentì, avvertì il dolore dalla sua stessa carne che veniva lacerata da quel corpo estraneo disgustoso, lo sentiva e ne provava repulsione. Durò a lungo, faceva male, troppo da poterlo sopportare ma non abbastanza da farla svenire. E lui ansimava e ogni affondo era accompagnato da una sberla oppure da un pugno o, peggio ancora, da una botta contro il muro. Avvertiva il sangue gocciolare lentamente dal suo sesso straziato e la mole dell'uomo la schiacciava contro la pietra ruvoida del muro; poi divenne tutto più violento: sentiva il membro del mostro sfregare più velocemente dentro di sè e con una frequenza sempre crescente si sentiva afferrare per i capelli e la sua faccia veniva sbattuta con violenza contro le pietre davanti a sè: l'urtò le aprì un taglio sulla frone e in più aveva la bicca aperta. Sentì gli incisivi che si frantumavano e la gengiva superiore che si lacerava. Urlava, ma nessuno la sentiva, non c'era anima viva in giro. Quando la mano dell'aggressore le si poso sul volto tentò disperatamente di morderla e ci riuscì: affondo i denti nella carne più a fondo che potè e vide il sangue sprizzare dalla ferita, ma il mostro non gridò neppure, anzi continuò a violarla con una furia anche maggiore. Dopo parecchio tempo lei iniziò a provare ancora più dolore e sperava che quel tormento finisse in fretta: si sentiva umiliata, disgustata e avrebbe solo voluto morire. Avvertiva quel calore malefico, quel turgore carnoso e disgustoso che si muoveva nel suo corpo. Non poteva sopportarlo. Non voleva. Aveva il volto sfigurato dai colpi contro i mattoni grezzi, era coperta di lividi che iniziavano a fiorire sulla sua pelle chiara. Aveva la morte negli occhi. Poi udì il mostro che ansimava più forte e sentì che sfilava il membro dal suo corpo e poi avvertì un liquido caldo schizzarle addosso, imbrattando la pelle delle gambe e della schiena. Era finita. Forse ora l'avrebbe uccisa. Forse... ma vide qualcosa che le diede una nuova forza: l'uomo era immobile, lo sguardo vacuo e sembrava non recepire più niente.
Allora, come d'istinto, si sollevò da terra, dove era caduta dopo lo stupro e afferrò la siringa che era caduta al suo aggressore. Lo vide lì, immobile, con l'arma organica che aveva usato per farle del male flaccida e pendente tra le gambe. Con un urlo selvaggio piantò l'ago della siringa proprio in quel punto. L'uomo non ebbe alcuna reazione. Elizabeth trovò allora il coraggio per tentare un nuovo affondo, anche se si sentiva sul punto di svenire: era stata violentata e picchiata eppure aveva ancora il coraggio di reagire. da dove le arrivava? Non volle saperlo e infilzò di nuovo il membro dell'uomo con la punta dell'ago più volte, gridando, poi crollò a terra semisvenuta. L'uomo allora sembrò accorgersi di lei e si guardò in mezzo alle gambe: era stato gravemente ferito e sanguinava copiosamente. Si rialzò i pantaloni e subito una macchia rossastra si allargo sul cavallo. Poi si girò e a fatica raggiunse l'imboccatura del vicolo, poi rimmase immobile.. Elizabeth rimase per terra ancora qualche minuto, sentendosi completamente annullata. Sarebbe dovuto tornare indietro e avrebbe dovuto schiacciarle la testa. Lei l'aveva ferito, ma non se ne era nemmeno accorto. Non le aveva dato la soddisfazione: l'aveva distrutta e non aveva nemmeno avuto la misericordia di ammazzarla. Ci avrebbe pensato lei, decise. Si alzò a fatica e cercò la siringa, ma non la trovò e alzando lo sguardo vide che il suo aggressore era ancora fermo a qualche metro di distanza.
"Perchè?" sussurrò Elizabeth, cercando di parlare ad alta voce, ma non le era facile visto lo stato pietoso in cui era ridotta: le labbra erano spaccate e gonfie oltremodo, i denti erano frantumati e il naso era rotto in più punti, pendeva a sinistra ed era vattraversato per il largo da un taglio che sanguinava. "Perchè?" riuscì a ripetere, questa volta gridando.
