venerdì 21 gennaio 2011
CAPITOLO 8: CRISI
Elizabeth Skeepson non amava uscire di casa, anzi le piaceva rimanere in solitudine, soprattutto all'ora di cena. Non si era mai sposata, non aveva mai avuto figli e a dirla tutta non aveva mai avuto nemmeno un uomo; tutti a West Coburn la credevano pazza, una snob che aveva perso il senno e che si riteneva tanto al di sopra da non volersi mischiare con il resto delle persone. Ma la verità era ben altra. Elizabeth si sedette a tavola, erano le otto e mezza, e si versò una porzione di minestra calda e fumante nella ciotola e accompagnò il tutto con un bicchiere di vino rosso che riempì per metà. Sorseggiò il liquido fresco e lo sentì scendere in gola a scaldarla, mentre il suo sguardo andava a posarsi sullo specchio che stava appesso al muro di fronte a lei, oltre il tavolo. C'erano specchi ovunque in casa sua: tre solo nella cucina, sei nel bagno, cinque nella camera da letto (uno addirittura sul soffitto), sette in salotto e addirittura due nel ripostiglio. Guardò la sua immagine riuflessa: era bella, bionda con gli occhi verdi, la pelle liscia e vellutata, pallida. Non aveva più di trent'anni ma dentro se ne sentiva almeno un centinaio e non le importava di tutti gli uomini che sembravano volerla divorare con lo sguardo: detestava essere toccata da un uomo, non c'era nulla che la disgustasse di più. Ma d'altro canto la repelleva l'idea di stare con una donna, non era attratta dal suo stesso sesso. era una donna senza sessualità e questo le creava un dolore incredibile, tanto che certe volte si spogliava davanti ai suoi specchi, di modo da poter vedere il suo corpo nudo da più di un'angolazione, e si ritrovava ad odiarlo. Odiava quelle curve tornite, quelle forme calde e invitanti che erano state la causa della sua condizione tremenda: odiava quello che era diventata ma allo stesso tempo non poteva in nessun modo evitare di continuare ad essere in quel modo.
Affondò il cucchiaio nella minestra e lo portò alle labbra, soffiando delicatamente per dissipare il vapore rovente: era squisita. Annaffiò il boccone con una sorsata di vino e chiuse gli occhi. Sentiva che c'era qualcosa di strano quella sera, era come se fuori regnasse un'atmosfera cupa, quasi procellosa; guardò fuori dalla finestra e vide il cielo violaceo, l'aria che spazzava le foglie e scrollava i rami degli alberi. Decisamente qualcosa non andava, se lo sentiva nelle ossa. Era in un giorno come quello che si era consumato il suo dramma, quindici anni prima. era una ragazzina, aveva solo sedici anni e viveva a West Coburn da pochi mesi: era la nuova arrivata, quella che tutti guardavano con sospetto, che tutti evitavano e che i ragazzi più grandi cercavano di approcciare, forti della sua timidezza e della sua condizione di"straniera". Non era mai stata con un ragazzo, sebbene fosse semplicemente splendida, solo non si sentiva ancora pronta; aveva avuto dei ragazzi, certo, ma non era mai andata oltre i baci, non le interessava in quel momento;: pensava di più agli studi e ad aiutare in casa. Sua madre era gravemente malata e suo padre riusciva a provvedere a malapena a lei e a suo fratello con il modesto lavoro di spazzino che era riuscito a procurarsi, aggiunto all'impiego come guardiano notturno al museio della città . Quel giorno, era estate, stava camminando senza pensare a nulla: il cielo era cupo e nelle nuvole dardeggiavano lampi accesi e terrificanti, mentre il vento soffiava senza sosta, frustandole il volto e scarmigliandole i capelli. Si affrettava per otrnare a casa, visto che suo padre si era raccomandato
(non fermarti troppo in giro, Principessa)
Voleva molto bene a suo padre: sgobbava come uno schiavo per mantenere lei e suo fratello e in più doveva accudire sua madre, che ormai era in fin di vita, divorata dal cancro al fegato che si era esteso troppo per poter fare qualcosa. Camminava pensando allo sguardo sofferente di sua madre e le veniva da piangere. Il vento le sollevava di tanto in tanto la lunga gonna rosa che lei cercava di fermare con i palmi delle mani, senza però fermarsi: si stava facendo buio
(e le cose nel buio non sono mai quello che sembrano, ricordatelo Principessa)
Mentre camminava sentì un rumore di latta provenire da un vicolo e sussultò, spaventata: sapeva che avrebbe dovuto fermarsi, ma non lo aveva fatto. Invece era entrata nel vicolo, incuriosità anche se molto spaventata: voleva essere sicura che non ci fosse niente di cui temere. Vide un gatto striato uscire da un bidone rovesciato e si rassicurò. Povera bestiolina, doveva avere una fame tremenda. Rovistò nella borsa per cercare il pacchetto di biscotti vuoto per metà che aveva portato con sè e quando alzò lo sguardo vide che il gatto era sparito, ma il vicolo si era fatto più scuro. Eppure fino a poco prima la luce era ancora chiara, che cosa stava succedendo? Sentì un rantolo soffocato e si girò di scatto,per gettare un grido di puro terrore: di fronte a lei c'era un uomo alto almeno due metri, gigantesco e che indossava un paio di jeans sporchi e strappati abbinati ad una canottiera nera lisa e consunta. Aveva due braccia forti e grosse come tronchi, i capelli corvini, lisci e lunghi e gli occhi dal taglio a mandorla. Doveva essere un indiano, forse un Cherokee, Elizabeth non avrebbe saputo dirlo, ma di una cosa era assolutamente certa: non era normale. Aveva lo sguardo vitreo e impastato, quasi sembrava non vederla, ma sapeva bene che la stava guardando, in più respirava con un rantolo catarroso e un filo di bava gli colava da un angolo della bocca. E poi Elizabeth vide cosa stringeva nella mano destra e capì: dal pugno chiuso spuntava una siringa, dal cui ago stillavano alcune goccioline giallastre. Quel colosso si era appena fatto e ora stava davanti a lei, con aria inebetita; in verità non era minaccioso, solo inquietante e la sua stazza gigantesca non aiutava certo a farlo sembrare un agnellino. Elizabeth provò a indietreggiare ma l'uomo scatto e la afferrò forte per un braccio, facendola gridare di dolore: aveva una presa salda e aggressiva. Elizabeth era presa dal panico ma non sapeva cosa fare, poi l'indiano avanzò e la sbattè con violenza contro il jmuro. La ragazza gridò ma all'improvviso sembrava che l'umanità fosse stata inghiottita in un buco nero: nessuno passava di lì. L'uomo la guardava ora avidamente, con gli occhi dalle pupille dilatate, scuri e spavewntosi, la bocca aperta in un ghigno tutto denti gialli e marci. aveva l'alito di un cane morto ed emetteva continuamente quel rantolo disgustoso, come se fosse stato una bestia affamata e non un uomo. Era troppo forte e a nulla valsero i tentativi che Elizabeth fece per liberarsi, in più era sotto l'effetto dell'eroina e non sentiva il dolore, nemmeno i calci di lei potevano destarlo da quel suo torpore bestiale. Le sollevò lòa gonna e si insinuò sotto con la mano enorme. Elizxabeth gridava con tutto il fiato che aveva in gola ma non poteva fare assolutamente nulla, solo aspettare che accadesse l'inevitabile. Sentì la stoffa delle mutande che veniva strappata con forza e pochi istanti dopo avvertì un dolore lancinante, spaventoso. il suo corpo gridava, lei gridava, sentì le dita di quel mostro che si insinuavano dentro di lei e d'improvviso ebbe un violento conato di vomito. Lui non si accorse nemmeno del liquido caldo e acido che lei rigettò sulla maglia, era troppo preso da quell'atto di indicibile violenza. Lei credette di stare per svenire quando sentì qualcosa che si spezava dnetro di lei, probabilmente l'imene. e avvertì il sangue caldo che fluiva dall'estremità inferiore del suo corpo, mentre il solo poensiero che le girava per la testa frastornata era: 'Ti prego uccidimi. Ammazzami adesso. AMMAZZAMI ADESSO!'