sabato 13 novembre 2010
CAPITOLO 6- REQUIESCAT IN PACE
Jo aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Era come paralizzato da un terrore che non riusciva a comprendere, anche se sapeva di dover mantenere la calma, ma non era di se stesso che si preoccupava: Viola aveva bisogno di lui in quel momento e doveva rimanere lucido. Aveva chiamato lo sceriffo e un'ambulanza. Gambon era arrivato poco dopo l'aggressione, mostrandosi sconvolto; aveva abbracciato Viola e poi aveva voluto vedere il corpo di Cartbury: aveva guardato il giovane agente con un'espressione che era tra l'afflitto e il furioso.
"Che diavolo ti è preso, Stephen?" l'aveva sentito mormorare. Jo si rese conto che lo sceriffo doveva tenere molto a quel ragazzo e scoprire che prima di morire aveva cercato di uccidere la figlia doveva averlo scosso più di quel che si poteva immaginare. Ma com'era morto? Questo Jo non era riuscito a capirlo. Ma la sensazione che ci fosse dietro qualcosa di orribile e al di sopra dell'umana comprensione non lo abbandonava: aveva sentito una voce che niente aveva di umano ordinare a Cartbury di uccidere Viola, cosa che lo aveva ulteriormente inquietato. Era certo di averla sentita sbraitare qualcosa a proposito di uno "Straniero" e non riusciva a smettere di pensare che in qualche modo si stesse riferendo a lui. Aveva sognato? Era colpa dello stress? Jo ne dubitava: era stato tutto così terribilmente reale. Sentiva che anche Viola aveva avvertito qualcosa di strano, ma non era quello ilo momento di parlarne. Gambon aveva preso da parte Jo e gli aveva chiesto, non senza un certo imbarazzo, di restare da sua figia per quella notte, dal momento che lui doveva urgentemente tornare in centrale per interrogare Reginald Langstorm. Ovviamente Jo era d'accordo con lo sceriffo: Viola era ancora scioccata dall'accaduto.
Mentre Jo sedeva sul divano nel soggiorno di Viola, lei era sotto alla doccia, da parecchio tempo ormai, ma lui non aveva osato disturbarla. Ci voleva del tempo prima che si riprendesse. All'improvviso si trovò ad immaginare il suo corpo nudo, con l'acqua bollente che scivolava lungo la schiena, i capelli bagnati che ricadevano sulle spalle e le labbra carnose con qualche stilla che pendeva, in procinto di cadere. Jo trovava tutto questo assurdo: in fondo chi era Viola Gambon? L'aveva conosciuta solo poche ore prima, dannazione! Eppure cos'era quella stretta al cuore che sentiva ogni volta che la guardava? L'aveva sentita poche volte nella vita e fino a pochi giorni prima la sua più grande paura era stata risentire quella sensazione. Non voleva più sentirsi in quel modo: vulnerabile. Tre volte. Era stato innamorato solo tre volte nella sua vita e sempre aveva sentito quella particolare stretta, quel desiderio di avere di fianco quella persona per sempre, di non abbandonarla mai. La prima volta aveva sedici anni, lei si chiamava Rebecca: alta, capelli scuri, una gran personalità. era spiritosa e soprattutto si era dimostrata fin da subito interessata a lui e lo era stata per i tre anni successivi finchè
(Ciuf Ciuf, JoJo! E Rebecca? Puf!)
non era stata investita da un treno, una notte in cui avevano litigato. Il rumore dell'acqua proveniente dal bagno poco distante era come ipnotico ed era facile perdercisi: Jo non pensava più a rebecca da anni ormai, ma in quel momento la sua mente era come rilassata, sembrava che i ricordi dolorosi stessero sgorgando da una sorta di rubinetto mentale rotto. Ma forse sgorgare era un termine improprio, sarebbe meglio dire che stavano sgocciolando. 'Ecco, sgocciolare è più adatto' pensò Jo, mentre ripensava alla notte in cui aveva litigato con Rebecca. Era stata una cosa stupida, in fondo: lei le aveva confessato che Steve Gross l'aveva baciata qualche sera prima. Ma lo aveva rimesso subito a posto con un paio di sberle. A quel punto Jo non era riuscito a trattenersi ed era sbottato: possibile che non avesse pensato subito di dirglielo? In fondo erano anche affari suoi, no? Da li era seguita una discussione che si era accesa a poco a poco, sempre di più, fino a che non si era incendiata e lei non era uscita di casa
(Uh si si JoJo! Vivevate insieme ricordi? E tu l'hai spinta ad andare alla stazione!)
senza dire più una parola. Non l'aveva inseguita. Non l'aveva supplicata di rimanere. Non le aveva detto che si sentiva stupido -e solo il cielo sapeva quanto si sentisse stupido in quel momento- e non le aveva detto quanto l'amava. Era andata alla stazione per tornarsene dai suoi, non voleva saperne di passare la notte con lui vicino. Erano solo due ore di treno, era già successo. Aveva attraversato il binario al buio, aveva i tacchi (erano tornati da una festa, erano tutti e due in ghingheri)ed era inciampata. Non sapeva bene cosa fosse successo, se non avesse sentito il treno che stava per arrivare, forse era distratta
(e chissà perchèèèèèèè?)
sta di fatto che non aveva fatto in tempo a staccare il tacco dalla ghiaia che era stata travolta. Aveva pianto, si era disperato, aveva anche pensato di uccidersi. Era diventato una larva, non esisteva più e si riteneva responsabile di quello che era successo. Ma con gli anni aveva imparato a perdonarsi e a farsi perdonare: non l'aveva spinta lui sotto il treno. Si avevano avuto uno stupido litigio, ma avevano diciannove anni santo Dio! Tuttavia dovettero passare sette anni prima che Jo riuscisse a prendere sonno senza vedere il volto di lei, furente, mentre lasciava l'appartamento.
Aveva ventisei anni quando incontrò Nora. Lei era bella, in gamba e soprattutto usciva da una situazione molto simile alla sua: tre anni prima il suo ragazzo era morto in seguito ad un cancro che lo aveva divorato lentamente. L'aveva conosciuta al suo gruppo di sostegno psicologico: a quanto pare aveva provato a togliersi la vita tagliandosi i polsi, ma era stata salvata in tempo e di questo Jo ne era stato grato; grazie a lei era riuscito a ripartire, a rimettersi in carreggiata. La loro storia durò parecchio, circa tre anni, in cui si amarono alla follia, fino a che un giorno, tornando a casa dal lavoro, Jo non l'aveva trovata sdraiata sul letto, riversa in una pozza del suo stesso vomito. Sul comodino c'era un flacone di sonniferi vuoto, con una singola pillolina color ambra vicino all'abat-jour. Non una riga, non una sola parola sul perchè l'avesse fatto. Niente di niente. Semplicemente aveva afferrato il flacone con le pillole e se l'era svuotato in gola, senza un apparente motivo: lui la vedeva felice, l'aveva sempre creduta felice al suo fianco. Probabilmente si era sbagliato. Quella volta il colpo fu durissimo: sprofondò in una depressione spaventosa e credeva che non ne sarebbe più uscito, ma quando ormai aveva perso le speranze incontrò Rhonda. La terza donna che ebbe mai amato(ovviamente aveva avuto altre storie, ma niente di veramente serio). Quando la conobbe aveva più di trentacinque anni ed era un professore stimato nella scuola in cui insegnava letteratura. Lei era una sua collega, non era particolarmente bella, ma a lui piaceva: non tanto alta, biondastra, leggermente tozza ma con due occhi spalancati che lo facevano vibrare di stupore ogni volta che vi piantava dentro lo sguardo. la amava ma dentro di lui si agitava ancora qualcosa, una paura incredibile: non voleva che lei facesse la fine delle altre due
(le hai uccise tu Jo, le hai uccise con il tuo comportamento, non ti sopportavano!)
donne che aveva amato. Beveva. beveva tanto e senza misura, così che aveva iniziato ad odiarsi e questo odio lo riversava su Rhonda. la picchiava, forte e con rabbia. Perchè, se l'amava e voleva proteggerla? Perchè era caduto e non riusciva a rialzarsi, pensava ogni volta. Era arrivato al punto di ucciderla quasi: l'ultima volta si era fermato con la mazza da baseball a mezz'aria, pronto a spaccarle il cranio mentre lei piangeva. Lo stava per lasciare, voleva fuggire, non poteva farlo. Ma in un lampo di lucidità di era guardato allo specchio e aveva visto cos'era diventato: un mostro. Un mostro disgustoso. L'aveva lasciata andare e non ne aveva più avuto notizie. Due giorni dopo un agente di polizia si era presentato a casa sua e lo aveva portato in centrale per fargli un mucchio di domande: Rhonda era scomparsa. Dispersa. Sospettavano di lui, credevano che l'avesse uccisa, dal momento che i genitori di lei avevano spèorto denuncia. Fu così che venne a sapere che mentre lui saliva le scale con una mazza da baseball lei aveva tentato di chiamare suo padre, ma la comunicazione era caduta subito, aveva avuto giusto il tempo di chiedere aiuto e collegare le cose era stata questione di secondi.
Si era fatto una settimana demtro per percosse ma alla fine avevano appurato che lui non l'aveva uccisa. Il corpo non fu mai trovato, ammesso che fosse effettivamente morta. Era passato un anno da allora e stava cercando di cambiare vita, per questo era finito a West Coburn. Per darsi una ripulita: era sobrio da mesi e non aveva più cercato di stare con una donna, ne aveva paura. e ora era seduto sul divano di Viola, a pensare a lei, a volere lei, a desiderare lei. Non poteva essere amore, era assurdo, non la conosceva! ma provava quella sensazione, si sentiva bene. Si sentiva alla grande, tralasciando i presentimenti inquietanti delle ultime tre ore. Ma non capiva come fosse possibile, dopotutto lui non sapeva chi fosse Viola Gambon, eppure si ritrovava a sentirsi quasi innamorato di lei. Era assurdo.
Viola aveva finito la doccia e ora stava davanti allo specchio appannato: si sentiva esattamente come la sua immagine in quel momento. Appannata, sfocata, non capiva il senso di se stessa in tutto quello che stava passando. Un orrore mostruoso stava esplodendo nella sua vita e anche in quella di altre persone, con una violenza inaudita. Pat, quel barbone, gli infermieri alla clinica, Cartbury. Con quella pistola. Quell'odio negli occhi. E Langstorm, assassino improvvisato. Sentiva un brivido dietro alla schiena e avvertiva una sgradevole sensazione, come se sapesse che stava per succedere qualcosa di terribile. Di "ancora" più terribile. Aprì il rubinetto del lavandino e non uscì nulla, solo un sibilo soffocato. "Ma che..." sussurrò lei.
Un urlo agghiacciante riportò Jo alla realtà: veniva dal bagno e quella era inequivocabilmente la voce di Viola. Si precipitò in bagno e rimase pietrificato da quello che vedeva: Viola era contro il muro, con l'accappatoio azzurro aperto e il corpo nudo in bella vista, ma al momento Jo non ci fece caso. Non poteva. Viola aveva un corpo fantastico,certo, con quei seni tondi e perfetti, ma in quell'istante Jo non li vedeva neppure perchè la sua attenzione era assorbita da qualcosa di orribile: il lavandino era in frantumi e tra i cocci strisciava qualcosa di enorme e disgustoso, nero. Sulle prime Jo non seppe identificarlo, ma una cosa la intuiva perfettamente: era pericoloso. Passarono pochi secondi di shock prima che si rendesse conto che aveva di fronte un gigantesco serpente sibilante che si avviluppava su se stesso in numerose spire. 'Dio mio, che diavolo è questa cosa?' pensò Jo terrorizzato, ma non doveva lasciarsi prendere dal panico, Viola era spaventata dietro di lui e doveva proteggerla. senza pensarci due volte, afferrò una bottiglia di vetro duro contenente sali da bagno dalla mensola alle sue spalle e la sfondò contro il muro, pronto a piantare il collo spezzato nella carne della bestia viscida che si stava
(srotolando)
preparando ad attaccare, 'Perchè sta facendo questo, giusto?' pensò Jo 'Si sta preparando ad attaccare'. Il serpente era largo quanto due braccia umane messe vicine e i aveva il muso piatto, con due occhi lattiginosi che sembravano due pozzette di marmellata ammuffita incastrate nei lati del cranio. ma era la lingua la cosa più disgustosa: giallastra e triforcuta, sempre in movimento e stillante una bava biliosa.
"Lentamente" disse Jo rivolgendosi a Viola pur senza staccare lo sguardo dalla bestia "Vai di là, senza fare movimenti bruschi. vai e aspettami". Viola era paralizzata, ma si costrinse a muoversi.