L'indiano si girò lentamente, aveva lo sguardo più vigile questa volta e ai suoi piedi si era formata una piccola pozza di sangue, probabilmente quello che gli stava colando dall'inguine martoriato lungo la gamba. parlò con voce profonda, calda e dolce, cosa che stupì Elizabeth. "Le persone tendono a fare cose cattive" disse "Molti pensano che non ci sia un perchè. Ma io l'ho trovato, Principessa. Io l'ho trovato" e dopo aver detto queste parole alzò la mano destra e la ragazza vide che teneva stretta la siringa: foveva averla presa prima di andarsene. L'ago era spezzato, ma non sembrò curarsene: di colpo abbassò la mano e affondò lo strumento nelle pieghe del collo. L'ago spezzato incontrò dapprima la resistenza delle fibre muscilari e della pelle coriacea, ma la violenza dell'impatto lo spinse a fondo. Il sangiue sgorgò improvviso: doveva essersi ferito alla giugulare, pensò Elizabeth. Ma l'uomo sembrava sereno e dopo aver compiuto quel gesto premette lo stantuffo con il pollice e attese; Elizabeth lo guardò per qualche secondo e poi si accorse che gli occhi del mostro avevano totalmente perso ogni luce vitale. lo vide cadere a terra. Si era ucciso, si era iniettato l'aria nelle vene provocando un embolo. Era sconvolta. era sconvolta perchè era stata brutalmente aggredita da quell'essere mostruoso e quando le aveva chiesto il perchè aveva risposto con quella voce calma e bella, simile a quella del suo papà e l'aveva addirittura chiamata principessa. Suo padre la chiamava così. credette di aver sognato, ma sanguinava dal volto e avvertiva un dolore incredibile in mezzo alle gambe. nessun sogno: era stata violentata e picchiata, nessuno l'avrebbe più voluta, tutti l'avrebbero guardata con compassione, tutti avrebbero saputo cosa le avevano fatto. Voleva uccidersi, ma l'idea non la attraeva più come qualche minuto prima. Stava cercando la siringa per uccidersi, ma ora non voleva più farlo: era sopravvissuta. Forse c'era un motivo, anche se al momento non lo riusciva a trovare; voleva morire ma non voleva essere lei a uccidersi. Guardò il cadavere dell'uomo e ripensò alle sue ultime parole
(Io l'ho trovato, Principessa)
Arrivò a casa conciata in quel modo e credette che a sua madre sarebbe venuto un infarto. Da quel giorno era sempre vissuta in un ambiente colmo di specchi, percjhè non voleva più essere colta di sorpesa e ripudiava il sesso, la disgustava. Non uscì di casa per tre anni e non era mai più riuscita a prendere sonno senza l'aiuto dei sonniferi. aveva paura e nessuno avrebbe potuto cancellare quello che le era accaduto. Nessuno.
Mentre era assorta in questi poensieri avvertì il rintocco di una campana, sembrava quasi lontano. ma non era la solita campana, era diversa... DON. DON. DON. C'era qualcosa che non quadrava: sentiva come un'aura maligna intorno a sè. DON. DON. DON. C'era un odore strano, acre e che sembrava venire dall'esterno. Si alzò per andare a dare un'occhiata. DON. DON. DON. Aprì la porta sul nono rintocco e guardò in alto: il cielo era di un colore inverosimile, un viola livido accesissimo. Sembrava uno scenario apocalittico. e poi sentì la voce. fredda, mostruosa e disumana. "Mio!" disse "Mio!". Si mise le mani sulle orecchie e ululò di dolore: era come se le stessero ficcando un cacciavite nel cervello. Sbarrò gli occhi e vide davanti a sè il mostro che anni prima l'aveva stuprata. Non poteva essere. Non poteva essere! Ma non era esattamente uguale, notò: era diverso, più mostruoso. Ma non potè soffermarsi troppo a guardarlo perchè sentì qualcosa che la colpiva con violenza alla testa e cadde per terra. Non fece in tempo ad aprire gli occhi. Se fosse riuscita a vedere bene l'indiano avrebbe notato che era alto almeno tre metri, con i capelli lunghi e sporchi, gli occhi completamente bianchi, come se fossero rivoltati nelle palpebra, le braccia grosse come tronchi e coperte da una fitta ragnatela di vene; la mascella era quadrata e i denti erano marci e spezzati, così che erano appuntiti e marroni, ai lati della bocca perdeva un rivolo di sangue colloso e imbracciava un oggetto spaventoso. Era una siringa grossa quanto il fusto di un piccolo albero e l'ago, lungo almeno trenta o quaranta centimetri, era spesso quanto due dita messe una di fianco all'altra e appuntito come una spada. Prima che lei potesse aprire gli occhi il mostro sollevò la siringa e la abbassò con violenza su Elizabeth: non sentì nemmeno l'ago gigantesco che le sfondava la nuca ed era già morta prima ancora che la punta le lacerasse la carne della mascella per suntare di sotto. Rimase immobile, con la testa incastrata in quell'arma grottesca e l'indiano rimase fermo, con gli occhi biancastri e senza pupille fissi nella sua direzione. era morta, uccisa da quello che aveva temuto per tutta la vita e non avrebbe mai capito il perchè. Il mostro strattono con grabnde violenza la siringa e con uno strappo secco e ripugnante le sfondò il cranio spargendo pezzi di osso e brani di materia griggia ovunque, disincastrando l'ago. Con un passo goffo si girò e ringhiò: c'era tanta gente in giro a quell'ora, avrebbe avuto parecchio da fare.