. ma non la uccise. invece continuò ad ansimare e non smise di toccarla per altri lunghissimi minuti. a nulla valsero i morsi e i graffi: aveva l'unghia dell'indice destro strappata, la vide conficcata nella carne del suo aggressore, ma lui non diede segno di averlo notato. Dopo quella che le sembrò un'eternità il mostro tolse la mano e la afferrò per il collò, la sollevò e la girò, poi con grande forza le sbattè la faccia contro il muro. Il colpo fu durissimo e sentì il naso che si frantumava, sarebbe caduta se lui non l'avesse tenuta in piedi. le alzò la gonna fino a sopra la testa e lei sentì che si slacciava i pantaloni.'No' pensò 'No! No! No figlio di puttana. No!'. Non era possibile che stesse per farlo, non era giusto. Aveva paura. Tremava e avrebbe voluto morire. E poi lo sentì, avvertì il dolore dalla sua stessa carne che veniva lacerata da quel corpo estraneo disgustoso, lo sentiva e ne provava repulsione. Durò a lungo, faceva male, troppo da poterlo sopportare ma non abbastanza da farla svenire. E lui ansimava e ogni affondo era accompagnato da una sberla oppure da un pugno o, peggio ancora, da una botta contro il muro. Avvertiva il sangue gocciolare lentamente dal suo sesso straziato e la mole dell'uomo la schiacciava contro la pietra ruvoida del muro; poi divenne tutto più violento: sentiva il membro del mostro sfregare più velocemente dentro di sè e con una frequenza sempre crescente si sentiva afferrare per i capelli e la sua faccia veniva sbattuta con violenza contro le pietre davanti a sè: l'urtò le aprì un taglio sulla frone e in più aveva la bicca aperta. Sentì gli incisivi che si frantumavano e la gengiva superiore che si lacerava. Urlava, ma nessuno la sentiva, non c'era anima viva in giro. Quando la mano dell'aggressore le si poso sul volto tentò disperatamente di morderla e ci riuscì: affondo i denti nella carne più a fondo che potè e vide il sangue sprizzare dalla ferita, ma il mostro non gridò neppure, anzi continuò a violarla con una furia anche maggiore. Dopo parecchio tempo lei iniziò a provare ancora più dolore e sperava che quel tormento finisse in fretta: si sentiva umiliata, disgustata e avrebbe solo voluto morire. Avvertiva quel calore malefico, quel turgore carnoso e disgustoso che si muoveva nel suo corpo. Non poteva sopportarlo. Non voleva. Aveva il volto sfigurato dai colpi contro i mattoni grezzi, era coperta di lividi che iniziavano a fiorire sulla sua pelle chiara. Aveva la morte negli occhi. Poi udì il mostro che ansimava più forte e sentì che sfilava il membro dal suo corpo e poi avvertì un liquido caldo schizzarle addosso, imbrattando la pelle delle gambe e della schiena. Era finita. Forse ora l'avrebbe uccisa. Forse... ma vide qualcosa che le diede una nuova forza: l'uomo era immobile, lo sguardo vacuo e sembrava non recepire più niente.
Allora, come d'istinto, si sollevò da terra, dove era caduta dopo lo stupro e afferrò la siringa che era caduta al suo aggressore. Lo vide lì, immobile, con l'arma organica che aveva usato per farle del male flaccida e pendente tra le gambe. Con un urlo selvaggio piantò l'ago della siringa proprio in quel punto. L'uomo non ebbe alcuna reazione. Elizabeth trovò allora il coraggio per tentare un nuovo affondo, anche se si sentiva sul punto di svenire: era stata violentata e picchiata eppure aveva ancora il coraggio di reagire. da dove le arrivava? Non volle saperlo e infilzò di nuovo il membro dell'uomo con la punta dell'ago più volte, gridando, poi crollò a terra semisvenuta. L'uomo allora sembrò accorgersi di lei e si guardò in mezzo alle gambe: era stato gravemente ferito e sanguinava copiosamente. Si rialzò i pantaloni e subito una macchia rossastra si allargo sul cavallo. Poi si girò e a fatica raggiunse l'imboccatura del vicolo, poi rimmase immobile.. Elizabeth rimase per terra ancora qualche minuto, sentendosi completamente annullata. Sarebbe dovuto tornare indietro e avrebbe dovuto schiacciarle la testa. Lei l'aveva ferito, ma non se ne era nemmeno accorto. Non le aveva dato la soddisfazione: l'aveva distrutta e non aveva nemmeno avuto la misericordia di ammazzarla. Ci avrebbe pensato lei, decise. Si alzò a fatica e cercò la siringa, ma non la trovò e alzando lo sguardo vide che il suo aggressore era ancora fermo a qualche metro di distanza.
"Perchè?" sussurrò Elizabeth, cercando di parlare ad alta voce, ma non le era facile visto lo stato pietoso in cui era ridotta: le labbra erano spaccate e gonfie oltremodo, i denti erano frantumati e il naso era rotto in più punti, pendeva a sinistra ed era vattraversato per il largo da un taglio che sanguinava. "Perchè?" riuscì a ripetere, questa volta gridando.
L'indiano si girò lentamente, aveva lo sguardo più vigile questa volta e ai suoi piedi si era formata una piccola pozza di sangue, probabilmente quello che gli stava colando dall'inguine martoriato lungo la gamba. parlò con voce profonda, calda e dolce, cosa che stupì Elizabeth. "Le persone tendono a fare cose cattive" disse "Molti pensano che non ci sia un perchè. Ma io l'ho trovato, Principessa. Io l'ho trovato" e dopo aver detto queste parole alzò la mano destra e la ragazza vide che teneva stretta la siringa: foveva averla presa prima di andarsene. L'ago era spezzato, ma non sembrò curarsene: di colpo abbassò la mano e affondò lo strumento nelle pieghe del collo. L'ago spezzato incontrò dapprima la resistenza delle fibre muscilari e della pelle coriacea, ma la violenza dell'impatto lo spinse a fondo. Il sangiue sgorgò improvviso: doveva essersi ferito alla giugulare, pensò Elizabeth. Ma l'uomo sembrava sereno e dopo aver compiuto quel gesto premette lo stantuffo con il pollice e attese; Elizabeth lo guardò per qualche secondo e poi si accorse che gli occhi del mostro avevano totalmente perso ogni luce vitale. lo vide cadere a terra. Si era ucciso, si era iniettato l'aria nelle vene provocando un embolo. Era sconvolta. era sconvolta perchè era stata brutalmente aggredita da quell'essere mostruoso e quando le aveva chiesto il perchè aveva risposto con quella voce calma e bella, simile a quella del suo papà e l'aveva addirittura chiamata principessa. Suo padre la chiamava così. credette di aver sognato, ma sanguinava dal volto e avvertiva un dolore incredibile in mezzo alle gambe. nessun sogno: era stata violentata e picchiata, nessuno l'avrebbe più voluta, tutti l'avrebbero guardata con compassione, tutti avrebbero saputo cosa le avevano fatto. Voleva uccidersi, ma l'idea non la attraeva più come qualche minuto prima. Stava cercando la siringa per uccidersi, ma ora non voleva più farlo: era sopravvissuta. Forse c'era un motivo, anche se al momento non lo riusciva a trovare; voleva morire ma non voleva essere lei a uccidersi. Guardò il cadavere dell'uomo e ripensò alle sue ultime parole
(Io l'ho trovato, Principessa)
Arrivò a casa conciata in quel modo e credette che a sua madre sarebbe venuto un infarto. Da quel giorno era sempre vissuta in un ambiente colmo di specchi, percjhè non voleva più essere colta di sorpesa e ripudiava il sesso, la disgustava. Non uscì di casa per tre anni e non era mai più riuscita a prendere sonno senza l'aiuto dei sonniferi. aveva paura e nessuno avrebbe potuto cancellare quello che le era accaduto. Nessuno.