"Ma tu cosa..." tentò di dire, ma Jo la allontanò con un gesto del braccio. Doveva concentrarsi. Per prima cosa: da dove diavolo era sbucato? D'accordo, aveva sfondato il lavandino squartando persino il rubinetto di metallo che ora era accantonato sulla montagnola di cocci, ma questo com'era possibile? Non aveva mai sentito parlare di serpenti tanto grossi che sbucano dal rubinetto, non in quello stato, perlomeno. Ma soprattutto non aveva mai visto nemmeno in foto una bestia disgustosa come quella e nemmeno sapeva di serpenti dalla lingua biforcuta. Quella creatura scaturiva da un incubo rivoltante, per quanto questo potesse sembrare incredibile. Ma Jo stava iniziando a capire che qualcosa non andava a West Coburn e per quanto si sforzasse di stupirsi, non ci riusciva: era come se nel suo cuore avesse sempre saputo che qualcosa di inconcepibile stava per accadere. Piantò lo sguardo su quel muso triangolare e piatto e fissò quelle vomitevoli gelatine biancastre che il serpente aveva oer occhi: erano grandi e al loro interno non c'erano pupille verticali, nossignore. dentro ciascun occhio si muovevano minuscoli insetti neri, che si dibattevano come se fossero intrappolati in quella melma lattiginosa. Era pericoloso, Jo lo sapeva. 'Ssssssssicuro!' sibilò una voce inumana che echeggiò nella testa di Jo. 'Lo ssssssono. E ora togliti Ssssssssstraniero. Non è te che voglio'. Il serpente stava parlando. 'Cazzo' pensò Jo 'E' la stessa voce che ho sentito poco prima che Cartbury attaccasse Viola'.
"Chi sei?" gridò Jo "Cosa diavolo sei?". Il serpente si srotolò e iniziò ad alzarsi: a poco a poco arrivò a toccare il soffitto con la testa: doveva essere almeno tre metri e ancora la coda guizzava in spire furiose sul pavimento, spazzando i cocci del lavandino e facendoli tintinnare come docili maracas. Jo era impotente, o meglio, lo sarebbe stato se non gli fosse venuta in mente una cosa e fu come un lampo nel cervello: cartbury non aveva attaccato subito Viola, perhè non voleva fare del male a lui. Qualunque cosa fosse quella, non lo avrebbe attaccato. Osservò le zanne del serpente: erano quattro -due superiori e due inferiori- che spuntavano dalla bocca esageratamente spalancata, tanto che le ossa del cranio si stavano slogando lentamente; ciascuna di quelle zanne era bianca come la neve e grande quanto due degli indici di Jo messi in fila e acuminata come un rasoio. Jo spinse rapidamente la mano verso il corpo gigantesco dell'animale ma per poco non morì di paura: la testa del serpente saettò rapida verso di lu e se non si fosse abbassato provvidenzialmente gli avrebbe staccato la testa con un morso. Invece frantumò le piastrelle che ricoprivano la parete alle sue spalle, provocando un gran frastuono. Jo ne approfittò per conficcare il collo di bottiglia spezzato nel fianco dell'animale: la carne nera si squarciò con un rumore disgustoso, come di salsa grumosa che viene gettata sul pavimento all'improvviso; dalla ferita sgorgò un fiotto di sangue denso nel quale nuotavano grossi insetti simili a mosche, solo più grossi. Jo non riuscì a trattenersi e vomitò, scosso da conati violenti: si riprese giusto in tempo per vedere la testa del serpente che con un sibilo irato guizzava nuovamente verso il suo viso. Ebbe appena il tempo di afferrare un coccio di specchio -quando si era rotta la specchiera?- e frapporlo lungo la traiettoria della bestia immonda: sentì che il suo braccio veniva ingoiato per metà, ma le zanne non lo sfiorarono. Il coccio che aveva in mano sporgeva con la punta affilata verso l'alto e venne inghiottito insieme al suo braccio, conficcandosi nel tenero palato del bestione, che quasi non si accorse di andare incontro alla morte cercando di fagocitare la sua preda. Il pezzo di vetro squarciò la carne del serpente conficcandosi fino all'osso del cranio e frantumandolo. Il tutto accadde nel giro di due secondi: Jo avvertì uno strappo gorgogliante e quando riapri gli occhi aveva il braccio affondato in un gigantesco serpente con la testa aperta a metà, il sangue grumoso che gli inzaccherava la manica fino alla spalla. Estrasse il braccio disgustato e si levò di dosso alcuni mosconi inzuppati di quel fetido sangue nerastro. osservò attonito lo spettacolo che aveva di fronte: il serpente era gigantesco, riempiva completamente la stanza e nel trambusto Jo non si era accorto molto di quello che succedeva intorno, ma la bestia dibattendosi aveva infranto la specchiera e frantumato il vetro della doccia, per non parlare delle mensole che aveva abbattuto. Quello era un campo di battaglia e il grottesco animale aveva perso. Viola era poco dietro la soglia del bagno e osservava Jo con uno sguardo colmo di terrore cieco: cosa diavolo stava succedendo?
"Dovremmo chiamare mio padre" disse lei con un filo di voce, trattenendo il vomito.
"Sarebbe la cosa migliore da fare, ma vorrei prendermi un attimo" ribattè Jo "Forse dovremmo semplicemente fermarci un secondo per pensare, io..." ma non sapeva che altro dire. Aveva improvvisamente una sete del diavolo. La vecchia sete del diavolo, quella che lo spingeva ad aprire l'armadietto dei liquori e saccheggiarlo, quella che lo ottenebrava facendogli bruciare la gola, facendolo regredire ad uno stato quasi animalesco. Quale momento migliore per farsi un goccio? Aveva appena ucciso una specie di bestia mutante uscita dallo scarico di un lavandino dannazione! Era scioccato, ne aveva bisogno. Invece guardò Viola negli occhi e la sete scomparve, o meglio, si calmò notevolmente. Le si avvicinò e la abbracciò e lei si abbandonò al suo abbraccio, molle di paura e di stanchezza: aveva un gran bisogno di dormire.
"Facciamo così" disse Jo "Vai a letto, io starò di guardia. Tra qualche ora chiameremo tuo padre, per ora non credo ce ne sia bisogno".
"Ne sei sicuro?" chiese lei.
"Sicuro" disse lui. Ma sentiva che non si stava comportando come avrebbe richiesto la situazione, era come se stesse agendo spinto da un impulso nascosto nella sua mente. Gli venne in mente il comportamento di gambon poche ore prima quando voleva arrestarlo: subito aveva cambiato idea e lo aveva addirittura lasciato con sua figlia. Non era normale, non era logico. E non era logico che lui adesso reagisse con tutta quella calma di fronte all'orrore che era accaduto, ma allora perchè sentiva che doveva agire in quel modo? Era troppo stanco per rispondere a quella domanda: era così che sentiva di dover gestire tutto quanto ed era così che avrebbe fatto; Viola andò in camera sua e si mise nel letto, dopo pochi minuti sprofondò in un sonno irrequieto. Jo ne approfittò per cercare un modo di sbarazzarsi del serpente: prese dalla cucina un grosso sacco nero di quelli della spazzatura e frugò nei cassetti in cerca di un coltello o di qualunque attrezzo per tagliare il corpo del bestione. trovò una mannaia, la prese e si diresse verso il bagno.
"Cazzo!" esclamò. La specchiera era in frantumi, il lavandino distrutto e le mensole erano ancora per terra con tutto quello che avevano sostenuto sparso intorno, ma in tutto quel macello non c'era traccia del serpente, nemmeno l'ombra.
Reginald Langstorm era sdraiato sulla brandina nella cella che si trovava all'interno del posto di polizia di West Coburn. Aveva lo sguardo fisso verso l'alto, ma non stava fissando nulla: aveva spento la vista, se così si può dire,per concentrarsi su immagini puramente mentali. Vedeva una gigantesca sagoma nera che si muoveva lentamente nella penombra: un'armatura lucida, con un elmo grottesco che aveva un lungo pennacchio rosso, dalla cui celata echeggiava una risata demoniaca. 'E' qui. E' sempre stato qui e adesso mi ha preso' pensò disperatamente Reginald. Si riscosse e la stanza riapparve davanti ai suoi occhi. Si alzò a sedere, toccandosi il volto incrostato di sangue: si era quasi dimenticato di quello che aveva fatto. Non che provasse rimorso, Lui non gli permetteva assolutamente di provarne ed era l'unica cosa di cui gli era grato. ma quando non avesse avuto più bisogno di lui allora lo avrebbe fatto rinsavire e si sarebbe reso conto degli orrori che aveva commesso. reginald sapeva di essere in un certo senso posseduto, ma lo stesso non poteva reagire: faceva quello che gli veniva chiesto pur essendo conscio di non volerlo fare. Sarebbe impazzito del tutto, ovvio. Era riuscito ad isolarsi per tutto quel tempo, ma ora... ora era tutto inutile, Lui era più forte e ora iniziava a diventare reale. Tutto quello che Lui pensava, iniziava a non essere più solo nella mente delle vittime e questo Reginald lo sapeva: anni prima tutte quelle creature le aveva viste, ma sapeva che non erano reali, certo, se una di loro lo attaccava, sentiva dolore, ma era nella sua testa. Il reverendo invece aveva un taglio sul corpo dove la creatura lo aveva attaccato: era diventata vera, non del tutto forse, ma sicuramente più di prima. Lui stava risorgendo ed entro poche ore sarebbe stato ovunque, come un fiume in piena. E di Lui Reginald aveva una paura del diavolo. Rise a pensarci: aveva una paura del diavolo, ma ciò di cui aveva paura era peggio del diavolo, perchè Lui esisteva. Il diavolo forse, ma Reginald non l'aveva mai visto, mentre Lui si. O meglio, aveva visto quello di cui era capace, non lo aveva mai individuato fisicamente, non sapeva dove si nascondeva, ma era certo che fosse da qualche parte nel buio, a West Coburn. 'Papà perchè?" pensò 'Perchè dovevi dargLi tutte quelle idee?'. Pensò a suo padre Peter e a quello che aveva inconsapevolmente fatto: aveva condannato la città, lo aveva fatto senza rendersene conto. però lo aveva fatto. 'Ancora poche ore e scoppierà l'Inferno' continuò a pensare 'E io ho paura, papà. Ho paura perchè sono stato curioso, anni fa'.
"Sono stato stolto" sussurrò "E lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo..." ma qualcun al tro continuò per lui.
"...Ci cade dentro". La voce veniva da sotto alla branda. Reginald rabbrividì: non voleva guardare.
"Reeeeeeeeeeginald" cantilenò la voce, profonda e demoniaca.
"Non sei reale" disse lui.
"Smettila Reginald2 replicò la voce "Ora lo sono molto più di prima. Sto mangiando, mi sto rimettendo in forze! Corpo di mille balene!". Reginald era terrorizzato: la voce era diventata quella di Braccio di Ferro, il suo personaggio preferito di cui non si perdeva un cartone animato da bambino.
"Sto mangiando i miei spinaci! Tutti voi, siete i miei spinaci!" sghignazzò la voce. reginald si tappo le orecchie ma una mano fredda, metallica gli si appoggiò sul polso. Gridò. Crandon, era Crandon, era sempre stato Crandon!
"Crandon!" urlava Reginald "Crandoooooooon!" e le risate demoniache si amplificavano, rimbombavano. La mano stringeva il suo polso ed era gelida, il metallo del guanto di metallo nero era bruciante. Langstorm aprì gli occhi e vide distintamente il cavaliere, con il suo elmo e il pennacchio rosso.
"Basta stragi per ora, Reginald. Tu sei un messaggero. Porterai il tuo messaggio" disse il cavaliere con la sua voce demoniaca. Non era più Braccio di Ferro, ma Reginald lo avrebbe preferito.
"Che messaggio?" domandò, spaventato.
"Oh vedrai.Anzi, Reg, te lo mostro subito" e nel dire queste parole appoggiò un dito guantato sulla fronte di Langstorm. Fu come un fulmine: Reginald sentì la testa esplodergli e vide. Vide tutto quello che sarebbe accaduto, vide che cosa voleva fare Lui attraverso il cavaliere, attraverso tutti gli orrori che era in grado di generare. lo vide e lo sguardo gli si spense. Crollò per terra e lì rimase, con gli occhi aperti che non vedevano nulla. Era partito e non sarebbe tornato per qualche ora ancora. Gambon, che aveva sentito le urla, accorse quando già era svenuto. del cavaliere nessuna traccia, c'era solo lui a terra, con lo sguardo vitreo.
Nella stanza buia il corpo immobile sussultava di piacere. Era finalmente iniziato per davvero: si era nutrito delle loro paure e adesso poteva veramente raggiungerli, tutto ciò che creava era vero. Ancora debole rispetto a quello che sarebbe stato, ma vero: poteva ferirli e lasciare tracce sui loro corpi molli. Si sarebbe divertito, oh se si sarebbe divertito. E aveva anche spaventato lo Straniero, gli aveva fatto capire che con Lui non poteva dettare legge, nossignore. Ma aveva fallito, non aveva ancora ucciso la ragazza e forse ancora non ne era in grado, tuttavia era rimasto stupito. Non credeva di poter creare quelle creature fin da subito, per questo aveva usato Cartbury: perchè non poteva ancora essere ovunque. Ma da poche ore, da quando lo Straniero lo aveva sentito parlare, era diventato più forte e poteva farle apparire dove voleva in città. Poche ore e sarebbe dilagato come un'epidemia. "Tanto mi piace giocaaaaaaaaaaar" canticchiò la voce demoniaca, ridendo come un bambino.
Viola si era svegliata da poco e stava facendo colazione, mentre Jo i faceva una doccia, dopo che aveva ripulito il bagno da tutti i cocci: li aveva infilati nel sacco nero e aveva dato una spazzata. Nel pomeriggio sarebbe stato celebrato il funerale del giovane Pat Turner, nonostante il reverendo fosse morto da poche ore. Il suo funerale doveva attendere l'autopsia, così come quello del barbone. la cerimonia del funerale sarebbe stata officiata da Padre McGuill, un giovane prete irlandese che si trovava a West Coburn come ospite della parrocchia; non conosceva molto bene il reverendo, ma quando in mattinata aveva appreso la notizia dal telegiornale aveva pianto: forse non lo conosceva più di tanto, ma abbastanza per dire che era un grande uomo che aveva saputo affrontare egregiamente le difficoltà che la vita gli aveva riservato. padre mcguill si trovava in chiesa in quel momento e stava confessando alcuni fedeli rimasti temporaneamente senza guida spirituale. Al momento stava confessando una donna molto bella, che doveva avere quarant'anni. aveva i capelli neri striati di grigio e uno sguardo molto triste.