Nella stanza buia il corpo immobile ansimava: quello che c'era dentro di lui stava scoppiando di gioia maligna. Il nono rintoccoera passato. ora poteva scatenare l'inferno a west Coburn ed era già incominciata. Aveva teso come una ragnatela tutto il male che pooteva sprigionare e ora poteva scrutare nell'anima di tutte le persone che vivevano nella città: adesso era abbastanza potente da poter concretizzare le loro paure e farle diventare una minaccia per tutti quanti. Non erano più solo priezioni mentali: erano vive. Aveva trovato qualcosa di molto interessante nella mente di una donna che era stata stuprata tempo prima. Se la ricordava e ricordava anche lo stupratore. Lo aveva... conosciuto, si può dire. Si era divertito a creare il suo mostro: aveva estratto il ricordo dalla testa della donna e lo aveva materializzato, ma era molto più orrendo: era il modo in cui lei lo vedeva. era perfetto. Si era beato del della paura di lei e gli spiaceva che non avesse provato dolore quando la siringa le aveva sfondato la testa. Ma si sarebbe rifatto, presto tutti loro avrebbero sofferto. e lui se ne sarebbe andato da quel porcile, sarebbe stato di nuovo libero. e poi sarebbe tornato completo, avrebbe avvolto il mondo con la sua presenza. Li avrebbe sterminati tutti. Gli Uomini lo avevano ridotto in schiavitù, millenni prima. Bene. Lui li avrebbe annientati. Il corpo tremò leggermente: ora poteva attuare il suo piano. Nella stanza echeggiò una risata che era espressione del male più puro. Il male era Lui. Lo avrebbero capito presto. Lo avrebbe capito lo Straniero, lo avrebbe capito quella stupida che di cui si era innamorato. L'avrebbe fatta cadere sotto gli occhi di lui, voleva che le fosse portata via nella maniera più dolorosa. E poi se ne sarebbe servito. Non aveva scampo.

Jo era in strada: aveva sentito le campane. Cosa volevano dire? Non riusciva a capire da dove diavolo arrivasse il loro suono. Eppure c'era qualcosa di strano nel cielo, aveva un colore spaventoso: qualcosa stava per accadere, ne era certo. Viola era a fianco a lui, bella come sempre, ma aveva lo sguardo carico di paura. Lo sentiva anche lei: qualcosa non andava decisamente, era come se si sentisse in trappola. Il vento soffiava impetuoso e i capelli le svolazzavano scompostamente, ma lei non vi badava: era troppo impegnata a fare il punto della situazione. ormai sia lei che Jo avevano capito che stava per accadere qualcosa di tremendo e, che voilessero crederci o meno, quel qualcosa andava al di là dell'umana comprensione; il serpente e la bara di Pat che esplodeva ne erano un chiaro esempio. Non aveva sentito suo padre in tutta la giornata, chissà se sapeva cos'era successo, anche se dubitava che non l'avessero informato di una cosa tanto strana. Poi sia lei che Jo udirono i rintocchi delle campane: nove. Ma il campanile era bruciato quel pomeriggio, da dove arrivava allora il suono? Non avrebbe saputo dirlo, ma lo sentiva chiaramente. E dopo vide qualcosa che le raggelò il sangue: il cielo divenne di un colore rosso intensissimo e si sentì bagnare una guancia. Stava piovendo? Si. decisamente. Ma non era acuqa, no naturalmente. Era
(lo stolto)
sangue. Denso, viscoso sangue scuro
(che si sporge)
che pioveva in gocce grosse come noci, emanando un fetore disgustoso
(per guardare il fondo del pozzo)
Viola iniziò ad urlare e Jo la portò in casa, spaventato quanto lei. poi le passò una mano tra i capelli e si guardò le dita: non era solo sangue
(ci cade dentro)
C'era una grande quantita di una sostanza giallastra e maleodorante. Pus. Erano al sicuro in casa adesso e guardavano la pioggia nauseante che imperversava tingendo tutto di rosso. 'Che cazzo succede?' pensò Jo. 'Cosa cazzo ci sta succedendo?'. E poi il vetro della finestra fu infranto da una sagoma barcollante. Jo spinse Viola dietro di se e si avvicinò a guardare: conosceva quell'uomo. era una delle prime persone che aveva visto quando era arrivato a West Coburn. era grasso e puzzava di sudore. Poi all'improvviso l'agente immobiliare Criswell si sollevò dai frantumi di vetro e guardò Jo con uno sguardo spaventoso: uno dei cocci si era conficcato in profondità nell'occhio, mentre una scheggia di legno spuntava come la spina di un'enorme rosa dalla pappagorgia. Gorgogliava e sputacchiava sangue, ma non sembrava provare dolore. Viola stava gridanndo e Jo voleva proteggerla, ma l'orrore si era impadronito di lui: fissò l'uomo con un'espressione a metà tra il disgustato e l'incredulo.