Mentre era assorta in questi poensieri avvertì il rintocco di una campana, sembrava quasi lontano. ma non era la solita campana, era diversa... DON. DON. DON. C'era qualcosa che non quadrava: sentiva come un'aura maligna intorno a sè. DON. DON. DON. C'era un odore strano, acre e che sembrava venire dall'esterno. Si alzò per andare a dare un'occhiata. DON. DON. DON. Aprì la porta sul nono rintocco e guardò in alto: il cielo era di un colore inverosimile, un viola livido accesissimo. Sembrava uno scenario apocalittico. e poi sentì la voce. fredda, mostruosa e disumana. "Mio!" disse "Mio!". Si mise le mani sulle orecchie e ululò di dolore: era come se le stessero ficcando un cacciavite nel cervello. Sbarrò gli occhi e vide davanti a sè il mostro che anni prima l'aveva stuprata. Non poteva essere. Non poteva essere! Ma non era esattamente uguale, notò: era diverso, più mostruoso. Ma non potè soffermarsi troppo a guardarlo perchè sentì qualcosa che la colpiva con violenza alla testa e cadde per terra. Non fece in tempo ad aprire gli occhi. Se fosse riuscita a vedere bene l'indiano avrebbe notato che era alto almeno tre metri, con i capelli lunghi e sporchi, gli occhi completamente bianchi, come se fossero rivoltati nelle palpebra, le braccia grosse come tronchi e coperte da una fitta ragnatela di vene; la mascella era quadrata e i denti erano marci e spezzati, così che erano appuntiti e marroni, ai lati della bocca perdeva un rivolo di sangue colloso e imbracciava un oggetto spaventoso. Era una siringa grossa quanto il fusto di un piccolo albero e l'ago, lungo almeno trenta o quaranta centimetri, era spesso quanto due dita messe una di fianco all'altra e appuntito come una spada. Prima che lei potesse aprire gli occhi il mostro sollevò la siringa e la abbassò con violenza su Elizabeth: non sentì nemmeno l'ago gigantesco che le sfondava la nuca ed era già morta prima ancora che la punta le lacerasse la carne della mascella per suntare di sotto. Rimase immobile, con la testa incastrata in quell'arma grottesca e l'indiano rimase fermo, con gli occhi biancastri e senza pupille fissi nella sua direzione. era morta, uccisa da quello che aveva temuto per tutta la vita e non avrebbe mai capito il perchè. Il mostro strattono con grabnde violenza la siringa e con uno strappo secco e ripugnante le sfondò il cranio spargendo pezzi di osso e brani di materia griggia ovunque, disincastrando l'ago. Con un passo goffo si girò e ringhiò: c'era tanta gente in giro a quell'ora, avrebbe avuto parecchio da fare.
Nella stanza buia il corpo immobile ansimava: quello che c'era dentro di lui stava scoppiando di gioia maligna. Il nono rintoccoera passato. ora poteva scatenare l'inferno a west Coburn ed era già incominciata. Aveva teso come una ragnatela tutto il male che pooteva sprigionare e ora poteva scrutare nell'anima di tutte le persone che vivevano nella città: adesso era abbastanza potente da poter concretizzare le loro paure e farle diventare una minaccia per tutti quanti. Non erano più solo priezioni mentali: erano vive. Aveva trovato qualcosa di molto interessante nella mente di una donna che era stata stuprata tempo prima. Se la ricordava e ricordava anche lo stupratore. Lo aveva... conosciuto, si può dire. Si era divertito a creare il suo mostro: aveva estratto il ricordo dalla testa della donna e lo aveva materializzato, ma era molto più orrendo: era il modo in cui lei lo vedeva. era perfetto. Si era beato del della paura di lei e gli spiaceva che non avesse provato dolore quando la siringa le aveva sfondato la testa. Ma si sarebbe rifatto, presto tutti loro avrebbero sofferto. e lui se ne sarebbe andato da quel porcile, sarebbe stato di nuovo libero. e poi sarebbe tornato completo, avrebbe avvolto il mondo con la sua presenza. Li avrebbe sterminati tutti. Gli Uomini lo avevano ridotto in schiavitù, millenni prima. Bene. Lui li avrebbe annientati. Il corpo tremò leggermente: ora poteva attuare il suo piano. Nella stanza echeggiò una risata che era espressione del male più puro. Il male era Lui. Lo avrebbero capito presto. Lo avrebbe capito lo Straniero, lo avrebbe capito quella stupida che di cui si era innamorato. L'avrebbe fatta cadere sotto gli occhi di lui, voleva che le fosse portata via nella maniera più dolorosa. E poi se ne sarebbe servito. Non aveva scampo.
Jo era in strada: aveva sentito le campane. Cosa volevano dire? Non riusciva a capire da dove diavolo arrivasse il loro suono. Eppure c'era qualcosa di strano nel cielo, aveva un colore spaventoso: qualcosa stava per accadere, ne era certo. Viola era a fianco a lui, bella come sempre, ma aveva lo sguardo carico di paura. Lo sentiva anche lei: qualcosa non andava decisamente, era come se si sentisse in trappola. Il vento soffiava impetuoso e i capelli le svolazzavano scompostamente, ma lei non vi badava: era troppo impegnata a fare il punto della situazione. ormai sia lei che Jo avevano capito che stava per accadere qualcosa di tremendo e, che voilessero crederci o meno, quel qualcosa andava al di là dell'umana comprensione; il serpente e la bara di Pat che esplodeva ne erano un chiaro esempio. Non aveva sentito suo padre in tutta la giornata, chissà se sapeva cos'era successo, anche se dubitava che non l'avessero informato di una cosa tanto strana. Poi sia lei che Jo udirono i rintocchi delle campane: nove. Ma il campanile era bruciato quel pomeriggio, da dove arrivava allora il suono? Non avrebbe saputo dirlo, ma lo sentiva chiaramente. E dopo vide qualcosa che le raggelò il sangue: il cielo divenne di un colore rosso intensissimo e si sentì bagnare una guancia. Stava piovendo? Si. decisamente. Ma non era acuqa, no naturalmente. Era
(lo stolto)
sangue. Denso, viscoso sangue scuro
(che si sporge)
che pioveva in gocce grosse come noci, emanando un fetore disgustoso
(per guardare il fondo del pozzo)
Viola iniziò ad urlare e Jo la portò in casa, spaventato quanto lei. poi le passò una mano tra i capelli e si guardò le dita: non era solo sangue
(ci cade dentro)
C'era una grande quantita di una sostanza giallastra e maleodorante. Pus. Erano al sicuro in casa adesso e guardavano la pioggia nauseante che imperversava tingendo tutto di rosso. 'Che cazzo succede?' pensò Jo. 'Cosa cazzo ci sta succedendo?'. E poi il vetro della finestra fu infranto da una sagoma barcollante. Jo spinse Viola dietro di se e si avvicinò a guardare: conosceva quell'uomo. era una delle prime persone che aveva visto quando era arrivato a West Coburn. era grasso e puzzava di sudore. Poi all'improvviso l'agente immobiliare Criswell si sollevò dai frantumi di vetro e guardò Jo con uno sguardo spaventoso: uno dei cocci si era conficcato in profondità nell'occhio, mentre una scheggia di legno spuntava come la spina di un'enorme rosa dalla pappagorgia. Gorgogliava e sputacchiava sangue, ma non sembrava provare dolore. Viola stava gridanndo e Jo voleva proteggerla, ma l'orrore si era impadronito di lui: fissò l'uomo con un'espressione a metà tra il disgustato e l'incredulo.
"le avevo" sibilò Criswell vomitando un fiotto di sangue "Le avevo detto... langstorm... colpa... sua... Ahhhhhhhhhhhhh" e con un urlo disumano roteò l'occhio sano e crollò all'indietro. Jo fece appena in tempo a vedere un ago gigantesco che gli sfondava il petto passando da dietro la schiena. We poi vide il gigante: Un indiano mostruoso, alto tre metri, apparso da chissà dove. imbracciava una siringa grande come un albero e aveva gli occhi bianchi. Completamente bianchi. E le braccia tatuate, enormi e incrostate di sangue rappreso. Il mostro fissò con quegli occhio vuoti Jo e poi spostò lo sguardo su Viola. Si slanciò in avanti con la siringa stretta come una lancia. Viola gridava.
Mikaela si risvegliò perchè si sentiva bagnata. Che diavolo le era successo? Ricordava la botta in testa, ma non sapeva chi poteva essere stato? Si guardò le mani e vide che erano coperte di sangue. Sussultò, ma poi capì che non era suo: stava invece piovendo dal cielo. terrorizzata, iniziò a correre mentre le tornava alla mente il cavaliere. Che fine aveva fatto? Non lo sapeva e mai avrebbe potuto saperlo, pensò. Ma nemmeno le importava. Voleva andare a casa, voleva che tutto quel grande incubo finisse. Ma qualcuno era del parere contrario evidentemente, perchè la strada le fu sbarrata da qualcosa. Mikaela aveva avuto un cucciolo una volta: era un cagnolino dolcissimo, un piccolo pastore tedesco che si chiamava Dexter. era dolcissimo ma non sopportava suo fratello, gli ringhiava sempre contro. poi un giorno Mikaela lo aveva trovato in giardino, con la gola aperta. asveva pianto, aveva urlato, ma lui era rimasto così, immobile. Non seppe mai chi era stato. Suo fratello pianse, anche se il cane non lo aveva mai preso in simpatia e Mikaela non aveva mai visto il fratellino così turbato. Ora, sotto quella pioggia di sangue battente, Mikaela si ritrovava davanti a dexter: era lui, solo che era più grande, con il pelo arruffato e i denti aguzzi: ringhiava e rantolava, con una bava giallastra che gli colava dai denti affilati. Gli occhi erano rossi e brillavano come se vi fosserio due lampadine dentro.
"Dexter?" disse Mikaela in preda al panico. Il cane, che sembrava piuttosto una iena fuggita dall'inferno, si mise in posizione di attacco. Anche Mikaela, come Viola, urlava.
Peter langstorm era seduto in casa, sulla poltrona. ora la vecchia con il corpo martoriato poteva toccarlo e lui snetiva che il tocco non era solo nella sua testa. "E' iniziata davvero?" domandò lui.
"Si, amore mio" rispose la vecchia con la voce fredda e mopstruosa. La sua carne era continuamente divorata da lombrichi che si muovevano sotto la pelle. "E' iniziata e adesso tocca a te. Apri la tuia mente. fallo entrare".
Langstorm si mise le mani sul volto. "Non voglio" disse.
"Devi. Devi!". langstorm urlava mentre la donna gli afferrava il volto e cercava di infilargli la lingua putrescente tra le labbra. "Sei mio, amore e farai quello che voglio". E infine anche langstorm urlava.
Nella stanza buia, invece, Lui rideva.
giovedì 6 gennaio 2011
CAPITOLO 7- TEMPUS FUGIT
Mikaela si trovava in una chiesa buia. Dalle finestre ad arco con i vetri a mosaico ogni tanto faceva capolino un lampo di luce che illuminava tutto a giorno: fuori c'era un temporale spaventoso, poteva sentire il rimbombo dei tuoni. Non aveva idea di come fosse arrivata lì, ma sentiva che c'era un motivo ben preciso; non si era nemmeno accorta di essere nuda, ma in quel momento non le sarebbe importato minimamente. Si sentiva come attratta da una forza che non riusciva a identificare, ma la percepiva chiaramente: sembrava venire da dietro l'altare. Attraversò il corridoio che si apriva tra le file di panche non facendo caso al marmo freddo che aveva sotto ai piedi scalzi, non sentiva freddo, anzi era come se sulla sua pelle ci fosse qualcosa di caldo che la proteggeva. Un lampo le illuminò gli occhi color nocciola, che in quel momento erano fissi e intenti a scrutare qualcosa nell'ombra,qualcosa di troppo nascosto nel buio fitto per poter essere realmente visto. I capelli lunghi e mossi le cadevano morbidamente sulle spalle, scuri e profumati, il suo corpo era sinuoso, la pelle morbida e pallida e i lampi creavano un gioco di luci e ombre che valorizzavano ogni curva, da quelle morbide e sode dei seni ai fianchi: era di una bellezza sconvolgente, sinuosa e sensuale, soprattutto con quell'espressione assorta e preoccupata che aveva in volto, involontariamente tenera e spaurita. Le sue gambe si muovevano come se non fosse lei a volerlo e nella mente covava un solo morboso pensiero: raggiungere l'altare, che sembrava distante chilometri. In effetti la chiesa era molto più lunga del solito e gli sembrava di stare camminando da ore, ma non voleva cedere, o piuttosto non poteva. Nelle orecchie sentiva come un ronzio, forse una voce lontana e molto confusa che aumentava mano a mano che si avvicinava alla navata. Ancora pochi passi e sarebbe arrivata dove voleva arrivare, senza badare al frastuono del temporale e ai lampi che a tratti la illuminavano in tutta la sua bellezza sincera. Il suo piede destro tocco il primo dei tre gradini coperti da un tappeto grigio: era arrivata alla meta. Salì gli scalini e oltrepassò l'altare, dietro al quale c'era come un muro d'ombra, impenetrabile e carico di un'energia spaventosa, malvagia. quando vi fu davanti il buio venne squarciato da un sottile cono di luce che illuminava qualcosa: Mikaela pensò che era ovvio. Nuda com'era, bella e pura, allungò una mano dalle unghie lunghe verso l'oggetto, conscia che poteva rivelarsi un grave errore, ma in fondo si trattava di qualcosa di sacro: quello che aveva davanti era un crocifisso gigantesco, di legno nero come la pece, forse ebano. Il ronzio che aveva nelle orecchie ora era un frastuono assordante e sentiva quasi il bisogno di tapparsi le orecchie con tutta la forza che aveva nelle dita, ma resistette. Il crocifisso sembrava permeato da un'aura magnetica di cui Mikaela avvertiva quasi la forza: allungò la mano, desiderando di poterlo toccare. Quando la punta del suo indice era a pochissimi millimetri dal legno il ronzio cessò e lasciò posto ad una voce sibilante: era agghiacciante, non aveva niente di umano e si stava rivolgendo a lei. "Vieni a me... Vieni a me, coraggio".
La ragazza si sentiva attratta da quella forza soprannaturale ma ne aveva anche una gran paura: cosa sarebbe successo se avesse toccato il crocifisso? Ma soprattutto non capiva perchè ne fosse tanto ossessionata, proprio lei che non aveva mai creduto, che non aveva mai avuto fede in Dio. "Ma io non sono Dio, Mikaela" disse la voce cupa e demoniaca nella sua testa "Io sono molto, molto di più". Fu un istante: con un gesto fulmineo la ragazza appoggiò una mano sul legno nero e sussultò: era freddo come la morte, liscio come il vetro e lo sentiva quasi vibrare sotto alla pelle. Ebbe appena il tempo di registrare queste sensazioni e poi si sentì attraversare da una scossa: ogni centimetro del suo corpo soffriva, voleva urlare ma non poteva farlo, aveva la giola come paralizzata. Non respirava. Il suo corpo nudo ebbe uno spasmo e venne scaraventato all'indietro, mentre il crocifisso si spezzava con uno schianto; era rimasto in piedi solo un pezzo del tronco e nel punto in cui si era spezzato scaturiva una luce azzurra che emanava un freddo spettrale. Ora la voce risuono in tutta la chiesa, mentre i lampi illuminavano tutto dalle finestre. "Adesso lo capisci, Mikaela?" disse la voce "Capisci che sei curiosa? I curiosi sono stolti, Mikaela. E lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo...".
"Ci cade dentro!" strillò Mikaela in preda ad un dolore lancinante che non capiva da dove venisse. Riuscì a puntare lo sguardo sul crocifisso anche se era accasciata al suolo e lo vide: un fumo sottilissimo, come quello che viene sprigionato dal ghiaccio, scaturiva lentamente dal legno e si muoveva sinuosamente. Mikaela non poteva crederci ma lo aveva davanti a sè: il fumo si stava disponendo a formare una sagoma e quando si fermò, la ragazza si ritrovò a guardare un essere spaventoso. Era completamente costituito da quel fumo sottile ma i lineamenti e le forme erano inconfondibili: era alto e ammantato, con i capelli lunghi e un paio di occhi fissi, un viso allungato e la bocca aperta munita di zanne, le mani armate con artigli lunghissimi. "Vedi Mikaela" disse la figura avvicinandosi "Tu adesso mi vedi così, ma questo non sono io. E' così che tu ti sei sempre immaginata il male, credo. Mi è più comodo mostrarmi così, ma vedi... io posso essere anche tante altre cose". Si chinò sulla ragazza e la toccò: era ghiacciato e Mikaela sussultò.
"Chi sei?" sussurrò la ragazza, terrorizzata. La figura di fumo la guardò con quegli occhi fissi e punto lo sguardo in quelli di lei: erano a dir poco meravigliosi, scuri ma intensi, con quel taglio splendido.
"Io" disse lo sconosciuto "Sono quello che tormenta i tuoi sogni. Quello che sta per tormentare la veglia di tutti voi. Io sono il Male, ragazza. Sei molto bella, ma ho imparato una cosa sulla bellezza umana: è effimera!" e con un gridò abbassò violentemente gli artigli sul corpo inerme di Mikaela. La ragazza si svegliò con un urlo. Era stesa sul divano e ci mise qualche secondo per realizzare cosa fosse successo.Si alzò a sedere: aveva la fronte imperlata di sudore e qualche ciocca di capelli appiccicata alla pelle; si ricompose e cercò di realizzare cosa fosse appena successo. Ricordava solo che si era stesa sul divano e all'improvviso si era ritrovata in quella chiesa. Aveva sognato, ovvio, ma le era parso tutto così dannatamente reale, poteva ancora sentire quella sensazione di terrore cieco che l'aveva immobilizzata. E poi l'uomo di fumo, quello lo aveva ben presente: aveva l'aspetto di un uomo che tempo prima l'aveva spaventata a morte. era un amico di suo padre, un collega di lavoro. Da parecchio tempo ogni volta che la vedeva si comportava in maniera fin troppo gentile, se la trovava a camminare per strada si offriva volentieri di darle un passaggio. Mai avrebbe pensato che fosse uno schifoso bastardo, se ne accorse solo quando un giorno invece di portarla a casa la condusse in un capanno vicino al bosco. Quando capì cosa stava per succedere era già bloccata nella sua stretta: l'aveva portata dentro al capanno e l'aveva sbattuta contro il tavolo. lei urlava ma lui aveva un coltello e non poteva fare nulla, si sentiva impotente, inerme. Proprio quando lui stava per sfilarsi la cintura era successo qualcosa: lo aveva visto sgranare gli occhi e indietreggiare, tenendosi il braccio sbavando. Dopo pochi secondi era crollato per terra. Era scappata ed era tornata in città, sotto shock: ci erano voluti mesi perchè riuscisse a uscire di casa senza sentirsi morire e questo aveva fatto peggiorare la situazione in casa. i suoi genitori avevano già perso un figlio e rischiare di perdere anche lei li aveva oltremodo distrutti, facendoli addirittura arrivare a pensare che lo stesso uomo che l'aveva aggredita poteva aver ucciso il loro unico figlio maschio, ma le indagini che ne seguirono li avrebbero smentiti. Jeremy era stato ucciso da qualcun altro. Ma in quel momento Mikaela stava pensando a quello che aveva sognato: il suo defunto aggressore, ma non era veramente lui, glielo aveva detto... aveva solo assunto quelle sembianze per terrorizzarla, ma era qualcosa di più. Qualcosa che a quanto pare stava per uscire dall'ombra: Mikaela era sicura che quello non era un semplice sogno, era solo il culmione di tutto l'orrore che da tempo avvertiva come un cancro nella sua testa, lo stesso male che la tormentava ogni notte. Solo che questa volta si era manifestato più chiaramente. Guardò l'orologio: le cinque. Aveva dormito per un paio d'ore, mentre sua madre era al funerale del giovane Pat Turner. Si alzò e andò in bagno per sciacquarsi il viso: quando fu davanti allo specchio si guardò. Era splendida, anche se lei non alo avrebbe mai ammesso, non si riteneva carina, ma in quello aveva grandemente torto. Si passo una mano tra i lunghi capelli mossi e cercò di pettinarli. Era incredibilmente sensuale con quella semplice maglietta a maniche lunghe color verde bottiglia e i jeans stretti
(Sei molto bella)
l'ovale del viso morbido con una ciocca ondulata che andava ad incorniciarlo
(ma ho imparato una cosa sulla bellezza umana)
le labbra perfette leggermente increspate in quel momento
(è effimera!)
e gli occhi color nocciola. Li chiuse per cercare di pensare, aveva ancora la voce di quel mostro nella testa. Era bellissima a quanto pareva. Ma non era felice di sentirselo dire da quell'essere, doveva capire cosa diavolo stava succedendo. la cosa che più la inquietava era che non si sentiva stupita nel ritrovarsi a credere in un essere soprannaturale pronto a emergere dall'oscurità. Perchè le sembrava quasi ovvio? C'era qualcosa che non le tornava, era tutto troppo assurdo. Troppo. Andò in camera sua e si sedette alla scrivania, sospirò e prese in mano la matita: una volta aveva funzionato, perchè non tentare di nuovo? Chiuse gli occhi e appoggiò la punta sul foglio. La mano iniziò a muoversi da sola, memntre lei si sforzava di concentrarsi: quando era stata portata in quel capanno aveva subito un grave shock ed era stata costretta ad andare in cura da uno psichiatra perchè potesse superare il trauma. Se c'era una cosa che davvero sapeva fare bene, era disegnare e questo il dottor Darnell l'aveva capito. Le disse di concentrarsi e di lasciare che la sua mente le muovesse la mano: così, a occhio ciusi, Mikaela quella volta aveva disegnato una ragazza identica a sè stessa che veniva afferrata da un mostro molto simile a quello che aveva sognato, solo che quel giorno era semplicemente il modo in cui nella sua mente vedva il suo aggressore. E adesso lo aveva sognato. Quindi si chiedeva cosa sarebbe accaduto se avesse ripetuto in quel momento l'esperimento, forse sarebbe emerso qualcosa di interessante dal suo subconscio. Forse. Il grafite della mina tracciava ampie linee sinuose sulla carta bianca, trasformandola e dandole un nuovo significato mentre gli occhi di Mikaela guizzavano sotto alle palpebre serrate: aveva gli occhi chiusi ma vedeva. Vedeva. Era buio ma riusciva a intravedere qualcosa, era come una stanza, sentiva di starla disegnando, stretta e alta. No, non una stanza... piuttosto un tunnel, verticale e infinito. Annusò l'aria istintivamente: sentiva odore di muffa. Perchè sentiva odore di muffa?
(Il cervello ti si è fritto, altrochè, miss Mikka Mukka)
sobbalzò nel sentire la voce del suo fratellino nella testa. Mikka Mukka. La chiamava così, e le diceva sempre che aveva il cervello fritto. Le mancava, più di ogni altra cosa. Ora le sembrava quasi di sentire nelle ossa l'umidità della stanza che stava disegnando, era tremendo. Aprì gli occhi risvegliandosi da quella visione e osservò il foglio: davanti a lei c'era uno schizzo perfetto. era chiaramente l'interno di una struttura stretta e alta, con mattoni umidi alle pareti.Chiaro e inequivocabile. Aveva disegnato l'interno di un pozzo.
'Cazzo' pensò 'Cazzo. Che diavolo significa?'.
Frida Nelson stava preparando il the. Adorava berlo mentre parlava con suo padre, anche se sapeva bene che lui non la sentiva. Ma lo stesso le piaceva entrare nella stanza buia, chiudere gli occhi e sorbire il liquido caldo e ambrato mentre parlava del più e del meno con l'unica persona che restava con lei.; certo, era in uno stato vegetativo e aveva solo qualche piccolo spasmo ogni tanto, ma negli ultimi tempi le sembrava quasi che lui la potesse sentire, era convinta di percepirlo più ricettivo, ma forse era solo una sua idea. Quando il bollitore iniziò a fischiare Frida spense il fornello e versò il the fumante in una tazza di ceramica azzurra, poi salì le scale ed entrò nella camera dove riposava suo padre. Era buio pesto, ma Frida non voleva far entrare troppa luce. A suo padre la luce non era mai piaciuta e anche se il dottore le consigliava sempre di arieggiare il locale e spalancare le finestre, lei non ne voleva sapere: suo padre amava il buio quando era cosciente e lo amava anche ora che era ridotto ad uno stato vegetativo, ne era certa. Si sedette su una sedia e iniziò a parlare. "Giornata assurda oggi. Quello che è successo in chiesa ha dell'incredibile, ma te l'ho già detto prima. A volte mi chiedo perchè accadano certe cose così strane, ma del resto Nostro Signore opera per vie misteriose e chissà, forse si è trattato di un a strana reazione chimica, chi può dirlo?" fece una pausa per sorseggiare del the. "Oggi sei più inquieto del solito" continuò. Il corpo nel letto era scosso da piccoli sussulti: capitava spesso ma quel giorno era come se il corpo di suo padre stesse cercando di risvegliarsi. Era strano. Frida continuò a parlare nel buio, talvolta accarezzando la fronte imperlata di sudore del vecchio, con la dolcezza che metteva in ogni gesto nei suoi riguardi: doveva molto a suo padre ed era per questo che si era sobbarcata la responsabilità di accudirlo, sorprendendosi nel vedere che non era assolutamente una grave incombenza come aveva pensato all'inizio. Era molto sola e lui in un modo o nell'altro le faceva compagnia. Dopo aver bevuto il the scese al piano di sotto per sistemare alcune faccende, lasciando da solo il vecchio. La stanza era immersa totalmente nel buio e l'unico rumore che si poteva sentire era il rantolo che emetteva il corpo steso nel letto. E poi c'era quel sussulto, continuo e quasi impercettibile, come se il corpo fosse scosso dall'eccitazione. Frida era sulle scale quando sentì il verso. Si voltò e ascoltò attentamente: ancora una volta il silenzio fu rotto da un lamento. Spaventata, la donna corse nella stanza dove riposava suo padre e istintivamente accese la luce. Desiderò non averlo mai fatto: il vecchio era seduto sul letto con gli occhi spalancati e completamente neri anche dove normalmente dovrebbe esserci il bianco, la bocca aperta come in un silenzioso grido di terrore, le gengive scoperte. E quel lamento basso e sottile invadeva la stanza.
"Papà" strillò Frida "Mio Dio che ti succede?". Frida piangeva, non sapeva cosa fare.
Il vecchio mosse gli occhi e la guardò, rantolando ed emettendo quel lamento figlio inequivocabile di chi non riesce a respirare bene. "Il pozzo" biascicò "Lo straniero. Finalmente. Finalmente!" gracchiò infine. Frida avrebbe voluto urlare ma non ne ebbe il tempo: sentì una fitta al torace e venne scaraventata all'indietro, picchiando la testa contro il muro. Stordita, Frida cercò di rialzarsi, ma quando aprì gli occhi vide che suo padre la stava fissando intensamente con quei suoi occhi completamente neri: avvertì una morsa di panico serrargli la bocca dello stomaco, mentre la vista gli si confondeva. Il vecchio era ancora seduto nel letto con quell'espressione vacua e terribile: Frida si accasciò sul pavimento, oramai praticamente priva di coscienza; poteva solo avvertire gli occhi che le si scioglievano colando sulle guance in una poltiglia appiccicosa. Pochi secondi dopo la donna giaceva esanime a terra, con una bava grigiastra e striata di rosso che le gocciolava dalle orecchie.Il vecchio nel letto rimase immobile, ma consapevole: ormai era tutto pronto, finalmente si sarebbe liberato e lo Straniero era in suo potere. Doveva solo uccidere la ragazza, ma per quello c'era ancora tempo, ancora pochissime ore e avrebbe portato l'inferno a West Coburn.
Lo sceriffo Gambon rimase di sasso quando gli riferirono quello che era successo un paio d'ore prima: la chiesa era andata a fuoco dopo l'esplosione della bara del giovane Turner. Era chiaro che qualcosa non quadrava, ma era sempre stato restio a credere nel soprannaturale, anche se nelle ultime ore erano successe molte cose che avevano dell'assurdo. Al momento si trovava in ospedale, chino sul letto in cui giaceva, in stato catatonico, Reginald Langstorm. Accanto a lui c'era il padre dell'uomo, Peter, alto e azzimato, con i radi capelli rossicci ben pettinati.
"Peter, non vorrei dovertelo chiedere, però..." iniziò Gambon, cercando di assumere un tono diplomatico.
"Non lo so perchè l'ha fatto" rispose langstorm con voce piatta "E' pazzo, Hannibal. Violento. Non credo ci siano altre spiegazioni".
"E Crandon?" continuò lo sceriffo.
"Cosa?" chiese Langstorm, stupito oltremodo. aveva sentito bene?
"Continuava ad urlarlo, poi è diventato così" spiegò lo sceriffo, indicando gli occhi vitrei e spalancati di Reginald: non aveva mai visto un tale sguardo, così vuoto e triste.
"Non... Non so cosa potrebbe essere" replicò Langstorm "Senti hannibal, da quanto ci conosciamo?".
"Molti anni" disse Gambon.
"E se ti dicessi che stiamo per morire tutti, cosa rispinderesti? Ti fideresti di me o mi daresti semplicemente del pazzo?".
"Peter, non credo di capire dove vuoi arrivare. Perchè diavolo staremmo tutti per morire?".
"Non ho detto che stia per accadere. Ti ho chiesto se mi crederesti in un'ipotetica situazione simile".
"Sei sconvolto, ti capisco. Beh, credo che ti darei ascolto. Magari non ti crederei subito, ma non ti darei del pazzo. Ogni persona può credere quello che vuole, Peter. E se tu ne fossi convinto allora credo che nessuno potrebbe farti cambiare idea. Ma tu credi davvero che stiamo per morire tutti vecchio mio?".
"No" disse Langstorm con un debole sorriso "E' solo che sono a pezzi. Ho bisogno solo di sapere se ho almeno i vecchi amici vicino".
"Sempre, vecchio mio. Vai a casa ora, resto qui io".
"Che ore sono?".
"Le sei meno dieci".
"Va bene. Tornerò verso..." fece per dire Langstorm.
"Prima che mi dimentichi" lo interruppe Gambon "Ha detto qualcosa circa il nono rintocco. E' successo tutto poche ore fa... credo si riferisse alle nove di stasera. Che succede a quell'ora?".
Langstorm fissò suo figlio tristemente e poi si rivolse allo sceriffo: "Succede che lui sarà ancora in questo letto, con gli occhi spalancati. E noi qui fuori dal mondo in cui è sprofondato e da cui non uscirà più. Devo andare" e detto questo si congedò.
Peter Langstorm camminava da solo nell'aria fresca del tardo pomeriggio. ma aveva in mente pensieri cupi, di morte: ormai aveva capito cosa stava succedendo. "Perchè lui?" domandò a voce alta, ma senza gridare.
"ma tesoro" sussurrò una voce calda e morbida, eppure lievemente minacciosa "Lo sai il perchè".
Langstorm guardò alla sua destra e la vide: la solita vecchia disgustosa con la pelle marcia, le orbite vuote, le gengive cave e nere. i suoi capelli erano lunghi e disgustosi, come alghe appassite. "Hai sempre avuto una predilezione per Reginald. Era solo un ragazzo, eppure hai voluto tormentarlo lo stesso. perchè lo fai? Perchè vuoi ucciderci tutti?".
"Amore" replicò la voce, questa volta gracchiante e sgraziata "Lo faccio perchè devo. Perchè mi diverte, perchè vi adoro tutti" concluse ridacchiando "Vi adoro perchè mi fate divertire, siete così buffi quando soffrite".
"E' per stasera, dunque. Stavo pensando, che accadrebbe se io ora andassi a casa, afferrassi un rasoio e mi aprissi i polsi?".
"Non accadrebbe nulla, tesoro mio. Prenderei il rasoio e lo farei sparire. Se tu morissi sarebbe solo perchè l'ho deciso io, e non voglio perderti adesso. Mi servi, oh sì tesoro, mi servi proprio".
"Lo immaginavo. E se io non volessi collaborare?".
"Ma tu non puoi scegliere! Se ti rifiutassi dovrei costringerti con la forza della persuasione e sai quanto io sia brava in questo. No, preferisco averti lucido, amore".
"D'accordo, non posso sottrarmi" disse Langstorm lentamente " Ma una cosa per me la puoi fare forse".
"Tutto quello che vuoi amore mio".
"perfetto. Allora smettila di chiamarmi amore. Lana è morta, smettila di imitarla. Mi disgusti" e detto ciò accelerò il passo. Tanto lei lo avrebbe seguito anche se fosse andato alla velocità della luce. ma con sua inorridita sorpresa si senti afferrare il polso da una mano viscida e fredda: ne avvertiva la stretta.
"Amore, tu non detti condizioni" disse la vecchia con un sorriso tutto gengive. Sulla fronte aveva delle piaghe cancrenose che quasi scendevano a divorarle gli occhi. Un balenio bianco offuscò una delle narici mangiate dalla decomposizione e un verme paffuto fece capolino, muovendosi lentamente. La pupilla dell'occhio sinistro era biancastra e nella sclerotica si muovevano tanti piccoli moscerini. "Non sono più solo un parto della tua mente: ora sono vera. e tra tre ore lo saranno tutte le altre cose". E poi accadde una cosa che ebbe dell'assurdo.
Viola era ancora con Jo, a casa. Era abbracciata a lui sul divano, la testa appoggiata sulla sua spalla. la chiesa era andata a fuoco, la bara di Pat era praticamente saltata per aria. Cosa cazzo stava succedendo? Era come se si fossero ritrovati all'improvviso in un film dell'orrore, non aveva senso quello che stava accadendo. era in uno stato di shock molto profondo e aveva bisogno di Jo più che mai; si ritrovò a pensare a quello che provava per lui: era quella forse la cosa più strana. Era da quando si era lasciata con Pat che non aveva più provato simili sensazioni per un uomo e per di più si trattava di un perfetto sconosciuto: non sapeva assolutamente nulla di lui, nulla. Eppure lui era lì che le stava accarezzando i capelli scuri e lisci, contemplando il suo sguardo fisso e spaventato. Si sentiva al sicuro con lui, come se niente potesse accaderle, non sapeva che nome dare a quel sentimento, ma era certamente qualcosa di molto forte. E questo non aveva alcun senso logico. Poche ore prima erano stati sul punto di baciarsi, ora invece erano legati da una sintonia impressionante, come se in quel momento le loro menti fossero collegate da un legame invisibile: lui sentiva la paura di lei e lei sentiva la calma rassicurante di lui. Ma in realtà Jo non era poi così calmo: aveva paura, ma cercava di dissimulare quel sentimento per non allarmare Viola. Quanto avrebbe desiderato un sorso di whisky in quel momento! ma non poteva, doveva stare con lei: era lei il suo whisky adesso, calda e sensuale. fece scivolare una mano lungo il suo ventre, accarezzandola e la sentì scuotersi in un brivido di piacere.
"Sai" disse lei all'improvviso "Non so perchè, ma credo che ci sia qualcosa in te che mi attragga in maniera incredibile".
"La cosa è reciproca. Per anni ho cercato una come te, una che non avessi bisogno di imparare a conoscere. Ed è così: non ho bisogno di conoscerti per capire che sei la cosa più bella che io potessi desiderare" disse lui avvicinando il viso al suo. Fu un istante e le loro labbra si toccarono: quelle di lei erano morbide e calde. Si baciarono a lungo stringendosi con passione, abbandonandosi completamente e dimenticando quello che era successo in quelle ore. Lei gli mise una mano intorno al collo e lo tirò a se, cadendo distesa sul divano e sentendo il corpo di lui che si appoggiava delicatamente sopra il suo. Istintivamente Viola portò una mano a slacciare i primi bottoni dei jeans e subito dopo sentì la mano di Jo che si insinuava dolcemente in basso, dentro all'indumento. Gli occhi di lei si socchiusero e si morse leggermente il labbro inferiore quando avvertì la prima ondata di piacere e con le dita strinse la spalla di lui, che nel frattempo le baciava languidamente il collo liscio e profumato. Lei non pensava più a niente, solo alle senzazioni che le stava provocando il tocco intimo e delicato di lui, deciso ma allo stesso tempo dolce. Era scossa dal piacere e non le era mai capitato prima di essere investita da una tale forza, era come se conoscesse quell'uomo da una vita, sapeva esattamente come toccarla, cosa dirle. Ansimò in preda a ripetuti brividi caldi che le arrossarono leggermente le pallide guance, gli occhi offuscati da un velo di lacrime. Poi si abbandonarono completamente l'uno all'altra.
Jo era in bagno e ripensava a quello che era accaduto poco prima. Era stata l'esperienza più incredibile che avesse mai provato e non credeva di aver mai incontrato in nessuna una simile energia. Era stato meraviglioso, intimo e incredibilmente potente: i loro corpi si erano uniti con una naturalezza straordinaria e le loro menti si erano sintonizzate come mai prima. per qualche secondo addirittura gli era parso di riuscire a sentire i pensieri di lei ed era stato investito da una passione tale che aveva quasi perso i sensi. Viola era ancora abbandonata sul divano con gli occhi chiusi e nella mente tutto quello che avevano fatto pochi minuti prima. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai. Si rimise i vestiti e ripensò al momento in cui le era parso di sentire nella testa la voce di lui che le sussurrava quanto l'amasse. Ma era certa che lui non aveva parlato, era come se ne avesse percepito i pensieri.
Jo non poteva credere di avere pensato di amarla eppure era quello che sentiva in quel momento: la amava. Non la conosceva, ma la amava, quasi fosse qualcosa che non poteva controllare. Non glielo avrebbe detto però, non era il momento ancora, era troppo presto.
Viola sentiva di amarlo, anche se la cosa le pareva impossibile. Ma era così, quello che provava era inequivocabile. Mentre pensava questo non fece caso all'orologio appeso al muro: erano le sei e in quello stesso momento Peter Langstorm veniva afferrato al polso dalla donna morta che lo perseguitava. Fu in quel momento che accadde: come amplificati da mille megafoni echeggiarono ovunque sei rintocchi di campana. Viola si strinse la testa: era come se una campana stesse rintoccando nel suo cervello, credette di impazzire e allostesso modo Jo si ritrovò accovacciato a tapparsi le orecchie. Era così in tutta West Coburn: per qualche secondo tutti, dai bambini agli anziani, dovettero stringersi forte la testa, spaventati da quel fenomeno improvviso. Solo Reginald Langstorm nel suo letto di ospedale sembrava non esserne infastidito: rimase immobile eccetto per le labbra, che si stesero in un sorriso largo e quasi ebete.
Quando tutto fu finito, Viola vide Jo che accorreva per vedere se le fosse successo qualcosa. "la campana" disse Viola con calma "Come fa a suonare la campana?".
"Cosa vuoi dire?" replicò Jo, stringendola a sè.
"La chiesa è andata a fuoco, e anche il campanile. Come può suonare?". Jo la fissò: aveva ragione. Che diavolo stava succedendo?
Mikaela si mise al collo il ciondolo a forma di pentacolo e uscì di casa. D0accordo, stava decisamente impazzendo: prima il sogno, poi il disegno... qualcosa non andava. Doveva capire che cosa le stava succedendo e soprattutto voleva sapere se tutto ciò avesse a che fare con la morte di suo fratello. Giocò per un po' con il piccolo pentacolo di metallo mentre camminava, poi si avviò i lunghi capelli all'indietro e infilò le mani nelle tasche del giubbotto di pelle. All'improvviso si sentì attraversare il corpo da una scarica: sussultò e si voltò alla sua destra. Era davanti a una grossa gasa in legno con tanto di giardino: sapeva chi viveva lì. Era una signora di mezz'età che accudiva il padre paralitico se non ricordava male, gliene aveva parlato sua madre tempo prima; si avvicinò sentendo crescere quella sensazione strana, quasi elettrica, che l'aveva investita pochi istanti prima. C'era qualcosa in quel luogo che forse poteva aiutarla? istintivamente aprì il cancelletto nella staccionata ed entrò nel giardino: sentiva un sibilo provenire dal retro. Facendo attenzione a non essere scoperta fece il giro della casa e quando fu nel giardino sul retro si sentì mozzare il fiato: quello che aveva davanti era... un pozzo. Vecchio e costruito con grezzi mattoni pietra intagliata, l'arcata di metallo con una corda marcia legata che si precipitava all'interno in tutta la sua lunghezza. Il sibilo proveniva dal fondo del pozzo. Mikaela si avvicinò per guardare cosa ci fosse dentro: si sporse e vide una luce abbagliante, poi udì la voce, cupa e fredda, maligna: "Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo...".
"No!" gridò Mikaela gettandosi all'indietro proprio mentre sentiva un'aria fetida e calda accarezzargli il volto. cadde distesa per terra e guardò il pozzo: proprio dove c'era lei un attimo prima era sopraggiunto un vento che veniva risucchiato dalla bocca del pozzo, con un rumore sibilante. Se non si fosse spostata in tempo sarebbe stata risucchiata anche lei: si alzò e corse via da quel luogo, mentre la voce echeggiava minacciosa: "Credi che questo basti per salvarti? Finirete tutti nel pozzo, tutti!".
Mikaela correva a perdifiato con una paura profonda nel cuore: il male, si era risvegliato il male e adesso ne aveva la certezza. La corsa della ragazza fu interrotta da un'esplosione nella sua testa: spalancò gli occhi e si portò le mani alle orecchie cercando di attutire il rintocco di mille campane. Cadde a terra e urlò, urlò fino ad arrochirsi la voce mentre le sfilavano nella mente un milione di immagini diverse. Quando il suono cessò si rimise in piedi , inorridita, ripensò a cosa aveva appena visto. Per la prima volta nella sua vita pronunciò le due parole in cui non aveva mai creduto. "Dio mio" sussurrò. Stava per scoppiare il caos. Poi sentì una mano che le si appoggiava sulla spalla: sussultò e si voltò. Qualcosa la colpì con violenza e poi fu il buio.
Erano le nove meno dieci e lo sceriffo Gambon era ancora in ufficio. Dieci minuti. Non sapeva perchè fosse così curioso di sapere che cosa sarebbe successo alle nove, ma non poteva farne a meno. Si sentiva impotente e sapeva dentro di sè che tutto quello che stava accadendo sfuggiva al suo controllo. pensò a Cartbury, a Viola, al forsetiero che sembrava così stranamente legato a sua figlia... C'era qualcosa di mostruoso dietro agli avvenimenti delle ultime ore e voleva capire di cosa si trattasse, ma poteva solo aspettare. Era frustrante per uno come lui. Improvvisamente fu coltò da un'illuminazione: aveva detto a Samson di chiamare subito Viola quando reginald Langstorm aveva dato di matto, ma poi non era venuta. e lui non si era nemmeno ricordato di averla fatta chiamare. perchè? Si rese conto che non aveva più pensato a sua figlia in tutta la giornata fino a poco prima. Come se qualcosa gliel'avesse estirpata dalla mente. Pensò che aveva paura, nemmeno se avesse avuto di fronte un serpente gigante si sarebbe sentito più spaventato e non era cosa da poco, dato che la sua ofidiofobia era spaventosamente grave. Davanti ad un serpente si paralizzava e si sentiva morire. Una volta aveva sognato un boa gigantesco che usciva dallo scarico del lavandino sfondandolo. Ne aveva parlato a Viola e ne era rimasta molto impressionata.
Gambon si passò una mano tra i capelli grigi e si alzò, avviandosi verso l'uscita della centrale, saluutando il poliziotto che sarebbe rimasto lì tutta la notte. Spalancò la porta e guardò il cielo: nuvole violacea si erano addensate ovunque ne un forte vento stava spazzando le strade. All'improvviso si udì un urlo agghiacciante, ma non di terrore: un urlo minaccioso, come se il male stesse per irversarsi nelle strade. Subito dopo si udì un chiaro rintocco di campane. Non forte come quello di tre ore prima, ma ugualmente limpido. Nove rintocchi.
Reginald Langstorm era nel letto immobile e udì i nove rintocchi. "Crandon" disse.
"Si" gli rispose la voce minacciosa "E' iniziato".
Dal pozzo dietro alla casa di Frida Nelson esplose un fascio di luce e sul bordo di pietra comparve il guanto di un armatura e poco dopo un cavaliere nero si issò fuori. Aveva un lungo pennacchio rosso sull'elmo. Crandon era arrivato. E con lui tutto il resto.
Nella stanza buia il corpo sussultava: era finalmente iniziato tutto. non poteva uscire da lì, ma almeno aveva ucciso la donna. Non si era resa conto che il suo papà non c'era più da un pezzo evidentemente. Non poteva muoversi ma ora poteva creare, poteva essere in tutti i luoghi attraverso le sue creature. Era quasi libero! Alla fine di tutto avrebbe lasciato quel corpo e si sarebbe riversato sull'umanità come la peste. 'Giochiamo sul serio adesso' pensò. La sua furia esplose e un istante dopo sentiva di poter raggiungere ogni luogo di West Coburn nella forma che preferiva, avvertiva la coscienza di ogni abitante e poteva leggerne le paure e le speranze. Si sarebbe molto divertito. Silenziosamente, cercò la mente di Viola, sghignazzando.
Iscriviti a:
Post (Atom)