"Ho avuto un sogno questa notte, padre" disse lei.
"Un sogno?" domandò lui con un forte accento irlandese nella voce.
"Si. Era tutto buio, ma stringevo una persona tra le braccia. Mio figlio. Lo avevo ucciso con un coltello che era caduto ai miei piedi" e iniziò a singhiozzare.
"Crede che questo voglia dire qualcosa? ha mai pensato a fare del male a suo figlio?" si informò il reverendo preoccupato.
"No, no! Vede,circa otto anni fa mio figlio scomparve. Trovarono i resti del suo corpo nel bosco".
"Ma è terribile! E lei... lei si sente responsabile di questo?".
"Ogni giorno della mia vita".
"Come si chiama?".
"Sandra" disse lei "Sandra Reagan".
"Sandra, perchè dovrebbe essere responsabile della morte di suo figlio?".
"Io... io non lo so. Era a giocare non so dove. Forse... forse se io...".
"Lei non ha colpe Sandra. E' giusto che lei cerchi un conforto spirituale, ma lei non ha colpe".
"ne ho molte invece. So di averne".
"sandra, forse lei dovrebbe rivolgersi a qualcuno che possa aiutarla. Un consulto psicologico, ecco2.
"Niente può togliermi questo senso di colpa. Speravo che parlare con un uomo di fede mi avrebbe aiutata, ma...".
"La capisco. Se vuole possiamo parlarne approfonditamente quando non c'è nessuno".
"Si... credo che mi farebbe bene. Ora mi scusi, devo andare".
"Spero di rivederla" concluse Padre McGuill mentre Sandra usciva dall'altra parte del confessionale.
la donna si diresse verso le panche di legno: su una di queste era seduta una ragazza, sui diciotto o diciannove anni. Era straordinariamente bella: fissava il crocefisso con due occhi scuri incredibili, dal taglio allungato anche da un velo di matita nera agli angoli; i capelli erano lunghi e mossi, quasi neri, che ricadevano sulle spalle. Le labbra erano carnose e splendide, il naso grazioso e dritto; indossava un giubbotto di pelle liso e sotto un dolcevita nero e un paio di jeans. Vedendo Sandra arrivare si alzò in piedi mostrando un fisico magro e intrigante. Si pizzicò uno cei cerchietti d'argento che aveva appeso al lobo sinistro.
"Mikaela" disse Sandra "Potevi metterti qualcos'altro" continuò indicando il giubbotto consumato.
"Non credo che se ne abvrà a male per questo" disse Mikaela indicando il crocefisso.
"Non essere blasfema" la rimproverò Sandra.
"Scusa mamma" replicò lei "E' che non capisco perchè hai voluto che venisii". Aveva una voce calda.
"Avevo bisogno di sapere che qualcuno mi sta vicino" ribattè Sandra e si avviò verso l'uscita della chiesa.
Mikaela la seguì e Padre McGuill osservò con curiosità, da lontano, il giubbotto di pelle che la ragazza indossava: sul retro aveva dipinto un teschio bianco, disegnato con uno stile da cartone animato, era simpatico.
Mikaela intanto pensava a sua madre e a tutto quello che aveva passato. lei aveva undici anni quando suo fratello Jeremy era scomparso. era solo un bambino di sette anni. Avevano trovato i resti carbonizzati nel bosco pochi giorni dopo e i suoi genitori non erano più stati gli stessi: suo padre era sempre silenzioso e taciturno e sua madre era malinconica e assente perchè si incolpava di quanto era accaduto. Non si sapeva chi fosse stato ad ucciderlo, ma Mikaela era convinta che ci fosse qualcosa di inquietante sotto. faceva sogni. Sogni terribili riguardo a un pozzo. e sentiva sempre nel sonno una frase: "Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro". Erano giorni che questo sogno lo tormentava e non poteva fare a meno di sentire che c'entrava con la morte di suo fratello. Prima di salire in macchina si legò i capelli e per un istante stette ferma con entrambe le braccia sollevate e le mani affondate nella massa scura della chioma: in quella posizione era graziosa, con l'espressione imbronciata e lo sguardo leggermente assente, assorto in quei cupi pensieri. 'lo stolto che si sporge....' pensò. Cosa diavolo poteva voler dire?
Erano le due e mezza e la chiesa era gremita di gente. Jo era accanto a Viola, la quale singhiozzava sommessamente: stava dando l'addio definitivo a Pat. un pezzo di lei che se ne andava. 'Cos'hai combinato, Patrick?' pensava. I genitori del ragazzo erano distrutti e il padre era scosso dal pianto, appoggiato alla spalla della moglie che non aveva una cera migliore. Padre Mcguill intanto parlava e diceva cose sulla morte e la resurrezione dell'anima. Jo trovava tutto questo deprimente e sconfortante: lui non sarebbe nemmeno dovuto essere li. Aveva ancora in mente il serpente che era scomparso: non potevano esserselo immaginato, eppure non c'era più e nemmeno il sangue che aveva perso c'era; aveva lasciato però la devastazione nel bagno, segno inequivocabile della sua preenza. Doveva parlarne a Gambon, doveva capire cosa diavolo stava succedendo. Ma dov'era Gambon? Aveva forse avuto problemi con il figlio di Peter Langstorm? Poi accadde una cosa strana: Jo vide il coperchio della bara sussultare. Non poteva essere. eppure l'aveva visto! E come se non bastasse ecco che lo vide sussultare di nuovo. "Aiutami!" urlò una voce. Jo rabbrividì. "Aiutami tu1 Tu, quello vicino a Viola! Aiuttami! Non sono morto! Aiutami!". Jo si alzò e uscì dalla Chiesa. Sentiva che avrebbe vomitato presto.
"Ma che cazzo ti prende?" sbottò Viola alle sue spalle. Lo aveva seguito.
"E'... Lo so che non è possibile. Ma... ho sentito pat turner, chiedeva aiuto".
"Jo se è uno scherzo ti assicuro che non..." cercò di dire lei, disorientata.
"L'ho sentito!" gridò lui "Diceva di essere vivo in quella bara!".
"Sei sicuro?" chiese lei.
"Si! Ma non troveremo nessun ragazzo pimpante aprendola. Sono voci, è da ieri che le sento. Lui è morto, Viola. ma per qualche strano motivo io lo sento. Ha a che fare con Cartbury, con il serpente, con tutto quanto!".
"Jo ma che ti prende?" disse Viola, abbracciandolo.
"Non lo so. Non la senti anche tu? Quella sensazione che stia per succedere qualcosa si terribile?".
"Si. Ora più che mai".
"Stammi vicino, ti prego" disse Jo. i loro volti erano vicinissimi. le loro labbra quasi in contatto. Ma non ci fu alcun bacio. Invece furono interrotti dalle grida. tante, terrorizzate.
"Ma che..." disse Jo.
Una massa di persone uscì urlando dalla chiesa, e dal portone aperto Viola vide cos'era successo: la bara aveva preso fuoco, o meglio: lingue di fuoco erano scaturite dal feretro come da un lanciafiamme ed era scoppiato l'inferno.
Jo sentì la risata echeggiargli in testa e cadde in ginocchio: "L'ammazzerò, bastardo. Tutti vi ammazzerò. Tutti!". La voce era spaventosa e gli martellava nella testa, assordandolo. "Tutti! Brucerò questo lercio buco dimenticato da Dio e vagherò sulle terre degli Uomini per sempre!". Jo aprì gli occhi: la chiesa era in fiamme e le nuvole di fumo nero come la pece per un attimo gli sembrarono un volto. E che gli venisse un colpo se non era quello di Rhonda.
Erano le tre del pomeriggio e Gambon era ancora in ufficio: non poteva andare al funerale, non dopo quello che era successo con Langstorm. Doveva capire, doveva sapere. Cosa stava succedendo nella sua città? Cosa diavolo stava... i suoi pensieri furono interrotti dall'ennesimo grido. Era Langstorm, ancora lui. Accorse e lo vide in piedi, attaccato alle sbarre.
"Crandon! Crandon! Crandooooooooon!" urlava. Non era più decisamente catatonico.
"Cosa? Cos'è Crandon?" disse Gambon "Parla! Parla!".
"Non posso venire" disse Langstorm "Non posso venire e mi sento sciocco, ma ho troppa, troppa paura del nono rintocco".
"Come?" chiese Gambon stupito.
"Non posso venire e mi sento sciocco, ma ho troppa, troppa paura del nono rintocco".
"Samson" disse Gambon rivolgendosi al suo sottoposto "Chiama Viola, è urgente. falla venire anche se è al funerale".
"... troppa paura del nono rintocco" continuava a ripetere langstorm.
"Cazzo" disse Gambon "Cazzo!".
La signora Frida Nelson era tornata a casa dal funerale, sconvolta. Quello che era successo er a dir poco tremendo: la bara del povero giovane Turner che prendeva fuoco e incendiava la chiesa. Era orribile. Frida era ormai sui sessant'anni e si era rassegnata a diventare una vecchia zitella, ma l'unica cosa che la faceva sentire ancora utile era suo padre. Il vecchio Chad Nelson: un vegetale che stava morendo lentamente al piano di sopra della sua casa e di cui lei si occupava amorevolmente. Salì le scale di casa sua ed entrò nella stanza: era buio pesto e il corpo del vecchio steso nel letto aveva un tremito, come un sussulto ogni tanto. Frida notò che gli occhi si muovevano sotto alle palpebre incartapecorite. Strano, di solito era tranquillo. "Papà, non immagini cos'è successo oggi al funerale" iniziò. Stava ore a parlare con lui. ma ora sembrava diverso, come se avesse riacquistato coscienza di se anche se era ancora in coma. ma non ci diede troppo peso.
Nel giardino della casa di Frida faceva freddo e il vento soffiava tra le fronde del pesco, scuoteva l'altalena di legno che aveva fatto installare per la nipotina. Soffiava echeggiando nel vecchio pozzo sul retro. E presto avrebbe soffiato anche più forte.
mercoledì 21 luglio 2010
CAPITOLO 5- FEDE
Il reverendo Stenson si svegliò di soprassalto ed emise un gemito: nonostante avesse gli occhi spalancati si sentiva avvolto da buio e aveva l'impressione che qualcosa nell'oscurità lo stesse fissando. respirò profondamente e si mise seduto sul letto. 'Non è nulla' pensò 'Il solito incubo. Solo quello'
(i demoni che ti fissano)
Solo un brutto sogno. Erano giorni che veniva perseguitato nel sonno da urla spaventose e sentiva un'aura malvagia che tentava di circondarlo; quando si svegliava si sentiva sconvolto e ricordava solo qualche immagine sfocata: quella notte aveva visto nel sogno una sagoma al chiaro di luna che indietreggiava nel bosco mentre un altra figura gli saltava addosso immobilizzandolo. Era come se avesse avvertito la confusione e la paura della persona che veniva aggredita. Si ridistese e provò a chiudere gli occhi: pregò in silenzio, con le mani giunte sul petto, appellandosi alla misericordia di Dio. Nelle settimane precedenti i sogni non avevano nulla di concreto: era sempre solo nel buio e sentiva un lamento costante che gli risuonava nelle orecchie, poteva avvertire che c'era qualcosa nel buio che rimaneva nascosto, in attesa di uscire e fargli del male. Quella notte era la prima volta che aveva sognato qualcosa che non riguardasse solo lui, ma era certo che il sogno avesse comunque a che fare con quella presenza maligna che lo perseguitava da giorni ormai.
Si era sempre detto che era una sua fissazione, il risultato del grande stress a cui era stato sottoposto negli ultimi tempi, forse era addirittura il principio di un esaurimento nervoso
(non ci sarebbe da stupirsi)
Da quando Elle era morta, pochi mesi prima, si sentiva come perduto, ma non aveva perso la fede: la morte di sua moglie lo aveva anzi avvicinato ancora di più a Dio. Si era rifugiato nella preghiera e nel suo lavoro continuo verso la comunità: il Signore aveva chiamato a se una delle cose che più amava, ma gli aveva lasciato un'infinità di persone bisognose del suo aiuto, persone che non voleva deludere.
Lavorava sodo al centro di accoglienza dietro la chiesa di West Coburn, sia per poter compiere la missione che Dio gli aveva affidato, sia per non permettersi di pensare troppo a Elle: non voleva cadere nel baratro, non quando sapeva di avere la fede a sostenerlo. 'Ma la fede a volte non basta' pensò il reverendo, cercando di riaddormentarsi. Si ricordava bene il giorno in cui era tornato tardi dal centro di accoglienza e l'aveva trovata svenuta in salotto, rannicchiata in una pozza del suo stesso vomito e il sangue rappreso che le otturava le narici e le incrostava il golf azzurro pallido. Quando l'aveva vista in quello stato era sul punto di perdere la testa, ma aveva raccolto le forze e la poca lucidità mentale che gli rimaneva in quel momento e l'aveva portata all'ospedale della città. Solo il giorno dopo dalle analisi era risultato che Elle aveva un tumore al cervello in stadio avanzato
(inoperabile)
Il reverendo ricordava bene l'effetto che aveva avuto su di lui quella parola, 'inoperabile': era come se qualcuno lo avesse trafitto con uno stiletto al cuore, gli era mancata l'aria. 'Inoperabile'. Era come dire che Elle era condannata a morte.
E così fu: nel giro di pochi mesi il reverendo Stenson vide sua moglie soffrire a causa dei dolori atroci e a causa della chemioterapia spaventosamente aggressiva; la vide cambiare aspetto: era dimagrita a tal punto che non sembrava quasi più una donna, piuttosto un esile scheletro asessuato. Ma non avrebbe potuto amarla di più: i suoi occhi, anche se colmi di dolore, erano sempre gli stessi che lo avevano fatto innamorare tanti anni prima e quando la toccava per lavarla o per cambiarle la flebo lei gli cingeva debolmente il polso con le dita ossute e lui sentiva il calore che provava ogni volta che sua moglie lo toccava: era sempre lei, nonostante il drastico cambiamento esteriore. Dentro era sempre la donna meravigliosa e pura che lo aveva accompagnato per gran parte della sua vita e non l'avrebbe abbandonata per nessun motivo al mondo. L'agonia era durata poco più di quattro mesi, i peggiori che il reverendo Stenson avesse mai vissuto e il giorno in cui tutto il dolore ebbe fine fu senza dubbio una prova tremenda per lui.
Era un giovedì pomeriggio e un sole pallido penetrava dalla finestra della camera in cui, stesa nel letto, riposava Elle. Lui era con lei e sapeva che ormai era arrivato il momento: la notte precedente aveva avuto un altro attacco e il dottore che l'aveva visitata a casa aveva insistito perchè fosse trasportata d'urgenza in ospedale, ma ne la paziente ne tantomeno il reverendo avevano voluto accettare. Elle stava morendo, e voleva che ciò accadesse a casa sua, nel suo letto. Il dottore aveva capito, ma li aveva avvertiti che in quelle condizioni la morte sarebbe sopraggiunta nel giro di poche ore.
Il reverendo aveva sorriso a sua moglie e l'aveva guardata: il volto era incavato e la pelle era talmente tesa che gli sembrava di osservare un teschio con gli occhi grandi e sofferenti ancora incastrati nelle orbite. Era andato in bagno e si era inginocchiato dopo aver chiuso la porta: per la prima volta dopo mesi aveva deciso di pregare per l'unica cosa che sapeva non essere possibile.
"Ti prego" aveva sussurrato, scosso dai singhiozzi "Ti prego non prenderla con te. Non Ancora, ti prego". era troppo anche per lui. se Dio era così grande e potente perchè allora non poteva salvare sua moglie? Perchè non la guariva, dopo tutto quello che aveva fatto per lui? Dopo tutti quegli anni passati a credere e a pregare, ad aiutare i più deboli in suo nome? ma sapeva la risposta, anche se in quel momento non lo consolava affatto: 'Dio ha un piano per ognuno di noi' aveva pensato 'Ma perchè quello di Elle è così crudele?'. Non poteva saperlo. Poteva solo continuare ad avere fede, come aveva sempre fatto.
Si era rialzato ed era tornato da sua moglie, aveva pregato per lei e le aveva dato l'estrema unzione. Poi si era seduto accanto a lei, sul letto - lo spazio era sufficiente visto come si era rimpicciolita negli ultimi tempi - e l'aveva presa per mano, per accompagnarla ad andare nel luogo dove non avrebbe potuto seguirla. Era rimasto così per ore e si stava quasi addormentando, quando lei con grande fatica, aveva pronunciato qualche parola sommessa, cercando di mettersi a sedere. Il reverendo Stenson aveva sgranato gli occhi e le aveva detto di non sforzarsi, poi si era avvicinato al suo viso e le aveva chiesto di ripetere: lei lo aveva guardato con gli occhi spalancati e luccicanti, quasi troppo grandi per quel viso così magro, e aveva detto qualcosa.
Il reverendo non avrebbe mai saputo dire se quelle parole fossero pensate o se fossero il frutto del tremendo dolore che sua moglie stava provando in quel momento, però se le ricordava molto bene. Si ricordava la voce flebile e rotta di Elle mentre gli sussurrava nell'orecchio quelle strane parole: "Abbi... fede".
"Come?" aveva detto lui, con il volto rigato dalle lacrime.
"Abbi.. fede... sempre. Non... dubitare" aveva ripetuto lei cercando di sforzarsi per parlare.
"Si" aveva ribattuto lui "Si, amore. Te lo giuro". Poi lei aveva strabuzzato gli occhi e aveva detto qualcos'altro, qualcosa che il reverendo non era mai riuscito a decifrare bene: "Jackson... lo stolto... fondo... pozzo... dentro".
"Che cosa?" aveva chiesto lui, confuso. Ma non aveva ottenuto risposta: gli occhi di elle avevano perso la luce vitale che avevano sempre avuto anche durante la malattia e ora sembravano due grosse biglie inutili. Era morta e lo aveva lasciato solo. Il reverendo era rimasto per ore, fino a notte fonda, abbracciato al corpo esanime di sua moglie. poi era uscito ed era andato in chiesa a pregare, aveva versato tutte le lacrime che poteva produrre e si era addormentato ai piedi dell'altare, sfinito.
Il reverendo rimase a guardare il soffitto per qualche minuto prima di rendersi conto che non riusciva a riprendere sonno. Cercava di non distruggersi il cervello a furia di pensare ad Elle, ma con gli incubi in cui era sprofondato nelle ultime settimane non poteva fare a meno di pensarla per farsi forza.
Doveva assolutamente trovare un modo per allontanarli e mentre pensava a questo gli balenò davanti agli occhi la figura del ragazzo che veniva aggredito. Era tutto molto oscuro, ma era convinto di conoscere quel ragazzo, ne era assolutamente certo.
Dal momento che non sarebbe mai riuscito a riprendere sonno decise che avrebbe potuto recarsi al centro di accoglienza per sistemare e mettere un po' in ordine. Andò in bagno e si lavò il viso, poi si guardò allo specchio: i capelli erano ormai grigi e la sua pelle nera era segnata da rughe profonde; gli occhi scuri erano stanchi e colmi di tristezza e preoccupazione. Il fatto di essere il reverendo del paese e nel contempo un uomo di colore aveva creato qualche problema all'inizio del suo lavoro a West Coburn: aveva iniziato molti anni prima, quando era ancora giovane e la diffidenza delle persone più forte e ingiustificata. Tuttavia era riuscito a spazzare via il pregiudizio in molte delle anime di cui aveva deciso di prendersi cura e dopo tutto quel tempo godeva di fiducia e stima profonda, anche se non era quello a cui puntava principalmente. Lui voleva solo aiutare chi ne aveva più bisogno.
Scese al piano inferiore e scaldo il caffè. Le quattro del mattino. 'Beh jackson' pensò rivolgendosi a se stesso 'Almeno oggi potrai renderti utile'. Bevve in fretta il caffè riscaldato senza troppo entusiasmo e aprì lo sportello del frigorifero per cercare la bottiglia del latte. Quando ebbe finito di fare colazione uscì di casa e inizio a camminare nell'aria fresca: era ancora buio pesto.Raggiunse la chiesa in dieci minuti: il centro di accoglienza era situato nell'edificio accanto, ma prima voleva raccogliersi in preghiera e sistemare alcune cose nella sagrestia. Si inginocchiò davanti all'altare e iniziò a pensare a tutto quello che gli stava capitando: gli incubi delle ultime settimane lo spaventavano, inoltre quella notte il sogno era stato incredibilmente realistico. 'E' quasi come se quel ragazzo sia stato realmente aggredito, come se esistesse realmente' pensò. Mentre pregava con gli occhi chiusi avvertì un rumore alle sue spalle, come un fruscio. Si voltò e vide una sagoma sparire dietro una delle colonne situate ai lati.
"Chi è la?" gridò spaventato il reverendo. Sentì un rumore di passi felpati e dall'ombra sbucò qualcosa: era certamente un uomo e il reverendo Stenson non potè fare a meno di notare che era alto più di due metri.La figura avanzò lentamente verso di lui, ma non riusciva ancora a distinguerne i tratti: era semplicemente terrorizzato, tanto che indietreggiò con le gambe tremanti fino a risalire i gradini dell'altare. L'uomo finalmente si fermò e alla luce delle candele il reverendo vide il suo aspetto: era altissimo e magro, con i capelli scuri e arruffati e gli occhi grandi, completamente neri anche dove avrebbe dovuto esserci il bianco; era nudo e il suo corpo pallido era solcato da una ragnatela di cicatrici che andavano a formare un disegno complesso dal significato oscuro. La cosa che più lasciava perplesso il reverendo era che lo sconosciuto non possedeva attributi sessuali: in mezzo alle gambe era liscio, come una bambola. Il reverendo chiuse gli occhi e si trattenne dall'urlare. 'Sei crollato. Alla fine hai ceduto alla pressione e sei impazzito, hai le allucinazioni' pensò, cercando di calmarsi. Riaprì gli occhi ma la strana creatura era ancora davanti a lui e anzi sembrava aver sentito i suoi pensieri perchè lo guardò fisso -il reverendo era certo che lo stesse fissando anche se non aveva le pupille- e scosse la testa, poi puntò il capo verso l'alto e stese le braccia. Da dietro la schiena si dispiegò un enorme paio di ali lunghe, con le piume e le penne nere come la pece.
"Ma cosa..." urlò il reverendo. 'No. No. No!' pensò, terrorizzato, accasciandosi a terra.
"Alzati in piedi" disse la creatura, con voce pura e soave. L'ala sinistra nel dispiegarsi urtò un lungo candeliere di ferro, il quale cadde con un rumore sordo di ferraglia.
"Cosa..." balbettò il reverendo in preda ad un terrore cieco: cos'era quella creatura? Il suo primo pensiero fu che aveva davanti a se un angelo, per quanto incredibile potesse essere, ma quello non sembrava il classico angelo, piuttosto pareva una creatura uscita dall'inferno.
"Non fermarti a quello che i tuoi occhi ti mostrano" disse la creatura con quella sua voce pura, dell'altro mondo "Quello che hai sempre chiamato angelo non è altro che un'immagine distorta della realtà, un'illusione che voi Uomini avete creato nel corso dei millenni. Esseri biondi con le ali candide: noi non siamo così. Osserva le cicatrici sul mio corpo, osserva la sofferenza e i marchi della vergogna che portiamo addosso per causa Vostra".
"Marchi?" replicò il reverendo, confuso e spaventato, osservando l'impressionante ragnatela di tagli e cicatrici che andava a formare un'intricato disegno.
"Da quando Lui ha creato Voi, proteggerVi dal male e dai pericoli è diventato il nostro compito più importante. Ogni volta che uno di noi fallisce nell'impresa sul nostro corpo si imprime il segno del fallimento. Se tu avessi la capacità di leggere questi segni" e indicò il suo corpo martoriato "comprenderesti la mia storia e quello che non sono riuscito ad impedire, le immani catastrofe che si sono compiute perchè non ho saputo arginarle. Ma ad ogni mio fallimento corrispondono centinaia di successi. Ciò che non sono riuscito ad impedire non è nulla in confronto a ciò che nel corso degli anni sono riuscito ad evitarVi. Questo è il motivo per cui sono qui".
"Sto impazzendo" disse il reverendo.
"Al contrario. Sono qui perchè gli Uomini stanno correndo un pericolo ben peggiore di quelli che siamo riusciti a scongiurare nel corso dei secoli. E per fermare tutto questo ho bisogno del tuo aiuto". il reverendo sussultò. Tutto quello che stava vedendo non poteva essere reale: un angelo mostruoso che gli si manifestava e parlava di pericoli da scongiurare, un angelo che aveva bisogno del suo aiuto. Non era possibile.
"Lo è" disse l'angelo, che evidentemente stava leggendo nella sua mente "E tu sei la chiave".
"La chiave?" domandò stupidamente il reverendo Stenson.
"Il Male si è risvegliato a West Coburn. Lo senti, lo puoi avvertire".
"Io non..." cercò di replicare il reverendo.
"la paura che senti. Gli incubi continui. Stanotte è stato ucciso un ragazzo e tu lo hai visto, hai sentito il suo dolore. Si chiamava Patrick Turner". Al reverendo sembrò di ricevere un pugno sul naso: dunque quel ragazzo era morto per davvero e ora sapeva perchè gli era parso di conoscerlo. Era così. Lui conosceva bene Pat Turner e aveva cercato invano di aiutarlo più di una volta, ma or non ce ne sarebbe stato più bisogno: aveva sentito la sua sofferenza e lo aveva sentito morire.
"Il Male teme tutto ciò che ha a che fare con Lui" continuò l'angelo, cercando pazientemente di spiegare la situazione incredibile a quell'uomo spaventato che aveva di fronte "con Dio. La tua fede ha vacillato negli ultimi mesi, anche se non lo sai, tuttavia è rimasta e il male questo lo ha percepito. Senza volerlo ha stabilito una connessione con la tua anima, per cercare di distruggere questo tuo potere inconsapevole, comunicandoti ogni sofferenza che provocava, trasmettendoti parte del tuo odio. Sta crescendo e non riesce a controllarsi, per questo motivo lo percepisci con tanta chiarezza".
"Il male? Che significa?" urlò il reverendo, arretrando.
"Significa che la tua fede è quello che lo spaventa e involontariamente sta cercando di distruggerla, non riesce a controllarsi. Dio ha un piano per tutti noi, questo lo sai già. E' venuto ilo momento di fare quello per cui sei stato messo qui". Il reverendo sgranò gli occhi: dunque il piano di Dio per lui era questo' aiutare un angelo a debellare un fantomatico assassino?
"Non è un assassino. Non è un Uomo. E' qualcosa di molto peggio, qualcosa che non puoi vedere. Devi credere.".
All'improvviso il reverendo Jackson Stenson rivide Elle stesa nel letto e ricordò le sue parole.Abbi fede sempre. Non dubitare. era questo il piano che dio aveva avuto in mente per Elle? L'aveva tolta a lui perchè nel momento del bisogno ricordasse le sue parole in punto di morte e credesse a tutta quella faccenda assurda? Perchè se c'era un momento in cui avrebbe dovuto credere, era certamente quello. Ma il reverendo Stenson era stanco. l'angelo aveva ragione: per quanto lui ci avesse provato, la sua fede stava ormai vacillando. Credere non gli bastava più, aveva bisogno delle prove. Prove che dimostrassero che tutto quello che gli stava accadendo era vero, che gli mostrassero che Elle era morta per qualcosa. Qualcosa che gli facesse capire di non essere pazzo. Cadde in ginocchio, con le lacrime che gli rigavano il volto: era stremato. Finito. Un tempo era stato un grande uomo, un ministro nero che si era fatto rispettare in un covo di retrogradi pregiudizievoli, ma ora era solo un vecchio stanco, una vago ricordo dell'uomo che era stato.
All'improvviso l'angelo si chinò su di lui e stese verso il suo viso una mano chiusa: stringeva qualcosa.
"Prendilo" disse l'angelo. il reverendo Stenson vide la mano che si schiudeva e osservò cosa conteneva: tra le dita della creatura era adagiato un nastro per capelli color ciliegia, liso e consunto. Il reverendo sentì che il cuore perdeva un colpo: era lo stesso nastro che aveva Elle tra i capelli quando avevano sigillato la bara. Come faceva ad esser lì? Avevano profanato la sua tomba?
"Non essere sciocco" disse l'angelo "Non oserei mai violare il riposo delle spoglie umane. Lui ha voluto che tu avessi quel nastro ed è comparso nella mia mano. ecco la prova che cerchi. Non conosco il piano che Lui aveva in mente per lei e forse un giorno ti sarà manifesto, anche se non è un tuo diritto. per il momento devi farti bastare questo. dio ha voluto che tu lo avessi e l'ha tolto da sotto terra. se vorrai controllare vedrai che la bara è intatta e sigillata, sepolta dove hai deciso tu. ora ti chiedo: mi aiuterai?".
Il reverendo Stenson piangeva a dirotto e baciava il nastro. Elle era in un posto migliore e Dio aveva un piano in mente per lei e lui sapeva che un giorno sarebbero tornati di nuovo insieme. Si alzò lentamente e fissò l'angelo, anche se vedeva offuscato per via delle lacrime. "Si" disse "Ma dovrai spiegarmi che cosa devo fare. Devo sapere cos'ho davanti"."Hai davanti il Male. Puro e semplice. Devi fare una cosa per me".
"Cosa?".
"Ora te lo dirò. ma dovrai fidarti".
Viola Gambon indossava il camice bianco e sedeva ad un tavolo di metallo in una stanza completamente bianca, con un neon appeso al soffitto che irradiava una luce fastidiosa. davanti a lei c'era un uomo seduto, sui trentacinque anni, con i capelli rossi e leggermente stempiato, un viso emaciato e uno sguardo perso nel vuoto, catatonico, con due occhiaie profonde, come se gli avessero passato un sughero bruciato sotto agli occhi. L'uomo indossava una camicia di forza e fissava viola senza dare l'impressione di vederla davvero. Con il camice e i capelli neri che vi ricadevano sopra, l'aria seria e pensierosa, Viola era ancora più bella.
"Reginald" iniziò Viola, rivolgendosi all'uomo che aveva davanti "Lo sai perchè sei qui, in questa stanza?". L'uomo non rispose e non emise nemmeno un suono.
"I dottori mi hanno detto che stanotte urlavi. Sono dovuti entrare nella tua stanza tre infermieri e mi hanno riferito che quando hanno cercato di calmarti hai aggredito uno di loro. lo hai quasi strangolato. Ti ricordi di questo Reginald?". Viola cercava di usare il tono più dolce e comprensivo di cui era capace, ma la realtà è che era profondamente turbata. Il paziente non rispondeva. Reginald Langstorm continuava a fissarla con quel suo sguardo carico di nulla. Ecco, pensò Viola, quello che c'è nei suoi occhi è il Nulla. Non aveva mai avuto quello sguardo scarico, pensò, aveva sempre avuto gli occhi colmi di tristezza, ma mai di Vuoto.
"Reginald" riprovò Viola "Che cos'hai sentito o visto che ti ha spaventato tanto, ieri notte?". Puntò i suoi occhi scuri su Langstorm, ma lui non parve avvertirne il fascino magnetico. Però le sue labbra si mossero. dapprima Viola non capì, poi sentì quello che Langstorm aveva detto: "Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro". Aveva detto quelle parole come se fossero una filastrocca imparata a memoria, senza entusiasmo. Come se stesse recitando una poesia di malavoglia.
"Cosa?" chiese viola "Di che pozzo parli?". Era affascinata dal fenomeno. la frase non aveva apparentemente alcun senso, ma forse aveva trovato il suo nodo gordiano: qualunque cosa volessero dire quelle parole, era chiaro che stavano alla base del disagio che Langstorm provava da molti anni ormai.
"Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo, ci cade dentro" ripetè Reginald.
Per un'altra mezz'ora Viola provò a far parlare Langstorm, ma l'unica cosa che otteneva in risposta era quella filastrocca. Alla fine sospirò, piegò gli angoli della bocca con fare pensieroso e disse all'infermiere che stava di guardia di riportare il paziente nella sua stanza.
Uscì dall'ospedale e si tolse il camice, salì in macchina e si tolse la maglietta bianca che indossava e se ne infilò un'altra, scura, con le labbra degli Stones rosso fuoco stampate sopra e rovinate, con la stampa leggermente scrostata apposta. Si guardò nello specchietto retrovisore e notò quanto era stanca, gli occhi socchiusi. Erano quasi le nove di sera quando arrivò alla tavola calda di Spike e ordinò un piatto un hamburger e una birra. Aveva bisogno di mangiare e di riflettere: Quello che era successo a Langstorm la preoccupava non poco. Langstorm era in cura alla clinica da più di otto anni ormai; quando la madre, ovvero la moglie di Peter Langstorm, si era suicidata inspiegabilmente, Reginald aveva avuto un crollo. era diventato chiuso, sospettoso, non usciva più di casa. Una volta Viola aveva parlato con il padre, lo scrittore Peter, e lui le aveva detto che il figlio era terrorizzato. Ma non aveva detto di più e Viola aveva constatato che anche il padre di Reginald era rimasto molto sconvolto dalla morte della moglie, com'era naturale che fosse. Poco tempo dopo Peter aveva trovato il figlio in casa, sul divano, con i polsi tagliati e lo sguardo vacuo. L'avevano salvato per un pelo e da allora si era chiuso in se stesso, sempre con quello sguardo fisso ma che conteneva un'infinita tristezza, non lo sguardo vuoto e perso che aveva visto quel giorno.
Non aveva più detto una parola dal giorno in cui era stato ricoverato, anni prima e ora era tornato a dire qualcosa. dopo aver quasi ucciso una persona. non aveva mai avuto comportamenti violenti e Viola era preoccupata proprio per questo: qualcosa o qualcuno lo stava spaventando. Il dottor Richardson, il responsabile del reparto, le aveva detto che quando avevano sentito le urla erano accorsi nella sua stanza e lo avevano trovato in preda agli spasmi che urlava qualcosa riguardo ad un certo Crandon. Viola aveva cercato ovunque, ma non c'era traccia di nessun Crandon negli archivi dell'ospedale, quindi non si trattava di un infermiere psicopatico. Nessun Crandon nemmeno a West Coburn e dintorni: chiunque fosse era la causa del nuovo crollo del suo paziente.
mentre pensava a tutto questo sentì una mano che le toccava la spalla. Sussultò e quando si voltò vide che era solo il reverendo Stenson.
"Jackson!" disse lei sorpresa e, alzandosi, lo abbracciò. Lui l'aveva vista nascere ed era un ottimo amico di suo padre.
"Viola, sei sempre più bella ogni giorno che passa" replicò lui, guardandola incantato. Era sempre stato dell'idea che la figlia dello sceriffo Gambon fosse una creatura meravigliosa, un fiore luminoso in un campo pieno di erbe cattive.
"Vorrei che me lo dicessero più spesso" ribattè lei ridendo. Quando rideva era a dir poco bellissima, constatò il reverendo: le labbra le si increspavano e si intravedevano i denti bianchi, mentre gli zigomi si contraevano leggermente e gli occhi le si illuminavano. Ma quello che la rendeva più graziosa era il naso all'insù, coperto di lentiggini, che si arricciava appena quando rideva. era una risata pura, che spazzava via ogni inquietudine. Il reverendo sperava che Dio avesse un grande piano per lei. Ma in quel momento aveva altro a cui pensare, doveva portare a termine il compito che l'angelo gli aveva affidato. Aveva passato la giornata intera a confessare i fedeli e a fare come se nulla fosse, attendendo di poter parlare con Viola la sera. Verso le otto aveva preso il nastro, lo aveva nascosto in una scatola per scarpe e l'aveva messa sul ripiano più alto dello scaffale che c'era nel suo ufficio, di fianco alla sagrestia. Poi era uscito e si era recato alla tavola calda, sapendo che l'avrebbe trovata li dopo le nove: Viola cenava sempre in quel posto finito il lavoro.
"Allora dimmi, come vanno le cose?" chiese il reverendo dopo essersi accomodato a sua volta su uno sgabello e aver ordinato una tazza di caffè.
"Potrebbe andare meglio2 rispose lei, sorseggiando la birra direttamente dalla bottiglia.
"Qualcosa ti turba?".
"Molte cose, per la verità".
"Se vuoi parlarne sai che con me puoi farlo, dopotutto sono il tuo confessore da quando eri bambina. Anche se credo che per te la fede in Dio sia qualcosa di sorpassato".
"Non sorpassato. Sopravvalutato. Ognuno ha bisogno di credere in qualcosa, ma io non sento il bisogno di credere in Dio. Ci sono molte altre cose che mi mantengono viva, più salutari".
"Vedo" disse il reverendo osservando sospettoso la lingua rossa che spuntava dalle labbra scrostate sulla maglietta di lei.
"La musica aiuta" disse lei in tono pratico, cercando di spostare la conversazione su qualcos'altro.
"Ad ogni modo, come va il lavoro?".
"Beh, non come vorrei. Ma non posso davvero parlarti di questo, Jackson. Sono legata anche io dal... Segreto professionale". Il vecchio reverendo rise
di gusto: trovava esilarante definire il suo obbligo al silenzio "segreto professionale". La sua non era una professione, era piuttosto una vocazione, ma lasciò perdere, sapendo che Viola aveva solo fatto una battuta. Era sempre pungente e questo gli piaceva. Però aveva bisogno di sapere di più. Doveva azzardare.
"E dimmi, come sta il figlio del vecchio Langstorm?". Viola rimase immobile con la bottiglia di birra a mezz'aria e voltò lentamente la testa verso il reverendo.
"Prego?" disse.
"Si, il figlio di Langstorm lo scrittore. Come sta Reginald?" disse il reverendo, pur sapendo che Viola non era stupida. Ma non sapeva cos'altro fare.
"Sta bene. Come al solito" rispose Viola, glaciale. Perchè il reverendo voleva sapere di Reginald proprio il giorno in cui era impazzito del tutto?
"Non è vero. E' successo qualcosa. A Reginald, intendo. non chiedermi come lo so, lo so e basta". Il reverendo sperò che la ragazza credesse che uno degli infermieri fosse andato da lui a confessarsi e gli avesse raccontato tutto. Non sarebbe stata la prima volta. L'angelo gli aveva detto che il suo compito riguardava un uomo ricoverato nella clinica della contea. Gli aveva detto chi era e lo aveva indotto ad informarsi. In realtà non sapeva nulla.
"Jackson, non so chi ti abbia raccontato di Langstorm, ma non ne posso parlare. Non posso davvero, mi spiace".
"Viola, quell'uomo è in pericolo, capisci? Il Male..." disse il reverendo.
"Il male non c'entra nulla" sbottò Viola, infastidita "L'aggressività non ha niente a che fare con il diavolo, Jackson. Quell'uiomo ha subito un trauma e quello che lo ha perseguitato in passato è tornato stanotte. Crollo psicotico, punto e basta. E ho già detto fin troppo, discussione chiusa". Viola non voleva aggredire così il reverendo ma aveva avuto una giornata dura. Si scusò e tornò a bere la birra in silenzio, giocando con la forchetta sulla carne. Non aveva più molta fame in quel momento.
'allora è questo che succede' pensò il reverendo 'In quel posto il Male ha trovato Langstorm'.
"Scusa, non volevo essere invadente. ora devo andare... Riguardati, Viola, ti vedo stanca".
"Non volevo essere aggressiva jackson. Ho solo avuto una brutta giornata, ti chiedo scusa".
Il reverendo lasciò Viola sola al bancone, con lo sguardo triste.
Viola era profondamente turbata: cosa voleva il reverendo? Mentre pensava a questo sentì una scossa alla schiena, leggera. 'Che diamine...?' pensò. I suoi pensieri furono interrotti dallo squillo del telefono cellulare. Rispose: "Pronto? Papà, ciao! Come? Stai scherzando? No, aspetta, vengo da te". Si alzò, con gli occhi pieni di lacrime, pensando alla sorte che era toccata a Pat Turner.
Nello stesso momento Jo Blonde si era alzato dal tavolo nell'angolo cui era seduto e aveva pagato il conto. quella sera era troppo stanco per accorgersi di Viola, che era rannicchiata sul piatto e sulla sua birra, nascosta, ma quando le passò vicino avvertì una scossa che gli percorse la spina dorale, ma la scambiò per un brivido. Non si voltò ma la sentì. il giorno dopo avrebbe provato quella sensazione amplificata cento volte, mentre parlava con lo sceriffo Gambon. Jo uscì dal locale proprio mentre Viola rispondeva al telefono.
Il giorno seguente il reverendo Jackson ricevette una nuova visita dell'angelo e gli disse quello che aveva scoperto.
"Molto bene, è come pensavo" disse l'angelo "Il Male vuole qualcosa da Langstorm, qualcosa che lo aiuterebbe a liberarsi. Finchè Langstorm rimane in quella clinica non ci sarà nulla da fare.Sai quello che devi fare". Si, Jackson lo sapeva. Stava per aiutare Dio a liberare West Coburn da qualcosa di orribile.
Era ormai tardo pomeriggio quando il reverendo Jackson salì sul pulmino della parrocchia e mise in moto. Dopo venti minuti era davanti alla clinica psichiatrica della contea. Sapeva che Viola quel giorno si era presa una vacanza. meglio, almeno non poteva sapere che lui era andato li. Comunicò che voleva dare conforto spirituale ad alcuni pazienti e chiese di Langstorm. Sulle prime il dottor Richardson non volle farlo passare, ma poi si chiese come avesse fatto il reverendo a sapere di Langstorm. Se qualcuno aveva parlato era meglio accontentare il reverendo, magari non avrebbe detto niente alla stampa, non che non si fidasse di quell'uomo, ma con il tempo aveva imparato a non fidarsi troppo delle persone. Lo fece passare e disse agli infermieri di farlo entrare, ma di perquisirlo prima. Non aveva niente di sospetto addosso. L'infermiere rimase di guardia alla porta e gli concesse cinque minuti. Al reverendo ne sarebbero bastati molti di meno.
Jackson entrò e vide Langstorm, emaciato e con lo sguardo perso nel vuoto, avvolto nella camicia di forza e seduto al centro della stanza, immobile.
"Ciao Reginald" disse.
"Il Signore è il mio pastore" replicò Reginald, con voce roca.
"Come?" domandò il reverendo. non si aspettava che Langstorm gli avrebbe parlato. Lo credeva catatonico.
"Dio disse ad Abramo: uccidi tuo figlio" continuò Langstorm.
"Reginald, perchè citi la Bibbia?".
"Lo sai qual'è la condizione peggiore di Lucifero?" disse Langstorm freddamente, alzandosi.
"No, io..." balbettò Jackson. Che stava succedendo?
"Era un angelo magnifico, ma questo lo sai. L'Astro del Mattino, la creatura più bella che Dio avesse creato. Ma lui voleva di più, voleva essere lui Dio, perchè si credeva migliore del suo fattore. Fu precipitato sulla terra e si incastrò nell'abisso infernale. Dante lo colloca al centro dell'Inferno, in un lago ghiacciato. Enorme, spaventoso e al buio. Imperatore di un regno che fa paura a tutti, il regno che tutti vorrebbero evitare" ora Langstorm era vicinissimo, la sua bocca era a un centimetro dal viso di Jackson.
"Ecco qual'è il brutto. L'essere più bello e puro trasformato in un mostro, reggitore di un luogo orribile, imprigionato nel buio. Mi ha trovato, reverendo. mi ha trovato e ora devo aiutarlo".
"Chi? Lucifero ti ha trovato?" chiese il reverendo.
"No. lucifero non esiste. Nemmeno Dio. ma chi mi ha trovato, Lui esiste" e detto questo Langstorm si inginocchiò. Il reverendo sapeva cosa doveva fare, ma stava iniziando a dubitare. Allora vide accanto a se l'angelo. Perchè non ci pensava lui? Ma la risposta era chiara: Dio voleva che fosse lui, Jackson Stenson, a farlo. Il reverendo aprì la Bibbia che portava in mano e sfilò il coltello che vi aveva nascosto. Non avevano guardato li dentro mentre l,o perquisivano, forse si fidavano. Tagliò i lacci della camicia di forza. aveva compiuto la sua missione. Langstorm lo colpì con tutta la forza che aveva in corpo e Jackson cadde a terra, poi l'aggressore gli prese il coltello di mano e iniziò a gridare.
Il reverendo vedeva tutto annebbiato e non riusciva ad alzarsi. aveva il naso rotto e gli girava la testa. sentiva langstorm gridare e poi udì la porta della cella aprirsi. Udì l'infermere che urlava mentre Langstorm lo accoltellava e scappava dalla sua stanza. ma si rese conto che non era una stanza , era una cella. E reginald l'aveva appena chiuso dentro. 'Cos'ho fatto?' si domandò.
Spaventato e confuso, si infilò la mano in tasca dove aveva mesos il nastro di Elle. L'aveva tolto dalla scatola dove l'aveva nascosto per portarlo con se e farsi coraggio; il nastro però non c'era. L'aveva perso?
"No, Tesoro2 disse una voce poco distante. Era Elle.
"Elle?" disse Jackson, incredulo "Elle che ci fai qui?".
"Ma io non sono qui. Io sono polvere, amore. Sono morta di un male orribile senza che nessuno potesse aiutarmi e il mio corpo è marcito in una bella cassa di legno
imbottita di velluto". jackson guardò la donna che aveva davanti e urlò: ora vedeva tutto chiaro. Ellle era vestita come il giorno in cui l'aveva seppellito, con un lungo abito nerpo ed era magrissima, più bassa e la sua pelle era marcia, come se fosse carta da parati ammuffita che si stava staccando. Gli occhi non c'erano più e al loro pòsto c'erano lunghi lombrichi che pasteggiavano con la carne rimasta nelle orbite svuotate; i denti erano affilati e non aveva le labbra, le dita erano storte e artigliate. Puzzava come si supponeva che dovesse puzzare la morte e il cranio era quasi esposto, la poca pelle che lo ricopriva scrostata e verdastra.Quella non era Elle.
"No. Ma sono molto di più" disse la non morta Elle e all'improvviso si controrse e cambiò forma. Davanti a lui ora c'era l'angelo.
"Visto, Jackson? Hai visto come è facile manipolare un uomo che ha fede? la fede, solo questo frega voi schifosi esseri Umani. Avete bisogno di credere a tutti i costi in qualcosa. Ti ho accontentato, pidocchioso bastardo. adesso dimmi, come ci si sente a scoprire che il tuo Dio non c'è e non può aiutarti?".
"Chi sei?" urlò disperato Jackson, urtando il muro con le spalle mentre indietreggiava.
"Non l'hai ancora capito?" disse l'angelo, che ora era tornato ad essere la Elle spaventosa di poco prima "Io sono tutto quello che tu hai sempre combattuto. Tra poco potrò uscire e dilagherò sulla Terra. Ego sum captivus. Ma ancora per poco".
"Buon Dio" mormorò il reverendo, cercando di non guardare quel mostro che aveva preso le sembianze della sua defunta moglie e che ora gli alitava in faccia a pochi centimetri di distanza.
"Dio non esiste, Jackson" disse Elle, con voce demoniaca ma fintamente soave "Io si".
Jackson urlò mentre Elle affondava la mano artigliata nel costato e gli frantumava le costole. era un dolore lancinante e percepì l'esatto momento in cui gli artigli gli spappolavano il cuore. 'Mi ha ingannato. Ho liberato un assassino, ho fatto il suo gioco. perdonami Elle'. ebbe il tempo di pensare solo questo, dopodichè, tra atroci dolori, si spense. poco dopo il dottor Richardson apprese della fuga sanguinaria di Reginald ed entrò nella cella. il reverendo era accasciato a terra e Richardson notò un piccolo squarcio sulla camicia nera, in corrispondenza del costato. Sulla pelle, in quel punto, c'era un taglio profondo che sanguinava. Il reverendo era morto.
Nella stanza buia la figura immobile sorrideva. Nell'aria si sentiva l'eco di una risata malvagia. Perchè aveva dovuto fare tutto quello al reverendo? la risposta era semplice: così era molto più divertente. ripensò al dolore dell'uomo nello scoprire di essere stato ingannato. gioiva nel pensare che era riuscito a togliere l'unica cosa che faceva andare avanti il reverendo. la Fede. Gliel'aveva restituita e poi l'aveva tolta di nuovo, prima di farlo morire. Voleva che sapesse che era solo. Solo e dimenticato. e ora il suo servo Langstorm era libero. 'Giochiamo. pedine pronte, Signore e Signori, dame e cavalieri, il giuoco inizia. Ci divertiremo un mondo!'. quelle parole pronunciate dalla voce demoniaca risuonarono nella stanza. 'Sangue e risa. sarà uno spasso'. La sagoma sussultò lievemente. Non vedeva l'ora. Ma la cosa che si nascondeva nel buio, che si nascondeva nel corpo immobile era scontenta: Lei viveva ancora. Ma c'era tempo. E lo Straniero non poteva salvarla ancora per molto.
mercoledì 7 luglio 2010
CAPITOLO 4- PRIGIONIERO
Viola Gambon se ne stava appollaiata sul divano, con un bicchiere pieno di the freddo in una mano e gli occhi rivolti verso il televisore, ma non lo stava guardando veramente. In realtà i suoi pensieri continuavano a tornare a quella mattina e alla visita forzata ai genitori di Pat Turner. Suo padre aveva voluto che ci fosse anche lei per due ragioni fondamentali: lei, come lo sceriffo, conosceva i genitori del ragazzo da molto tempo e poi un valido aiuto psicologico gli avrebbe certamente fatto comodo, del resto Viola era la migliore nel suo campo, era un'ottima ascoltatrice e aveva un talento naturale nel capire le persone, sapeva inquadrarle perfettamente nel giro di pochi secondi. Quando avevano suonato il campanello aveva sentito una stretta allo stomaco: quella volta non sarebbe stato come al solito e lo sapeva bene, era troppo coinvolta sentimentalmente in tutta la faccenda, anche se cercava di simulare un minimo di freddezza, cosa che le riusciva solo in parte. Lo sceriffo la guardava con la sua stessa espressione tesa: Viola aveva ricambiato lo sguardo di suo padre e lo aveva fissato con due paia di occhi identici; la porta della villetta si era aperta ed era comparso sulla soglia un uomo alto, sulla cinquantina, che indossava un paio di bermuda color kakhi e una t-shirt dello stesso colore, con al centro una stampa che riproduceva l'immagine dello Zio Sam in versione scheletro.
Quando James Turner aveva visto chi aveva suonato il campanello sbiancò in volto: era molto tempo che Viola non faceva visita a lui e Susan e Hannibal era in servizio in quel momento. Aveva capito subito che se si trovavano li non era per una visita di cortesia.
"Ciao James" aveva detto Gambon con voce grave.
"Hannibal" aveva replicato l'altro, con il respiro strozzato "Che è successo?".
Gambon aveva guardato di nuovo sua figlia e si era tolto il cappello a tesa larga che portava sempre calcato sul capo, poi aveva rivolto lo sguardo verso l'amico e aveva continuato: "Possiamo entrare?".
"Dio" aveva detto James, con gli occhi che si riempivano di lacrime "Si... si tratta di Pat?".
"Temo di si. Davvero, è meglio se ne parliamo dentro" aveva ribattuto Gambon.
Erano entrati e subito avevano notato una donna, ancora bella nonostante non fosse più così giovane, che era appoggiata contro il muro e si copriva il volto con le mani: Susan Turner doveva aver sentito la conversazione che suo marito aveva avuto con lo sceriffo.
"Cosa gli è successo?" aveva domandato tra le lacrime "Cos'ha fatto stavolta? Ha rubato un auto? Gli hanno spaccato la faccia?". Aveva quasi gridato. Gambon aveva provato una gran pena per Susan: stravedeva per Pat ma il ragazzo non faceva nulla per renderle la vita facile e si era sempre cacciato nei guai. Gambon aveva fatto sedere i Turner in salotto e aveva spiegato loro di come avevano trovato il pick up incidentato sulla strada e quando arrivò al punto in cui avevano trovato il corpo di loro figlio nel bosco non riuscì a continuare.
"Ma lui dov'è, Hannibal? Dov'è mio figlio?" chiese James, anche se aveva ormai intuito tutto. Gambon non rispose: non sapeva perchè, ma non riusciva a dirlo.
"James" intervenne Viola e puntò sull'uomo i suoi occhi meravigliosi, che ora brillavano di lacrime "Pat ha avuto un brutto incidente. Era..." e qui aveva esitato. Avrebbe dovuto dirgli che era completamente ubriaco e probabilmente impasticcato al momento dello schianto?
"Non ce l'ha fatta" aveva concluso, rapidamente. Una lacrima era scesa a rigargli il volto: anche in quel momento era stupenda e anzi sembrava essere ancora più bella del solito. James si era afflosciato sul divano, con lo sguardo perso nel vuoto, Susan invece aveva avuto una reazione completamente diversa: con uno strillo acuto si era gettata tra le braccia di Viola e si era abbandonata ad un pianto dirotto. Viola l'aveva abbracciata e le aveva sussurrato all'orecchio di sfogarsi, di buttare tutto fuori; la ragazza aveva chiuso gli occhi e aveva stretto la donna amorevolmente, passandole piano la mano sulla spalla per farle coraggio. Gambon aveva osservato la scena e non aveva potuto fare a meno di notare la smorfia di dolore che era passata sul volto di sua figlia: le labbra erano arricciate e contratte, mentre gli occhi erano chiusi, le narici leggermente dilatate. Lo sceriffo sapeva quanto Viola stesse soffrendo in quel momento, ma non l'avrebbe vista piangere a dirotto come aveva fatto Susan Turner.
Mentre ripensava a quella mattina viola provò una fitta di dolore al petto: era stata dai Turner per ore, per cercare di aiutarli a superare il primo momento di smarrimento. James era un uomo forte e si sarebbe ripreso, ma Susan... lei non aveva mai voluto accettare il fatto che suo figlio non fosse il bravo ragazzo che aveva sempre creduto e, a differenza di James, non si sarebbe mai aspettata di sentirsi dire che era morto. Temeva che la donna avrebbe avuto un crollo nervoso, così aveva deciso che l'avrebbe seguita giornalmente a casa, per aiutarla a mettersi il cuore in pace, ma non sarebbe stato facile: la morte di un figlio era un trauma che molti non riuscivano a superare nemmeno nel corso di anni e anni.
Sorseggiò il the e appoggiò il bicchiere sul tavolino accanto al divano, poi si rannicchiò ancora di più. Non avrebbe potuto essere più bella che in quel momento: indossava una canottiera attillata con una scollatura che metteva in evidenza la rotondità perfetta dei seni e un paio di shorts bianchi, cosi che si potevano notare le lunghe gambe nude dalle cosce tornite; i capelli neri e lunghi le ricadevano sul petto e così rannicchiata era terribilmente sensuale. Si sentiva incredibilmente triste e aveva anche pianto parecchio, una volta tornata a casa: era molto che non i sentiva con Pat Turner, ma con tutto quello che c'era stato tra loro non poteva non sentirsi distrutta. Guardò l'ora: le nove e mezza di sera. si alzò e andò in camera da letto; dopo cinque minuti ne uscì con indosso una maglia color panna con il collo molle che ricadeva sul davanti, allargandosi a scoprire la scollatura e un paio di jeans, poi si mise la matita sugli occhi, rendendoli ancora più straordinari di quanto già non fossero, afferrò la borsa e uscì di casa. In pochi minuti fu in centro e iniziò a passeggiare, sperando di riuscire a distrarsi.
Cartbury non era più nel bosco, ma ormai si era fatta sera. Il suo amico era sempre accanto a lui e ogni tanto uno schizzo di sangue dall'occhio devastato gli macchiava la polo, che era ormai tutta incrostata da macchie scure e rapprese.
"Cosa ci facciamo qui?" chiese Cartbury con il solito sorriso ebete.
"Dev fare una cosa. Lui vuole che lei la faccia" rispose l'altro.
"Se lo chiede Lui allora lo faccio".
"Non è una cosa bella, agente. Ma va fatta" continuò l'uomo senza occhio.
"Nessun problema. Non ci sono problemi" rispose Cartbury.
"Molto bene. Molto molto bene. Ce l'ha ancora la pistola, agente?".
"Certo" disse Cartbury tirando fuori dalla tasca la Glock.
"Eccellente. Adesso entri e la usi".
"Va bene. se Lui vuole così, lo faccio".
"Bene, agente. Molto bene". Cartbury sfondò la porta della casetta davanti a cui si trovava ed entrò.
Jo era nella tavola calda di Spike. Per tutto il giorno non era riuscito a pensare ad altro che Viola Gambon: era rimasto letteralmente stregato da quella ragazza. era la cosa più bella che avesse mai visto e sentiva ancora il suo profumo nelle narici se respirava a fondo. Sorseggiò il suo caffè con noncuranza e ordinò un piatto di patatine fritte. Si chiedeva se sarebbe mai riuscito a conoscerla meglio, non gli sarebbe affatto dispiaciuto
(A lei si però)
Questo pensiero lo attraversò come un proiettile: con quale coraggio poteva pensare che Viola si sarebbe interessata a uno come lui? Era stato un uomo orribile, anche se ora era cambiato. 'Il passato non si cancella' pensò 'Puoi far finta che niente sia accadto, puoi credere di aver cambiato vita e di essere una persona migliore, forse, ma le cose non cambiano'. E ora era li che no riusciva a togliersi dalla testa quegli occhi così belli. Quando era tornato a casa quella mattina si era buttato in doccia e poi si era appisolato sul divano; naturalmente aveva sognato lei: era lì, nell'oscurità densissima che lo fissava, la pelle bianca e i capelli neri che si confondevano con l'oscurità alle sue spalle. Ricordava che nel sogno aveva fissato a lungo il suo viso: le sue ciglia lunghe e gli occhi come gocce orizzontali, il naso lentigginoso, stupendo, e quelle labbra così morbide. Ma qualcosa non andava: nel buio dietro di lei c'era qualcosa, una sagoma più chiara che si avvicinava e in mano aveva una pistola. Jo le aveva urlato di scappare, ma lei lo aveva guardato socchiudendo gli occhi e arricciando le labbra: lo stesso sguardo desideroso che le aveva visto poche ore prima mentre se ne andava con lo sceriffo dalla tavola calda. Mentre cercava di spostarla, di sottrarla alle grinfie dell'uomo con la pistola si era svegliato. non sapeva dire cosa significasse quel sogno, ma certo era strano: si sarebbe aspettato di sognare qualcosa di diverso, visto il desiderio irrefrenabile che provava per lei. 'Ti si è fottuto il cervello' pensò 'Nemmeno la conosci e ti comporti come un ragazzino innamorato. Patetico'.
Mentre pensava questo la porta della tavola calda si aprì e lui rischiò di strozzarsi con il caffè che stava bevendo: come una visione inaspettata era apparsa sulla soglia quella che nelle ultime ore era diventata la sua ossessione: Viola era lì, ancora più bella rispetto a quando l'aveva vista quella mattina.
lei lo notò subito e gli fece un cenno di saluto, poi a passo spedito si diresse verso il suo tavolo. "Posso?" chiese.
(Assolutamente si!)
"Ciao viola" disse lui, cercando di darsi un contegno "Prego".
"Dobbiamo smetterla di incontrarci così" disse lei allegra mentre si accomodava.
"Scusa?" disse lui, sopreso.
"Citazione da un film, non ricordo quale, ma la frase è perfetta per la situazione. Ti incontro una volta alla tavola calda di Spike e speravo di rivederti. E dove ti trovo? Di nuovo qui" rispose lei, sicura.
'Speravo di rivederti?'. Il cuore di Jo aveva aumentato i battiti.
"Beh anch'io speravo di rivederti. Ed eccoci qua".
"Già" disse lei, con una lieve nota di imbarazzo nella voce.
La cameriera arrivò con il piatto di patatine fritte. "Prendine pure" disse Jo.
"Grazie" rispose lei. Parlarono a lungo e Jo pensò che non c'era nessun altro posto in cui sarebbe voluto essere: stava bene con lei, adorava guardarla mentre parlava del suo lavoro con i ragazzi, adorava sentirla dire qualunque cosa perchè aveva una voce calda e sensuale. Constatò che era brillante e si poteva parlare di tutto con lei, visto che era anche dannatamente intelligente e sveglia. Per tutto il tempo in cui rimasero seduti a parlare lei non gli staccò gli occhi di dosso e lo guardava intensamente e di tanto in tanto le labbra si allargavano in quel sorriso spostato verso destra che Jo trovava irresistibile. C'era un che di cinico in lei, affrontava qualunque argomento con un'ironia sottile e tagliente che lo faceva impazzire. 'Come fa ad essere tanto perfetta?' pensò. Eppure notava che c'era qualcosa a turbarla: i suoi occhi meravigliosi erano leggermente velati dalla preoccupazione, ma forse era solo un'idea di Jo. Dopo un po' lei guardò l'orologio e disse:"Già mezzanotte. Dovrei andare".
"Ti accompagno" disse lui pronto.
('Che stai facendo? Non sei pronto ancora')
Ignorò quel pensiero. Viola Gambon ormai lo aveva rapito e a lui non dispiaceva affatto. Erano mesi che non si sentiva così vivo. 'Cancella tutto' pensò 'Non mi ero mai sentito così vivo'.
Uscirono dalla tavola calda e si avviarono. Mentre camminavano Jo disse, quasi senza pensare: "Ho sentito che hanno trovato un ragazzo morto nel bosco. Ne stava parlando spike con un tizio prima che tu arrivassi".
"Pat" disse, con la voce tremante "Lui era...". Ma qui si bloccò e Jo capì di avere toccato il tasto sbagliato. Le mise timidamente una mano sulla spalla e si scusò.
"Non devi scusarti" disse lei, con una lacrima che pendeva dalle ciglia lunghissime "Non ne ho parlato con nessuno. Nemmeno con mio padre... Voglio dire, lui sa come sto, ma non mi andava di parlare. Ma con te è diverso".
"Perchè sarebbe diverso?" chiese Jo.
"detesto farmi vedere in queste condizioni. Non voglio che nessuno mi veda così. Ma tu" e gli passò un indice sul mento "tu sei diverso. hai questi occhi così tristi, sofferenti. Io e Pat Turner eravamo fidanzati, anni fa. Credo che sia uno dei pochi che sia riuscita ad amare... veramente". Jo era sbalordito: la conosceva solo da poche ore e lei gli stava raccontando una cosa tanto personale. Si sentiva a disagio.
"Scusa, non volevo" disse lei, accorgendosi della sua perplessità.
"No, continua. Solo non mi aspettavo che ti andasse di parlarmene".
"Non lo credevo nemmeno io. c'è qualcosa in te che... Ad ogni modo io e Pat siamo stati insieme per due anni. Io ero più grande di lui di tre anni, ma non mi importava. era un ragazzo difficile, ribelle e questo mi faceva impazzire. Andava sempre in giro con altri due: Preston e Peter, tra di loro si chiamavano scherzosamente 'Le tre P'". Ora aveva il volto rigato dalle lacrime. Jo la ascoltava in silenzio, tenendole la mano mentre camminavano.
"Un giorno di pochi anni fa erano tutti e tre sul furgoncino di Peter, che era alla guida ubriaco. Accosto il furgoncino proprio al limite del burrone per andare a vomitare, non si sentiva bene. Pat e Preston erano troppo bevuti per poter anche solo pensare di mettersi alla guida. Peter scese e non mise il freno a mano. Fu questione di pochi secondi e si ritrovarono in acqua, dentro al mezzo. pat era terrorizzato e cercò subito di uscire, ma Preston era incastrato tra i due sedile e aveva battuto la testa, svenendo. Pat aspettò che tutto l'abitacolo fosse sommerso prima di mettersi in salvo e lasciare Preston a morire. Ma non aveva scelta, capisci?". Jo annuì in silenzio.
"Ma Pat non si perdonò mai. Mai. Incominciò a bere per davvero e divenne alcoolizzato, si devastava con la droga e pian piano divenne un poco di buono. Non mi volle più vedere perchè odiava quello che aveva fatto e cos'era diventato. Un relitto. E ora è morto".
Jo la abbracciò e lei ricambiò, stringendolo forte tra le braccia. Jo credette di stare per morire: il cuore gli stava per scoppiare e sentiva il volto caldo di lei premuto contro la spalla.
"Mi dispiace" disse lui "E' terribile, ma devi andare avanti". 'Grazie tante genio' pensò mentre parlava 'Potevi trovare qualcosa di meglio da dirle'.
Era incredibile la confidenza che avevano già lui e Viola dopo poche ore che si erano conosciuti. C'era qualcosa in quella ragazza che la rendeva diversa dalle altre, come se nel destino di Jo ci fosse sempre stato scritto che si sarebbero incontrati. 'Idea assurda' pensò lui.
Camminarono ancora un po' e davanti a loro si parò un uomo molto basso, con un pizzetto a punta e un paio di ridicoli occhiali da sole. "Viola" disse.
"Stu" replicò lei, quasi disgustata.
"Perchè non molli mister tristezza, qui " e indicò sprezzante Jo "e vieni a farti una birra con me? Dopo Andiamo a casa mia e ti faccio vedere una cosina che ho imparato...".
"Mi piacerebbe davvero tanto, Stu" disse lei con voce falsamente dispiaciuta "Ma poi non vorrei che Biancaneve si ingelosisse. Dove sono gli altri sei?".
Stu divenne paonazzo e se ne andò spintonando Jo, che era alto quasi il doppio.
"Quello chi era?" chiese.
"Un idiota, non farci caso. in questo posto ci provano tutti, dal primo all'ultimo. Non mi danno mai tregua". Jo poteva capire il perchè.
arrivarono davanti alla chiesa e Viola assottiglio le palpebre dietro agli occhiali: cos'era quella cosa davanti al portone? Jo guardò nella stessa direzione e istintivamente le mise una mano a coprirle il volto e la voltò, stringendola forte a se.
"Jo che ti prende?" chiese lei più che sorpresa.
"Non guardare" disse lui inorridito "Non voglio che guardi".
"ma perchè? Cosa..." cercò di chiedere lei, ma Jo la strinse più forte di prima.
"Chiama tuo padre mentre vado a vedere".
Viola ancora non capiva, ma di certo non aveva intenzione di dare ascolto a Jo: lo seguì a passo spedito e più si avvicinava, più capiva la reazione dell'altro. Quando fu più vicina vide Jo che si voltava disgustato e correva verso la siepe più vicina: vomitò tutto quello che aveva mangiato alla tavola calda. Viola si avvicinò al portone e i suoi occhi si spalancarono, inorriditi e scintillanti. Le sue labbra morbide si stirarono in una smorfia di disgusto e il naso lentigginoso ebbe un fremito quando fu raggiunto dalla puzza di mattatoio. Davanti alla ragazza si presentava uno spettacolo spaventoso: un vecchio, probabilmente un barbone, a giudicare dagli stracci consunti che indossava, giaceva inchiodato al portone di legno, come una grottesca imitazione del Cristo in croce. Il volto esangue era bianco e orribilmente sfregiato, come se ci avessero passato ripetutamente sopra una lama e la folta barba grigia era intrisa di sangue raggrumato; gli occhi castani erano sbarrati e vi si poteva leggere un cieco terrore congelato per sempre al loro interno. Era a torso nudo e oltre alla spaventosa magrezza, Viola notò le ferite tremende che aveva sul petto e si sforzò di non vomitare; i piedi non erano stati inchiodati e il peso del corpo stava spezzando i polsi in cui erano conficcati i chiodi, che si erano già incominciati a torcere, così che le ferite procurate dal metallo sanguinavano copiosamente e si allargavano sempre di più, lacerando la carne e i tendini che affioravano come sottili corde di chitarra. Le gambe magrissime erano coperte da un paio di pantaloni stracciati e dai buchi nel tessuto si intravedeva la pelle biancastra. Viola era inorridita e mentre guardava lo spettacolo impressionante fu raggiunta da Jo, che nel frattempo si era ripreso.
"Perchè hai guardato?" le chiese.
"Chi sei, mio padre?" disse lei cercando di scherzare, ma sentiva che avrebbe vomitato anche lei "E' spaventoso. Chi può...?" ma non finì la frase perchè dovette voltarsi per non sentire l'odore del sangue. Ce n'era tantissimo, sul portone, sul corpo del vecchio e sui muri, addirittura si era formata una gigantesca pozzanghera proprio sotto al cadavere. Poi Jo alzò lo sguardo e vide una cosa che non aveva notato prima, anche se era evidente: sopra l'arcata descritta dal portone, sul muro candido, c'era una scritta fatta con il sangue che diceva: EGO SUM CAPTIVUS.
La calligrafia era storta e appuntita e questo si notava anche se il liquido era colato, rendendola ancora più grottesca. Jo rimase perplesso: era ancora sconvolto e doveva pensare a Viola, ma non potè fare a meno di sentirsi sorpreso, visto che la scritta era in latino. Viola era ancora lì con l'espressione sconvolta, così Jo si fece dare da lei il numero dello sceriffo e gli spiegò la situazione. Dopo mezz'ora Gambon era sul posto e subito abbracciò la figlia, cercando di tranquillizzarla. Jo notò che Viola era diventata silenziosa e la sua pelle era più bianca del solito, gli occhi spaventati e le labbra che di tanto in tanto tremavano. Le passò un dito sul naso, non seppe perchè, ma la sentì rabbrividire di piacere: "Non preoccuparti" le disse sussurrandole all'orecchio "Adesso ti porto a casa". Lei annuì, ma era ancora tesa. Lo sceriffo domandò a Jo come avessero fatto a trovare il corpo e lui spiegò che avevano semplicemente visto il corpo inchiodato ai battenti.
"Non ho mai visto una cosa del genere qui a West Coburn. Mai" disse Gambon.
"Io non credevo che avrei mai visto niente di simile. Ho vomitato davanti a sua figlia" disse Jo cercando di sdrammatizzare.
"Non credo che ti giudicherà per questo. Sto avendo qualche problema anche io a tenere la cena nello stomaco. E il mio secondo ancora non si è visto" replicò Gambon, pensando con ansia a Cartbury che ancora non si era fatto vivo.
"Capisco" disse Jo "C'è qualcosa che posso fare per aiutarla?".
"Ho chiamato altri agenti e la scientifica sarà qui domattina. Potete andare e ti prego di assicurarti che lei stia bene prima di lasciarla sola" disse Gambon accennando a Viola.
"Con me è al sicuro" affermò Jo.
"Lo spero" disse Gambon, guardandolo sospettoso. Jo cinse Viola con un braccio e si diressero verso casa.
"Un momento" li fermò Gambon "Una cosa che puoi dirmi ci sarebbe, Jo".
"Mi dica sceriffo".
"Tu sei un insegnante, giusto?" Non è che per caso..."
"Io sono prigioniero" disse Jo.
"Prego?" domandò Gambon confuso.
"Avrei dovuto dirglielo prima, sceriffo, mi scusi. E' la scritta: è latino e significa 'io sono prigioniero'".
"Grazie" replicò Gambon. A chi sarebbe mai venuto in mente di fare uno scempio simile? e chi avrebbe potuto saper scrivere in latino in quel posto? Naturalmente l'assassino poteva benissimo aver copiato la frase da qualche libro senza sapere bene cosa significasse. Ad ogni modo Gambon era semplicemente sconvolto: era il secondo cadavere che rinveniva in pochi giorni, ma questo era stato palesemente massacrato. Si avvicinò ancora di più al corpo e osservò le ferite al petto. Sgranò gli occhi.
"Jo!" urlò "Vieni presto!". Jo sciolse Viola dall'abbraccio e si diresse verso il vecchio sceriffo.
"Che succede?" domandò.
"Le ferite sul petto. Mi spiace, non posso lasciarti andare".
"Come?" chiese Jo, confuso.
"Le ferite" ripetè Gambon, gravemente.
Jo le osservò e capì: non erano semplici tagli. Qualcuno aveva inciso una frase con una lama, scrivendola in corsivo sottile. non l'aveva notata prima perchè era lontano e dalla ferita era sgorgato molto sangue, ma ora che era a pochi centimetri leggeva chiaramente: 'Lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo ci cade dentro'.
"Sono le parole che hai detto stamattina, Jo" disse lentamente Gambon.
"Cosa vuole dirmi? Sono sospettato?" trasalì Jo.
"Non posso escludere nulla. Sei appena arrivato in città e trovo un cadavere orrendamente sfigurato che riporta sul petto la frase che ti ho sentito mormorare alla tavola calda. Cosa dovrei pensare? tutto è possibile. Mi dispiace ma devo dichiararti in arresto".
"Questo è ridicolo!" sbottò Viola "E' stato con me tutta la sera e a occhio e croce quell'uomo è stato ammazzato un paio di ore fa".
"Come fai a dirlo?".
"Ho studiato medicina di base papà, ricordi? Le ferite sono troppo fresche, te lo confermerà il medico legale".
"Lo tratterrò in centrale fino a che non avremo stabilito l'ora del decesso".
"Non puoi farlo!" disse Viola, furente. Jo vedeva la rabbia nei suoi occhi straordinari e pensò che non esisteva niente di più bello e puro di Viola Gambon.
"Sono io lo sceriffo e dico che lo terrò in custodia fino a domani". Viola stava per ribattere ma il suo telefono cellulare squillò.
"Pronto?" disse. Rimase in silenzio e le labbra si incresparono "Come? Quasndo? Sono con mio padre, glielo riferisco subito". Viola riattaccò.
"Che è successo?" domandò Gambon.
"Puoi lasciarlo andare, papaà" disse indicando Jo "Era il dottor Hoffman. Mi ha chiamato per dirmi che il paziente di cui ti ho parlato stamattina, quello che ha cercato di strangolare un infermiere è scappato qualche ora fa. Hanno trovato due infermieri morti in uno sgabuzzino, li ha uccisi per fuggire. Jo conosceva quella frase, è vero, ma la conosceva anche quell'uomo. E' stato lui, ne sono certa: tra le tante cose assurde che blaterava aveva detto qualcosa riguardo ad un prigioniero. Ora ricordo" era come se le si fosse accesa una lampadina in testa.
"Dici sul serio?" disse Gambon.
"Assolutamente si".
"D'accordo, allora riportala a casa, Jo. ma non lasciare West Coburn per nessun motivo". Jo non si sarebbe allontanato da Viola per niente al mondo, per cui annuì.
"Come si chiama il paziente, Viola?" chiese Gambon.
"Langstorm" rispose lei "Reginald Langstorm".
"Come?" sussultò Jo "E' per caso...".
"Il figlio di peter Langstorm. Si" concluse per lui Gambon.
'Brutta storia' pensò Jo. poi, dopo essersi assicurato che Gambon non sopsettava di lui, accompagnò Viola a casa.
Cartbury sedeva al buio. Il suo amico guardava dritto davanti a se e non parlava. Erano entrati nella casa ma non c'era nessuno, così stavano aspettando e Cartbury stringeva saldamente la Glock, in attesa di usarla.
"Tra poco sarà qui. E' meglio se non sbaglia, agente" disse l'uomo con l'occhio ferito.
"La mia mira è buona, lo sai" ridacchiò Cartbury.
"Lo so" disse l'altro e il foro nell'occhio pulsò leggermente, colando pus giallastro che andò ad aggiungersi alla collezione di macchie sulla polo.
"Non te l'ho mai chiesto" disse Cartbury "Ma ti fa male?" e indicò la ferita.
"No. Io non provo dolore, agente. Sono immune a ogni emozione umana, eccetto una".
"Quale?".
"La più forte".
"L'amore?" domandò Cartbury con voce strascicata.
"L'odio". Cartbury annuì ma non disse altro: aveva sentito un rumore di voci all'esterno.
"E' ora, agente. Non sbagli".
"Io non sbaglio mai" replicò Cartbury e si mise in piedi davanti alla porta, con la pistola puntata all'altezza dello spioncino.
Jo era davanti alla casa di Viola e stava per farla entrare, quando notò che la porta era stata sfondata e ora era solo socchiusa. Le fece cenno di stare indietro, ma quando fece per toccare il pomello accadde una cosa strana: sentì una voce contraffatta nella sua testa che mormorava ossessivamente: "Non farlo! Non colpire lo straniero, vattene! Vattene!". prima che potesse capire da dove venisse la voce spalancò la porta e vide un giovane in piedi, con lo sguardo fisso e una pistola in mano. 'Spara a lei! Spara a lei!' gridava la voce.
"No!" urlò Jo e come se sapesse che a lui il giovane non avrebbe sparato, gli saltò addossò e lo disarmò con estrema facilità. Viola entrò e vide Cartbury con gli occhi sbarrati e biancastri.
"Cartbury?" disse perplessa.
Cartbury gridò: "Viola! devo sparare a Viola! Viola!". Era come impazzito.
viola era sbigottita: voleva ucciderla? Jo prese dalla cintira del ragazzo le manette che portava appese e lo immobilizzò. Cartbury sollevò lo sguardo e vide l'uomo senza occhio che lo guardava inferocito: "fallire non è contemplato, agente. ha esitato perchè voleva vedere lo Straniero. Non ha sparato a lei perchpè era troppo occupato a guardarlo. E' stato curioso agente".
"I curiosi" mormorò Cartbury, con stupore di Jo "Sono stolti".
"E lo stolto che si sporge per guardare il fondo del pozzo ci cade dentro!" strepitò l'altro. Ma nessuno lo poteva vedere, solo cartbury. L'agente gridò di terrore e Jo e Viola non capirono perchè. cartbury sentì a malapena i denti dell'uomo senza occhio che affondavano nel suo collo e gli strappavano la testa.
Quello che però Jo e Viola videro fu il giovane che gridava e contorceva il collo, come se glielo stessero azzannando. L'urlo fui atroce, po, improvvisamente, espirò con violenza, sputando sangue e rimase fermo immobile. Era morto.
Nella stanza buia la persona sdraiata immobile aveva gli occhi fissi. Non emetteva nessun suono ma era furente, assolutamente furente. Quella notte il bosco avrebbe tremato per la sua ira. 'Non posso perdere tempo' si sentì mormorare e questa volta era una voce tremenda. Se il male avesse avuto una voce, sarebbe stata certamente quella. 'Gli stolti cadranno tutti nel pozzo. D'ora in poi la pietà è bandita. Straniero, Amore mio, presto ti avrò. E tutto il mio dolore finirà. Ego sum captivus. Ancora per poco'.
Gambon ricevette la telefonata di Viola poco dopo che lei e Jo avevano incontrato Cartbury. lo sceriffo era allibito. Cartbury aveva tentato di ucciderla? per quale motivo? Mentre pensava a tutto questo avvertì un rumore alle sue spalle e si voltò: davanti a lui c'era un uomo coperto di sangue. Era il figlio di Langstorm. si inginocchiò e disse a Gambon: "Sono stato io. Ora voglio andare dove vanno quelli come me".
"Sarai accontentato" disse Gambon, ammanettandolo. Mentre lo caricava in macchina avrebbe giurato che Reginald Langstorm stesse sorridendo, ma era ancora troppo sconvolto a causa della morte inspiegabile di Cartbury per capire se era stata solo una sua impressione oppure no, comunque non aveva importanza. 'Portami lì. Portamici e farò iniziare il secondo atto' pensò Reginald. Ma Gambon non notò la luce diabolica nei suoi occhi.
Iscriviti a:
Post (Atom)