"le avevo" sibilò Criswell vomitando un fiotto di sangue "Le avevo detto... langstorm... colpa... sua... Ahhhhhhhhhhhhh" e con un urlo disumano roteò l'occhio sano e crollò all'indietro. Jo fece appena in tempo a vedere un ago gigantesco che gli sfondava il petto passando da dietro la schiena. We poi vide il gigante: Un indiano mostruoso, alto tre metri, apparso da chissà dove. imbracciava una siringa grande come un albero e aveva gli occhi bianchi. Completamente bianchi. E le braccia tatuate, enormi e incrostate di sangue rappreso. Il mostro fissò con quegli occhio vuoti Jo e poi spostò lo sguardo su Viola. Si slanciò in avanti con la siringa stretta come una lancia. Viola gridava.

Mikaela si risvegliò perchè si sentiva bagnata. Che diavolo le era successo? Ricordava la botta in testa, ma non sapeva chi poteva essere stato? Si guardò le mani e vide che erano coperte di sangue. Sussultò, ma poi capì che non era suo: stava invece piovendo dal cielo. terrorizzata, iniziò a correre mentre le tornava alla mente il cavaliere. Che fine aveva fatto? Non lo sapeva e mai avrebbe potuto saperlo, pensò. Ma nemmeno le importava. Voleva andare a casa, voleva che tutto quel grande incubo finisse. Ma qualcuno era del parere contrario evidentemente, perchè la strada le fu sbarrata da qualcosa. Mikaela aveva avuto un cucciolo una volta: era un cagnolino dolcissimo, un piccolo pastore tedesco che si chiamava Dexter. era dolcissimo ma non sopportava suo fratello, gli ringhiava sempre contro. poi un giorno Mikaela lo aveva trovato in giardino, con la gola aperta. asveva pianto, aveva urlato, ma lui era rimasto così, immobile. Non seppe mai chi era stato. Suo fratello pianse, anche se il cane non lo aveva mai preso in simpatia e Mikaela non aveva mai visto il fratellino così turbato. Ora, sotto quella pioggia di sangue battente, Mikaela si ritrovava davanti a dexter: era lui, solo che era più grande, con il pelo arruffato e i denti aguzzi: ringhiava e rantolava, con una bava giallastra che gli colava dai denti affilati. Gli occhi erano rossi e brillavano come se vi fosserio due lampadine dentro.
"Dexter?" disse Mikaela in preda al panico. Il cane, che sembrava piuttosto una iena fuggita dall'inferno, si mise in posizione di attacco. Anche Mikaela, come Viola, urlava.

Peter langstorm era seduto in casa, sulla poltrona. ora la vecchia con il corpo martoriato poteva toccarlo e lui snetiva che il tocco non era solo nella sua testa. "E' iniziata davvero?" domandò lui.
"Si, amore mio" rispose la vecchia con la voce fredda e mopstruosa. La sua carne era continuamente divorata da lombrichi che si muovevano sotto la pelle. "E' iniziata e adesso tocca a te. Apri la tuia mente. fallo entrare".
Langstorm si mise le mani sul volto. "Non voglio" disse.
"Devi. Devi!". langstorm urlava mentre la donna gli afferrava il volto e cercava di infilargli la lingua putrescente tra le labbra. "Sei mio, amore e farai quello che voglio". E infine anche langstorm urlava.

Nella stanza buia, invece, Lui rideva.

1 commento: